sabato 25 novembre 2023

Donne e patriarcato

La morte atroce di Giulia Cecchettin, la ragazza ammazzata a coltellate dall’ex fidanzato che non voleva accettare la fine del rapporto, ha nuovamente acceso le passioni più forti e qualcuno di quelli che frequentano il Bar Italia, la metafora bersaniana del populismo, ha perfino invocato la pena di morte. Negli ambienti piazzaioli e mediatici si è parlato invece del patriarcato, a cui si è voluto dare la colpa. Ancora una volta la condanna precisa per chi ha compiuto l’assassinio è stata trasferita ad un generico responsabile immateriale, secondo tutta una linea di pensiero psico-sociologico. Per l’età che ho, il patriarcato è memoria. In ogni famiglia il padre in preminenza era il garante dell’ordine famigliare, coaudiuvato dalla moglie. Leonardo Sciascia sosteneva che il matriarcato nel Sud Italia non ha mai smesso di dominare. In realtà funzionava una sorta di diarchia. Non mancavano, evidentemente, con gli aspetti positivi anche alcuni negativi, perfino degeneri, come in tutti i sistemi. Ma c’era un sistema! È sbagliato leggere quell’ordine con le teorie antropologiche di oggi. Se così facessimo dovremmo eliminare come negativo tutto il passato, cancellarlo, dalla costola di Adamo in poi; come purtroppo si predica di fare (cancel culture). Oggi, al posto di un sistema, c’è il vuoto. Ognuno per sé e nessuno per tutti. Nei tempi del patriarcato le ragazze erano sacre. Nessuno all’esterno della famiglia si poteva permettere di mancar loro di rispetto, di farle oggetto di molestie, di insistenze, di cattive attenzioni. Chi lo faceva non tardava a vedersela col padre, coi fratelli, con gli zii, coi cugini, spesso con l’intera ghetonia. Difficilmente se la passava liscia. La rottura di un fidanzamento o di un matrimonio era questione che riguardava le famiglie e le controversie si risolvevano pacificamente, tutt’al più restava qualche screzio che il tempo appianava. Non era solo paura che tratteneva dal mancare di rispetto ad una ragazza ma anche la consapevolezza di diventare un paria e di finire nell’isolamento. Va da sé che a quei tempi le donne erano soggette in famiglia a vincoli di ogni genere, di madri, di mogli, di sorelle; esse venivano nell’ambito famigliare dopo i maschi, dal padre ai fratelli. Non si augurava mai figlie femmine a chi si sposava, ma maschi; e non solo perché questi entravano crescendo nelle attività lavorative della famiglia, ma perché perpetuavano la “razza”, di cui le madri erano orgogliose quanto e a volte più dei padri. Non si lasciava mai la parte migliore dell’eredità alle femmine, ma sempre ai maschi, che dovevano perpetuare il “nome” della famiglia. Poi è avanzata la cultura del femminismo. In questo processo i maschi hanno dato il loro contributo sempre più convinto. Le donne non sono state mai lasciate sole. Il Novecento è stato il secolo che ha visto il raggiungimento di traguardi importanti, perseguiti e riconosciuti da tutte le agenzie nazionali e internazionali fino ai pieni diritti. Coerente a livello patriarcale è stato il fascismo, che, se da un lato considerava le donne intoccabili e superprotette da un altro le legava ai loro doveri di mogli, di madri e di cittadine pienamente inserite e impegnate nei traguardi del regime fin dalla nascita. Poi è venuta la libertà per tutti, conquistata con lacrime e sangue; ma la libertà non ha solo i costi del conquistarla, ha anche i costi per conservarla. E ancora una volta, lacrime e sangue, come provano le continue tragedie. Oggi le donne sono libere da ogni sorta di sottomissione, di tutela, di controllo. Ma sono sole! Io penso che quella ragazza uccisa quando si è vista assalire dall’ex fidanzato abbia invocato il padre che non era lì a proteggerla. Ma solo era anche il padre, che nulla sapeva dei pericoli che correva la figlia. La nostra è una società di soli, ben oltre le parole profetiche del poeta: “ognuno sta solo sul cuor della terra”. Le manifestazioni cosiddette di solidarietà danno solo una parvenza di compagnia. A volte in casa i membri di una famiglia ignorano l’uno i problemi dell’altro. Un giovane, che sapeva che dietro una ragazza c’era l’intera famiglia, e non solo, non s’azzardava così facilmente ad usarle violenza. Ma oggi, che prevede un giovane che si vendica dell’abbandono della sua ragazza uccidendola? Sa che per prima cosa viene deresponsabilizzato, che sarà processato e condannato ad una pena che gli sarà poi ridotta e commutata, che nel giro di pochi anni è libero e che ancor giovane ha davanti a sé tutta una vita. Quella vita che lui e soltanto lui ha strappato ad una ragazza di ventidue anni il giorno in cui si doveva laureare.

sabato 18 novembre 2023

Ebrei, un destino di ritorno

Qualche giorno fa il mio barista mi chiese di spiegargli in parole povere perché gli ebrei sono così odiati da sempre e in tutto il mondo. Gli risposi: metti che un signore che viene da fuori apra un bar accanto o dirimpetto al tuo e che in poco tempo mentre lui progredisce tu sei costretto a chiudere, metti che quel signore sia un ebreo, tu non puoi non odiarlo. È stato la rovina della tua esistenza, senza peraltro commettere alcun reato. È semplificatorio, d’accordo, ma è così. È l’invidia che anima l’odio contro gli ebrei. Il non sopportare che essi siano più capaci degli altri. A questo aggiungi il deicidio, di cui sono stati accusati, e la situazione antiebraica si completa. Quando il governatore della Giudea Ponzio Pilato chiese al popolo chi liberare per la pasqua di quell’anno Barabba o Gesù, il popolo fomentato dai sacerdoti scelse Barabba. E questi, con tutti i dubbi storici che lo riguardano, era un ribelle, una sorta di terrorista ai danni degli occupanti romani. Al di là di giuste o ingiuste colpe, l’ebraico è un popolo straordinario; vive un destino di eterno ritorno. Nella storia è stato sempre perseguitato, spesso con gravi danni all’economia del paese dal quale veniva espulso, perché senza l’intraprendenza degli ebrei quel paese s’impoveriva. Accadde con la cacciata dalla Francia nel 1182 e dalla Spagna nel 1492. Gli ebrei ovunque si siano insediati hanno migliorato l’economia del paese, hanno prodotto ricchezza, migliorato i servizi, anche con piccole attività commerciali e artigianali. Il filosofo olandese di origine ebraica Baruch de Spinoza campava smerigliando lenti da occhiali. Hanno contribuito allo studio delle arti, delle lettere e delle scienze. Oggi, nel mondo, sono piene le università, le case editrici, le banche, i giornali, le televisioni. Il 20% dei premi Nobel sono stati assegnati a ebrei. Il loro destino di perseguitati ha sviluppato in loro una forte compattezza e solidarietà ovunque si trovino. Perciò chi li attacca deve vedersela con le potenze mondiali, che vivono nella stessa cultura, nella stessa economia, che hanno lo stesso stile di vita e che sanno che il successo non è dono di chissà chi, ma frutto del lavoro, dell’impegno, della tenacia, della capacità di difendere il proprio. Si consideri che le classi dirigenti di molti paesi occidentali hanno ebrei ai vertici delle loro istituzioni. Per dire: Blinken, Segretario di Stato Usa, è ebreo; Schlein, che un giorno potrebbe diventare capo del governo in Italia, è ebrea. Noi occidentali viviamo da sempre nell’etica del lavoro. Calvino (il teologo) sulla predestinazione fu chiaro: guarda alla tua condizione, se sei un fallito sulla terra sei un uomo perso nell’aldilà. Perciò, fai di tutto d’inseguire il successo e di raggiungerlo: è il segno di quel che sei ora, di quel che sarai dopo. È la filosofia del quisque est faber fortunae suae. Vale anche oggi. La terra d’Israele, rivendicata, in parte anche giustamente, dai palestinesi, una volta improduttiva e abbandonata, oggi produce ricchezza; il deserto è diventato giardino, frutteti, aziende. In Cisgiordania, territorio spettante alla Palestina per decisione dell’Onu fin dal 1947 e conquistato da Israele nella guerra del 1967, i coloni ebrei si sono insediati portando dappertutto i segni del lavoro, della crescita, della civiltà occidentale. La loro filosofia di vita è avere la spada accanto all’aratro. E, infatti, i loro kibutz sono difesi dai soldati. Gli ebrei continuano così a dimostrare di essere loro gli eletti del Signore. I vecchi abitanti di quelle terre, i palestinesi, che sono ridotti nel migliore dei casi a lavoratori subordinati, considerano la situazione intollerabile. All’invidia, alla ragione utilitaristica, si aggiunge la civiltà diversa alla quale i palestinesi appartengono, l’Islam. Le componenti più radicali di questa religione non ritengono di coesistere con altre ma delle stesse perseguono l’eliminazione. Ergo: Israele non deve esistere! È considerato un intruso in un mondo di musulmani. Deve scomparire. La posizione così radicale dei palestinesi porta Israele ad essere sempre sul piede di guerra. La sua è una questione di vita o di morte, è ciò che impedisce un duraturo accordo, è la causa del fallimento di tanti tentativi fatti dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi che ad un certo punto sembravano per raggiungere l’obiettivo. Ma quest’ultima guerra che Israele sta combattendo presenta caratteri ancor più gravi e inquietanti rispetto alle precedenti. Non si discute la sua legittimità a difendersi, ma se per farlo pone le premesse di nuovi rancori difficilmente si arriverà mai alla coesistenza dei due popoli in due stati. Il che significa che per gli ebrei, in Israele e nel mondo, è inevitabile vivere in un costante stato di guerra, a rischio del mondo intero. È tragico che altro i figli di David non possono fare.

sabato 11 novembre 2023

Costituzione, cambiare, ma con giudizio

Accade spesso a scuola, mio ambiente professionale, di dover cambiare un testo scolastico. Sulla materia si torna ogni anno per il caro-libri. Ma non è di questo che qui si vuole parlare, per quanto l’argomento meriti la massima considerazione. Quando un professore vuole proporre un nuovo testo deve fare una relazione in cui sono evidenziate le inadeguatezze del testo che si vuol cambiare e illustrate le bontà didattiche di quello che si chiede di introdurre. Del testo vecchio si conoscono i difetti, sperimentati, e del nuovo si ipotizzano i pregi, evidentemente ancora da sperimentare. Non è improbabile che il nuovo, una volta sperimentato, risulti peggio del vecchio. Dico questo dopo aver letto in questi ultimi giorni diversi pareri di esperti sulla riforma delle istituzioni che il governo Meloni intende proporre al Parlamento e in specifico all’elezione diretta del capo del governo, il cosiddetto premierato. Le intenzioni, a prescindere se condivisibili o meno, sono di garantire sempre un governo eletto dal popolo, che è sovrano, e impedire i cosiddetti ribaltoni. Due punti che l’attuale forma istituzionale non sempre ha garantito, specialmente in questi ultimi trent’anni. Quali sono state le “degenerazioni”? Nel fatto che i governi sono durati poco, che ce ne sono stati alcuni voluti dal Presidente della Repubblica, formalmente approvati dal Parlamento, ed altri dalle combinazioni partitiche più stravaganti e contraddittorie. Ricordiamo i berlusconiani governi dei “responsabili” e quelli grillini giallo-verde e giallo-rosso. Va da sé che i governi sono sempre voluti dal popolo, altrimenti sarebbero incostituzionali, indirettamente attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, direttamente attraverso le urne. Nella Repubblica parlamentare, qual è la nostra, un ruolo fondamentale ce l’hanno Presidente della Repubblica e Parlamento, il primo sceglie a chi affidare l’incarico di fare il governo, ovviamente dopo le consultazioni delle forze politiche, il secondo lo deve approvare in maggioranza. Se i governi non durano e si cambiano le maggioranze non accade per difetto della norma ma della politica. La “colpa” della norma è che consente le geometrie variabili della politica. Ora, se il governo Meloni vuole una riforma tale da garantire stabilità dei governi, correttezza politica nei confronti del popolo, ed evitare ribaltini e ribaltoni, è sicuro di riuscirci con la proposta che ha in mente di fare? Questo è il punto. Sono abbastanza noti i caratteri della politica italiana e sappiamo che anche le più granitiche aggregazioni di partiti e di uomini possono ad un certo punto collassare. Il trasformismo depretisiano è diventato pellegrinaggio parlamentare in virtù del fatto che una norma costituzionale consente al parlamentare di “responsabilizzarsi”, leggi cambiare partito, con chi vuole e tutte le volte che vuole, tradendo il mandato popolare ma non la Costituzione. Le leggi si possono cambiare, ma gli uomini chi li cambia? Con la riforma proposta dal governo si rischia di portare fuori dalla Presidenza della Repubblica e dal Parlamento gli stessi difetti di prima, forse anche aggravati, perché la norma è diversa ma gli uomini sono gli stessi. Tenendo conto della realtà delle cose e del fatto che la proposta del governo trova tutte le opposizioni compatte, il che fa pensare che essa non raggiungerà i due terzi del Parlamento in sede di approvazione e si renderà necessario il passaggio referendario, qualche politologo e costituzionalista (Panebianco, Corsera del 6 novembre) suggerisce una riforma concordata con le opposizioni, con qualche aggiustamento per evitare le derive più immorali e impopolari, quelle che hanno allontanato gli elettori dalle urne. Ma bisogna vedere fino a che punto le parti sono disponibili a trattare e se al loro interno sono compatte. Finora sul fronte della maggioranza non ci sono state crepe, ma esse potrebbero prodursi se le opposizioni dovessero lasciare sdegno e furore per proporsi davvero come compartecipi credibili e giungere ad una soluzione comune. Allo stato delle cose non sembra alle viste un avvicinamento o un incontro. Appaiono più probabili la determinazione della maggioranza di andare fino in fondo anche da sola e la volontà delle opposizioni di impedire qualsivoglia proposta di riforma. A questo punto, conviene arrivare alla resa dei conti popolare, con un voto referendario, che Giorgia Meloni crede fortemente a lei favorevole ma non vincolante alla sua permanenza a Palazzo Chigi.

sabato 4 novembre 2023

Intelligenza artificiale e scrittura

Non ho competenze per parlare dell’intelligenza artificiale e delle sue miracolose applicazioni e utilizzazioni. Confesso di avere idiosincrasia per tutte le strabilianti novità dei nostrissimi tempi, tranne che per tutto ciò che serve a salvare vite umane o ad alleviarne le sofferenze. Se mi offrissero gratis un viaggio nello spazio direi no grazie, preferisco farmi una passeggiata a piedi per scoprire luoghi urbani o naturali, a seconda dell’umore. Ecco, l’umore è nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale? Ne dubito e nello stesso tempo ne sono confortato. C’è ancora dove rifugiarsi. Mi pare di aver sentito dire che fra le tante meraviglie che può fare c’è la scrittura di un testo, di un saggio, addirittura di una poesia o di un romanzo. Una cosa che così mi viene di capire: combinati i dati, come degli ingredienti per una ricetta, tanto di e tanto da, l’intelligenza artificiale ti scodella il prodotto. Si dice perfino che può scrivere una poesia alla Leopardi o alla Manzoni. Sarebbe interessante di questi tempi conoscere il pensiero di Leopardi su Fiorello e sul suo demenziale “Viva Rai Due”, il cui spot televisivo spesso segue subito dopo le macellerie di Gaza; o Manzoni dell’attuale conflitto israelo-palestinese, lui che scrisse per la causa italiana “Marzo 1821” dedicandola al poeta tedesco Koerner caduto a Lipsia contro Napoleone. Per stare nel settore giornalismo, si può ipotizzare che messi tutti i dati di una notizia di cronaca in questa sorta di frullatore intelligente, eccoti servito l’articolo. Immagino che già di suo l’arnese intelligente abbia in sé inserito il politicamente corretto. E così il giornalista che firma il pezzo è garantito da qualche involontario strafalcione lessicale in danno delle specie protette della società, che col passare degli anni aumentano sempre di più. La vasta applicazione dell’intelligenza artificiale va oltre l’immaginazione e non lascia prevedere quali possano essere tutte le ricadute positive e negative sull’uomo in quanto individuo unico e irripetibile. Non c’è dubbio, a quel che si dice, che essa potrebbe far rivivere Indro Montanelli e Oriana Fallaci, Fabrizio De Andrè e Domenico Modugno e magari Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi. Ma quanto questi ultramoderni Frankenstein sarebbero paragonabili agli originali? Nel campo della poesia e della letteratura in genere i risultati sarebbero fallimentari, a meno che l’intelligenza artificiale non venga talmente arricchita da avere nelle sue potenzialità anche l’immaginazione e quello che i tedeschi chiamano lo Streben. Potrebbero mai i prodotti dell’intelligenza artificiale contenere nostalgia, tensione, struggimento? In verità, al netto delle mie incompetenze in materia, che tengo a ribadire, a correre seri rischi sarebbero gli uomini per così dire normali, senza alcuna particolare qualifica, i quali finirebbero per essere sostituiti in tutto e per tutto. Essi sarebbero destinati perfino a perdere le prerogative fisiche normalmente impiegate nel lavoro e nella vita di tutti i giorni. Non accadrebbe dall’oggi al domani evidentemente, ma nel prosieguo dei tempi. L’uomo d’oggi non è certo l’uomo di Neanderthal. Così l’uomo di domani, cui non è peregrino associare l’intelligenza artificiale, non sarà quello di oggi. Quanto alla scrittura va da sé che per sopravvivere al comunismo delle menti chi scrive deve cercare di puntare allo stile e al linguaggio, che sono contraddistinguibili, attribuibili alla persona specifica. Essa deve allontanarsi da tutto ciò che omologa, che appiattisce. Deve rifiutare come dannoso quello che è riproducibile da qualsiasiasi macchina. Contro l’intelligenza artificiale l’uomo deve far uscire da sé il suo quid, che lo rende unico; deve far valere la sua ironia, il suo cinismo, la sua imprevedibilità o su altro registro la sua bontà, il suo pietismo, la sua capacità di emozionare. Chiaro che ciò che appartiene troppo ad un individuo può piacere o non piacere, provoca reazioni, divide, al contrario delle regolarità che lasciano indifferenti, che si limitano ad informare in maniera asettica. Non si tratta tanto dell’essere pro o contro qualcuno o qualcosa, ma del modo come lo si è, come si descrive la propria condivisione o contrarietà; il come deve divertire o commuovere, far arrabbiare o compiacere, mai lasciare il lettore indifferente. Non si può scrivere un editoriale, un pezzo di critica come non si può scrivere una novella o un racconto, come un foglietto illustrativo di un medicinale. Non condivido quello che uno scrive, ma mi piace come lo fa, perché lascia pensare che dietro c’è l’intelligenza umana.