mercoledì 30 gennaio 2013

Berlusconi e le mussolinate



Ci risiamo! Un’altra mussolinata di Berlusconi. Egli – si sa – parla come una persona qualunque in un qualunque bar di paese. E’ un male? E’ un bene? Quando fa il porco con le sue olgettine offende il senso della dignità degli italiani, dimostra di non avere un’adeguata considerazione delle istituzioni: fa male, è un diseducatore. Ma, quando dice delle cose vere, fa bene, è un educatore, perché la politica non deve essere il regno delle menzogne, dell’ipocrisia, dell’inganno, di ciò che conviene dire e di ciò che conviene tacere, specialmente quando si parla di storia. La politica dovrebbe essere il regno della verità, se vuole essere credibile, se vuole avere il rispetto della gente. Magari Berlusconi dicesse la verità anche sulle cose economiche e finanziarie che lo riguardano!
Ma, per tornare alla Giorno della Memoria, ricorrenza più sacra della Sacra Famiglia, ha detto che Mussolini sbagliò a fare le leggi razziali. Ha fatto benissimo a dirlo, perché ha interpretato quello che la stragrande maggioranza del popolo italiano pensa e dice, fascisti compresi; ma ha poi aggiunto che per altri aspetti Mussolini fece delle cose buone, con ciò interpretando quello che la stessa stragrande maggioranza del popolo italiano pensa ma non dice, eccetto i fascisti. Sissignori, la stragrande maggioranza del popolo italiano, nell’uno come nell’altro caso! Così Berlusconi si è ritagliato uno spazio di consenso esclusivo nel popolo italiano. Di qui la preoccupazione degli altri, che hanno fatto ricorso all’Europa, all’America, e se avessero potuto anche all’Onu e alla Nato.
L’incidente provocato ha però aperto un problema serio nel rapporto classe politica-popolo. E’ giusto, è opportuno che la classe politica consideri il popolo italiano un bambino a cui si deve nascondere qualcosa per non guastargli la crescita e la formazione? Il popolo “bambino” lo si può capire nelle dittature non nelle democrazie. Tacere il bene che fece Mussolini è un’esigenza politica, un fattore di utile conformismo, ma anche di stravolgimento dell’idea democratica, che così intesa sembrerebbe debole e inadeguata a tenere insieme un popolo nella sua memoria collettiva e a formargli una coscienza nazionale. Né il male né il bene scompaiono semplicemente tacendoli. L’educazione di un popolo passa attraverso l’accettazione anche di ciò che non piace ammettere, non certo nel suo nascondimento o peggio ancora nella sua rimozione come se non fosse mai accaduto.
Quanti italiani considerano un male la bonifica delle paludi pontine, la fondazione di numerose città, la riforma del sistema bancario del 1926, la conciliazione con la chiesa, la ricostruzione industriale (Iri), lo Stato sociale, l’Enciclopedia Italiana, le tante mostre ed esposizioni per le quali l’Italia è ancora famosa nel mondo, tutta l’arte e la letteratura del ventennio fascista? E lasciamo stare l’ordine e la disciplina, la legalità e il dover rispondere sempre del proprio operato, perché qui – convengo – ci sono italiani che non condividono, che considerano intollerabile la presenza dello Stato nell’organizzazione e nel controllo della società in tutti i suoi settori e articolazioni. Se così non fosse non saremmo ridotti a come siamo ridotti, con persone che ridono perfino delle disgrazie nazionali e delle calamità che colpiscono intere regioni pensando ai guadagni che ne potrebbero derivare; non ci sarebbero per ogni opera pubblica da realizzare tanti corruttori e corrotti che fanno lievitare i costi fino a dieci volte senza neppure portare a compimento le opere; non ci sarebbero tante banche che ingoiano soldi dello Stato senza nulla dare ai cittadini singoli e alla società nell’insieme; non ci sarebbero cittadini che vogliono sovvertire perfino le leggi di natura e non riconoscono modelli morali né pubblici né privati. Lasciamo stare tutto questo: esiste e bisogna tenerne conto. Ma mi rifiuto di pensare che ci sia un solo italiano a credere che il fascismo fu soltanto male, che venti anni di dittatura fascista non hanno prodotto nulla di buono in Italia. 
Né capisco per quale “nobile” motivo si deve tacere su ciò che l’Italia e il popolo italiano hanno fatto di buono durante il ventennio fascista. Non hanno visto e non vedono gli italiani quanto siano meglio costruiti gli edifici del Ventennio fascista a fronte degli edifici costruiti dopo, che si crepano al primo assestamento, si riempiono di umido alle prime piogge, sprofondano e crollano ad ogni piccola scossa della terra? Che pensano i cittadini italiani quando vedono l’incuria in cui sono caduti tanti luoghi archeologici, edifici storici e giardini, parchi e boschi, le piazze e i tanti luoghi pubblici delle città, le periferie, diventati dominio di gente che muore e neppure se ne conosce nome, cognome e identità? Dobbiamo insistere a considerare il popolo italiano un popolo di fessi? Di incapaci a farsi un’idea di ciò che vedono, che toccano, che frequentano, che vivono? Dobbiamo continuare a tacergli una parte della verità, quella ritenuta ideologicamente inquinante?
L’intelligenza critica che alla verità s’impronta non inquina mai, disvela gli inganni e le frodi. Chi non la ama vuol dire che ha qualcosa di marcio da nascondere.     
Chiamato a pareggiare il conto con le mussolinate di Berlusconi, lo storico Sabbatucci al telegiornale di Rai Uno di lunedì, 28 gennaio, si è limitato a dire che le leggi razziali non furono approvate da Mussolini per fare un piacere alla Germania nazista ma perché connaturate al fascismo ed organiche alla sua visione del mondo. Il che può essere vero, comunque discutibile, se si considera il fascismo e gli ebrei italiani nei sedici anni precedenti a quelle leggi; ma non ha contraddetto Berlusconi negando le cose buone che il fascismo fece. Nessuno storico può essere così autolesionista, dispregiatore del suo prestigio da affermare uno sproposito del genere. Come nessun biologo può negare nella vita di un essere un segmento di esistenza perché spiacevole.
Ma l’aspetto più antipatico di questo gridare “al lupo ! al lupo!” è la preoccupazione che l’Europa si arrabbi con noi, perché l’Europa non tollera che non si accetti il modello etico omologato, quasi che le idee politiche, sociali, etiche ed estetiche fossero assimilabili ai prodotti a derivazione d’origine controllata. L’Europa si rivela sempre più l’erede della santa romana chiesa dei tempi dell’inquisizione. Mancano solo i roghi! Dirlo da Taurisano, città natale di Giulio Cesare Vanini, filosofo arso a Tolosa nel 1619, forse ha anche un senso. 

domenica 27 gennaio 2013

La destra italiana tra giustizialismo e garantismo



L’esclusione di alcuni politici dalle liste del Pdl per le votazioni del 24 febbraio ha riproposto l’antica questione, particolarmente sentita nella destra, della giustizia in rapporto alle garanzie; e ha riaperto la questione più generale dell’essere di destra.
Fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso dire destra in Italia voleva dire unicamente Msi, ossia neofascismo. Nessun altro della destra politica voleva essere etichettato tale. Lo sforzo fatto da Giorgio Almirante agli inizi degli anni Settanta per creare la Grande Destra col monarchico Covelli e il liberale Malagodi, dopo aver recuperato Pino Rauti e godendo dell’appoggio del settimanale il Borghese di Mario Tedeschi e Gianna Preda, che in quegli anni raccoglieva il variegato universo neofascista e aveva notevole forza trainante, non riuscì per la contrarietà del segretario liberale. Questi condivideva col partito repubblicano di La Malfa, altro partito cui faceva riferimento la Confindustria, i favori della destra economica e finanziaria e posti di potere nei governi compositi capeggiati dalla Democrazia cristiana. Fare causa comune coi “fascisti” Almirante e Rauti significava per Malagodi precludersi opportunità di governo. Cosa non proprio sopportabile per chi fa politica allo scopo precipuo di giungere al governo.
A  dirla tutta e bene, però, Malagodi non poteva condividere esperienze politiche con Almirante, per una ragione che allora non aveva tanta visibilità ma che da qualche anno, direi dall’esplosione di Tangentopoli, è diventata la cifra discriminante delle due componenti della destra italiana, quella di derivazione missina e quella di derivazione liberale. I missini erano ferocemente giustizialisti, se ne vantavano e se ne fregiavano. Furono fra quelli che ai tempi di Tangentopoli inalberarono cartelli in Parlamento e agitarono il cappio. Erano pur sempre gli eredi di Verona e i loro umori si caratterizzavano per una gran voglia di giustizia. I liberali, invece, erano garantisti. Si può capire. Gli uni, non essendo stati mai al potere, erano assolutamente immuni da inchieste giudiziarie legate alla corruzione e perciò chiedevano la forca per corrotti e corruttori. Gli altri, essendo stati invece per tanti anni al potere, invocavano garanzie, contestavano metodiche da regime repressivo. Gli uni e gli altri si sono poi ritrovati insieme e insieme con ex democristiani, ex socialisti ed ex repubblicani nel cosiddetto centrodestra di Berlusconi, prima come Forza Italia e poi, con la fusione di An, ex Msi, come Popolo delle Libertà. 
La premessa è funzionale per capire la metamorfosi subita dagli ex missini dopo Mani Pulite e la nascita di una destra allargata. All’interno di questa formazione, così eterogenea e raccogliticcia, per gli ex missini si pose fin dall’inizio il problema della loro derivazione e del loro essere stati. Il giustizialismo, insieme a tanti altri ismi, era scomodo, ostativo di alleanze coi garantisti e di opportunità governative. Era necessaria un’operazione di riqualificazione. Questa ebbe inizio, in maniera direi sommaria e sbrigativa, a Fiuggi nel gennaio 1994, nel famoso congresso di chiusura del Msi e di fondazione di An, ideata e condotta da personaggi che univano all’astrattezza del pensiero, come Domenico Fisichella, la concretezza della politica, come Pinuccio Tatarella, la continuità nella prospettiva, come Gianfranco Fini. Si può essere critici nei confronti di quella trasformazione, ma non si può non riconoscere che qualcosa andava fatta in chiusura di un’epoca, quella partitocratica o della prima repubblica, e in apertura di una nuova, battezzata seconda repubblica. E ci stava perfino che si rivedesse qualcosa anche nella domanda di giustizia, sapendo di dover convivere con tanta gente che del garantismo aveva bisogno come un malato di un farmaco efficace.
Si verificò purtroppo un fenomeno imprevisto e forse imprevedibile: la domanda di giustizia divenne tolleranza prima e acquisizione poi del più acritico e pigro garantismo. I missini finirono per diventare più garantisti dei liberali e ad estendere il garantismo fino alla criminalità organizzata, che, come si sa, riesce ad infiltrarsi nei settori meno sospettabili della società fino alle alte sfere del potere politico, economico, finanziario, perfino giudiziario e Dio solo sa dov’altro.
A favorire il fenomeno di trasformazione degli ex missini da giustizialisti arrabbiati in garantisti illuminati ha concorso sicuramente la guerra che non pochi magistrati hanno scatenato contro il capo del centrodestra Silvio Berlusconi, per cui ogni inchiesta giudiziaria rivolta a un rappresentante di questo schieramento è stata considerata un attacco politico, dal quale bisognava difendersi. Da quel momento in poi gli ex missini, che tante denunce e battaglie avevano fatto per la legalità, non sono entrati più nel merito delle inchieste e dei processi ma si sono impegnati a sostenere le garanzie degli imputati. Essi devono essere prima condannati con sentenza passata in giudicato prima di essere considerati colpevoli; il che può accadere dopo i previsti tre gradi di giudizio e in termini temporali dopo qualche decina di anni, dato che i tempi della giustizia in Italia sono biblici. Nel frattempo questi “signori” possono candidarsi, farsi eleggere, ricoprire cariche istituzionali e di potere politico; e intanto continuare nelle loro attività che solo dopo tanti anni e tanti danni si può sapere se erano o no legali. Il ragionamento a conclusione di una simile aberrante visione delle cose è: e se al termine del processo l’imputato, intanto escluso dai suoi diritti politici e rovinato, dovesse risultare innocente? Ecco – dicono i garantisti – l’irreparabile, che bisogna evitare prima che accada! Ma con lo stesso ragionamento si potrebbe dire: e se nel frattempo che lo stesso è tornato a fare politica e ad amministrare la cosa pubblica e a reiterare i reati dovesse risultare colpevole?
E’ evidente che giustizialismo e garantismo sono posizioni radicali, estremiste, che non possono essere assunte a criteri onnicomprensivi. Ciò che potrebbe valere per un comune cittadino non può valere per un politico. Il quale, scendendo o salendo in politica, dovrebbe sapere quali sono i rischi e fare di tutto per non correrli o predisporsi mentalmente ad affrontarli con spirito garantista, non per se stesso ma per la società, ed essere pronto a dimettersi.        
Gianfranco Fini dice che fu lui a sollevare la questione giustizia nel Pdl e che per questo fu cacciato. Peccato che lui la questione non la pose sul piano politico né come leader  di una componente importante come An, ma da singolo a singolo, sperando che la magistratura togliesse di mezzo Berlusconi per regalare a lui il partito e il governo. Oggi vuole nobilitare un tradimento politico, non nei confronti di Berlusconi ma degli italiani che avevano creduto in lui e lo avevano seguito, accreditandosi come un martire della giustizia e della moralità pubblica.   
La situazione politica della destra oggi è di massima confusione. Ma se le istituzioni politiche di questa importante parte politica difettano, non così i cittadini che si riconoscono nei valori della destra. Essi possono trovare da sé la sintesi tra giustizialismo e garantismo e separare il piano giudiziario da quello politico, in attesa che si formi una nuova classe politica di destra che li rappresenti degnamente.   

domenica 20 gennaio 2013

Monti-Bersani: la solita manfrina



Si era proposto come colui che avrebbe cambiato la mentalità degli italiani. Chi è? Ma Mario Monti! Il Ragioniere di Napolitano, fatto Senatore a vita. Siccome non c’è innamoramento – direbbe Francesco Alberoni – che non riguardi almeno due persone, è molto probabile che Monti abbia accettato l’incarico di presiedere il governo salva-reputazione dell’Italia previa la nomina a Senatore a vita. Se, invece, si è trattato di un matrimonio combinato, come è assai più probabile, e quindi con l’intervento di terzi e magari con qualche prete di mezzo, allora la nomina di Senatore a vita è stata debitamente negoziata, come una volta i consuoceri negoziavano la dote dei figli per il matrimonio. Io do questo se tu dài quest’altro.   
Un marchingegno della più bella tradizione italiana, o se vogliamo un’operazione di bassa trama, che ricorda intrecci plautini, intrighi da Mandragola, la bella commedia di Machiavelli. Forse anche per questo a Monti è venuta la brillante idea di esorcizzare la bassezza dell’azione compiuta, ossia la discesa vera, con la salita presunta. Il principio di Archimede vale anche in politica, è la sua giusta metafora. Un corpo immerso nell’acqua riceve una spinta dal basso in alto direttamente proporzionale al suo peso. E difatti Monti galleggia.
Fino alla vigilia della sua “salita” in politica si poteva rimanere perplessi. Chi sarà mai questo incauto riformatore di coscienze e di abitudini in un paese che ne ha viste più di tutti gli altri della terra messi assieme? Quest’emulo di Martin Lutero? Perplessità legittime. Ma ora, è tutto chiaro. Il riformatore risulta sempre più riformato. Bugiardo, improvvisatore, promettitore, arrampicatore, qualcuno direbbe gay col culo degli altri, un Cagliostro dei nostri tempi.
Dopo il berlusconismo, ecco il montismo! Che cos’è? E’ la tendenza a credersi padreterni tra poveri cristi, una sindrome tipica dei professori, che sanno tutto, che non conoscono esseri a loro superiori, che di recente ha colpito anche magistrati, giornalisti e uomini di cultura in generale. Esempi a bizzeffe. A sentire i vari Grasso, Ingroia, Dambruoso, Mineo, Sechi, Mucchetti, mo’ che arrivano loro in Parlamento, apriti cielo! L’Italia sarà rivoltata come un calzino, gli italiani diventeranno un ibrido tra inglesi e giapponesi, esempi insuperabili di coerenza, tenacia, onestà. Ognuno si sente un Attila che non farà crescere erba-corruzione sul terreno da dove passa.
Le esperienze infelici dei loro predecessori non hanno insegnato nulla. Si è visto cosa sono riusciti a fare finora i tanti padreterni calati in politica per graziosa cooptazione del cosiddetto Porcellum! Qualche sera fa Pierangelo Buttafuoco, posto tra Mineo e Sechi, tutti ospiti della trasmissione “In onda” del duo Telese-Porro, li bacchettò di santa ragione, tra sberleffi e sfottò. Che figura di cazzo, i due promessi riformatori! Prima potevano anche turlupinare il pubblico dietro la maschera dell’obiettività giornalistica; ora non li crede più nessuno, maschere diventate di altri. Che figura di cazzo quel Mucchetti l’altra sera a “Otto e mezzo” dalla Gruber di fronte ad un Formigoni che giocava come il gatto col topo! Non sarebbe stato meglio se il Mucchetti avesse continuato ad essere maschera di se stesso anziché maschera di altri? Aveva una reputazione! Ed ora?
Questi signori, pur con tanta cultura, che se fosse colesterolo o glicemia schiatterebbero secchi all’istante, non sanno che la politica è governata da fattori che sfuggono perfino a quei politici col bernoccolo e che uno può essere una mente divina in un campo come la filosofia, il diritto, la letteratura, il giornalismo o la medicina, ossia nel proprio settore, da dove può anche incidere e contare, ma trasferito in politica è come l’albatro di Baudelaire: fa ridere e diventa gioco degli altri. Quanti italici geni non seguirono Berlusconi nel 1994? Perfino Monti ha detto che allora lo votò. Giornalisti, filosofi, scrittori lo seguirono per allontanarsene appena si accorsero che lì non solo non avevano niente da fare ma non contavano nulla. Perfino un filosofo come Lucio Colletti! Gli smaliziati come Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi, che la storia la conoscono molto bene, non hanno mai lasciato i ferri del mestiere e hanno mantenuto sempre una loro autonomia, con un piede ben saldo nel loro settore di competenza e di potere. Si capisce! Perché l’una cosa va con l’altra.
Tra berlusconismo e montismo si sta prosciugando il patrimonio del Paese. L’uno e l’altro fanno credere a tanti personaggi, eccellenze nel loro campo, di avere finalmente il loro autore che li renderà importanti e immortali. Una vera pandemia. Bersani, anche lui, candida ogni persona dal nome importante. Dice: ma c’è qualcuno della società civile più civile di Ambrosoli? Discorsi da ragazzini tifosi.  E Ingroia, che fa? Candida perfino la sorella di quel Cucchi, morto non si sa come in carcere, dove era finito per affari di droga.
Ora Monti – per tornare a bomba – promette, fa cioè una cosa che lui diceva che non avrebbe mai fatto. L’Imu? Si può rivedere. La riforma Fornero? Si può rivedere. Il redditometro? Non so cosa sia, l’ha fatto Berlusconi. Le tasse? Si possono abbassare. E via di seguito. Monti non conosce né scorno né buongiorno, come si dice giù da noi, nel Salento, per significare la spregiudicatezza di certe affermazioni e di certi comportamenti.
Ma la cosa che più colpisce di questa campagna elettorale e dei suoi protagonisti è la manfrina tra Bersani e Monti, che si dicono competitors ma procedono divisi per fottere uniti. Ecco, il pericolo più volte denunciato dell’ennesima truffa agli italiani! Che Bersani e la sinistra potessero vincere le elezioni era auspicabile, che dovessero governare il Paese era più che legittimo dopo il disastro dell’esperienza berlusconiano-finiana, ma che si dovesse giungere alla truffa di una coalizione, in cui è compreso lo stesso Fini, è la prova che in Italia nulla mai cambia davvero. Se le cose dovessero andar male, chi potrà dire che la colpa è di Bersani? Questi potrà sempre dire che la colpa è di Monti. Come è accaduto in Italia per sessant’anni, nel corso dei quali la Democrazia cristiana, pur potendo governare da sola, si portava appresso piccoli alleati, Psi-Psdi-Pri-Pli, sui quali scaricare la colpa dei fallimenti. Ma almeno la Dc aveva cavalli di razza nella sua scuderia. Oggi si vedono soltanto muli, con rispetto parlando per le bestie.   

domenica 13 gennaio 2013

Aiuto, qui sfasciano l'Italia!



Come nel 1994 Berlusconi ha fatto un accordo con la Lega al Nord e con le formazioni meridionalistiche al Sud, con qualche radicalizzazione in più su entrambi i fronti. Al Nord ha ceduto al leghista Maroni la presidenza della Regione Lombardia, nella prospettiva della cosiddetta Euroregione e il trattenimento del 75 % della contribuzione sul territorio; al Sud con confuse ma assai più pericolose rivendicazioni neoborboniche. Un passo avanti verso lo sfascio della nazione, non c’è che dire! Appena dopo le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, diventa un fatto minacciosamente simbolico. Addio inni nazionali e bandiere al vento, discorsi rievocativi, mostre e convegni. I semi non hanno attecchito, se li è portati il vento della crisi. L’Italia s’è pesta di santa ragione.
A sentire gli imprenditori del mitico Nord-Est italiano, molti dei quali hanno già delocalizzato le loro imprese, la situazione è di una gravità assoluta. Molti di essi si sono tolti e si tolgono la vita non sopportando il fallimento della propria azienda. Non è solo un fatto economico, ma di mentalità padrona, che aveva reso tanti morti di fame, con famigliari ancora sparsi per il mondo in cerca di fortuna, ad arricchiti, arroganti e perfino razzisti, come sono in genere i parvenus. Alcune sere fa su “La 7”, nella stessa serata dello spettacolo Santoro-Travaglio-Berlusconi, una signora imprenditrice di quella zona ha denunciato le gravi omissioni della stampa che nasconde i suicidi per non allarmare il Paese. E papale papale diceva che bisogna uscire dall’Europa se si vuole far riprendere l’economia, che è necessario che si rimetta in circolazione la moneta, anzi, che venga restituita alle persone alle quali è stata tolta. Berlusconi annuiva, benché la signora non sembrasse troppo convinta. Perché, a differenza del 1994, quando aveva la gobba a ponente, oggi Berlusconi ha la gobba a levante; anzi, ha la gobba e basta.
Altri imprenditori della zona più che uscire dall’Europa escono dall’Italia. Ce ne sono alcune decine che starebbero per trasferire le loro aziende in Carinzia, nella vicina Austria, dove le tasse sono meno della metà rispetto a quelle che si pagano in Italia, un divario tra il 65 % circa, in Italia, e il 25 % circa in Austria. Numeri a parte, c’è una pericolosa perdita di autostima nazionale che si sta diffondendo in tutto il Paese. Al Nord chi volle fare l’Italia unita – mi riferisco ai ceti sociali – ora la vuole disfare, perché non è più conveniente. Al Sud si soffia sui carboni ardenti rimasti sotto la cenere per tanti anni e ci si prepara ad un redde rationem che ancora non si sa che cosa sia.
Non so se Giorgio Napolitano si sia reso conto della gravità del momento. Sono convinto di sì se, dopo tanto coraggio dimostrato in quest’ultimo anno e mezzo, si è pilatescamente sottratto alla nomina dei due senatori a vita mancanti alla cinquina prevista. Probabilmente per non dare un altro segnale di parte in un momento in cui è necessario ritrovare un minimo di credibilità. Immaginiamo la nomina di Eugenio Scalfari o quella di Gianni Letta quali casini avrebbe creato nell’infuriare della battaglia elettorale!
Non so quanto questa corsa alla disgregazione nazionale sia conseguente alla perdita di sovranità in seguito agli ultimi trattati europei, da Mastricht in poi. Ma è certo che l’Italia ha preso troppo sul serio l’unità europea in un contesto in cui le altre nazioni di pari dimensioni demografiche ed economiche hanno politiche nazionali che vanno in tutt’altra direzione. L’Inghilterra si è tenuta a parte dall’Europa economica, mentre Germania e Francia fanno i loro comodi, agiscono nei loro interessi e in politica estera non pensano davvero a consultarsi con gli altri partner europei prima di avventurarsi persino in imprese neocoloniali, come quella recente del francese Holland in Africa. Ma, se pure si comportassero con la stessa lealtà con cui si comporta l’Italia, stante una nostra condizione di maggior debolezza, noi resteremmo comunque penalizzati. Il sentire comune di molti italiani è che o l’Europa cambia o l’Italia – e non solo l’Italia – esce dall’Europa.
Mario Monti, che dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa per bastonare gli stessi italiani, a suo dire per cambiarli in meglio, può anche essere più convinto italiano di Giuseppe Garibaldi ma è recepito come un commissario straordinario europeo, un forestiero col compito di controllare un paese riottoso e disordinato. La sua salita in campo, come lui la chiama allo scopo di nobilitare una vigliaccata, ha peggiorato la situazione, perché ha creato un terzo polo con mire di governo assembleare, all’insegna del trasformismo più becero. Uomini eccellenti del centrosinistra e del centrodestra hanno aderito alla sua “agenda”, che ancora non si è capito che cosa sia, a parte le imposizioni che hanno già prodotto recessione e disoccupazione.
La politica, discesa o salita che sia, è diventato territorio di conquista di vecchi e nuovi barbari. E’ ormai assalto alla diligenza. Imprenditori, magistrati, giornalisti, attori, comici, sportivi in pensione, professori, quanti hanno una certa visibilità per un motivo qualsiasi, figli, fratelli, congiunti di uomini noti nel paese per loro vicende drammatiche, tipo Ambrosoli, Borsellino, La Torre, vengono candidati e ridotti a specchietti per le allodole. Perfino i preti, se potessero, si candiderebbero. Le sortite di Bagnasco, le controsortite di altri, i loro continui interventi rendono inagibile lo spazio vitale della politica, fanno precipitare il Paese nel disordine e nell’anarchia.
Incredibile come la mancanza di patriottismo negli uomini più rappresentativi esponga l’Italia alle ammonizioni dell’Europa, a questo tiranno senza volto che pretende di dire quello che si deve e quello che non si deve fare.  In un paese in cui non funziona nulla, un cialtrone come Marco Pannella apre le porte di casa e mostra le vergogne delle carceri. Come se in Italia il lavoro, la sanità, l’istruzione, i trasporti, la giustizia funzionassero meglio! Il sovraffollamento delle carceri è solo uno dei tanti problemi del Paese, sicuramente il meno vergognoso se paragonato ad altre sofferenze sociali.
Che aspettarsi dal voto del 24 febbraio nella condizione in cui ci troviamo? Certo, sperare come navigare necesse est. Ma qui un Nazareno che dica a Lazzaro “alzati e cammina!” non c’è. Ma quanto sarebbe augurabile che ci fosse, e magari non solo con le parole.

domenica 6 gennaio 2013

I tre peccati mortali di Giorgio Napolitano



Il settennato presidenziale di Giorgio Napolitano è stato disturbato proprio in chiusura da tre importanti questioni che hanno richiesto decisioni coraggiose ma assai discutibili. Diciamo tre rogne, che sarebbe stato meglio non gli fossero capitate. Fino all’estate del 2011 Napolitano si era distinto come un timoniere sicuro e autorevole, pur in presenza di forti marosi che avevano preceduto e seguito il ribaltamento della situazione politica. Egli era espressione di una maggioranza di centrosinistra, la stessa che aveva vinto le elezioni del 2006, durata fino al 2008 con non poche sofferenze e poi sostituita, previe elezioni anticipate, da una di centrodestra col ritorno al governo di Silvio Berlusconi. Inizio, questo, di un percorso assai burrascoso, sia per le vicende personali del Presidente del Consiglio, sia per la crisi interna al centrodestra e sia per l’aggravarsi della crisi economico-finanziaria cosiddetta dell’Euro.
La prima questione è stato il passaggio dal governo politico al governo tecnico nel novembre del 2011. Napolitano l’ha affrontata con un’agenda assai bene pianificata. Prima mossa: induzione di Berlusconi a dimettersi; seconda, nomina a Senatore a vita di Mario Monti; terza, incarico di governo. La prima è un atto normale fino ad un certo punto, anomalo da quel certo punto in poi. La nomina in sé non è anomala, rientra nelle prerogative del Capo dello Stato; e non è anomalo neppure il fatto che Monti fosse relativamente giovane per tale nomina e non avesse ancora dimostrato appieno quei meriti da cui la stessa dovrebbe essere motivata. L’anomalia sta nella sua finalizzazione, non era giustificata in sé ma era funzionale all’incarico di presiedere un governo di tecnici per sostituire quello politico di Berlusconi. Il governo Monti, enfatizzato per i suoi successi esterni, tanto più ingigantiti quanto più esagerati i mali interni della nazione, non ha avuto un minimo riscontro benefico all’interno. Dove tutto è peggiorato; ed è perfino inutile sgranare il rosario delle doléances, col rischio di dare una graduatoria falsata dei problemi del paese, uno più grave dell’altro al punto che bisognerebbe elencarli in ordine alfabetico per equa gravità. Lo stesso Monti non ha mai spiegato in che cosa abbia salvato il Paese, si è limitato a parlare di un generico recupero di serietà e di credibilità. Ma se pure l’operazione Napolitano-Monti avesse conseguito risultati straordinariamente positivi da tutti condivisi resterebbe una parentesi – l’espressione è crociana e fu usata per il fascismo – nella storia della nostra democrazia. Essa, per come l’abbiamo conosciuta dai libri e dai fatti in questi ultimi sessantacinque anni, è stata sospesa o comunque ristretta nella sua formalità liturgica. 
La seconda questione riguarda il conflitto di attribuzione in merito alle intercettazioni telefoniche della Procura di Palermo, relative alla presunta trattativa Stato-Mafia del 1992. L’iniziativa di Napolitano di ricorrere alla Consulta contro i giudici palermitani (settembre 2012) è lesiva del buon funzionamento dei poteri dello Stato con una pesante caduta di credibilità al cospetto della società civile. Non è un bel sentire che due poteri dello Stato in democrazia entrino in conflitto. Anche qui, poche ed essenziali considerazioni. Il Presidente della Repubblica, chiunque esso sia, non è un monarca assoluto, tale per grazia di Dio, ma un cittadino sottoposto alle leggi dello Stato, come ogni altro. La Procura della Repubblica è titolare del potere giudiziario, che, in uno stato di diritto, non può dipendere da un altro potere, men che meno da una centrale di poteri. Napolitano ha fatto una questione di principio; ma la storia le questioni le fa sui fatti. Se nelle conversazioni tra Napolitano e Mancino non c’era nulla di politicamente o  penalmente rilevante, le intercettazioni andavano pubblicate; chiedere che venissero distrutte significa trasformare un sospetto quanto meno ad un sospetto e mezzo. Non meno grave è il sapere che il potere giudiziario, in relazione a fatti gravissimi, è stato ostacolato e fermato. Eminenti giuristi, anche vicini a Napolitano, come Zagrebelsky e Cordero, si sono espressi contro l’iniziativa di Napolitano.  
La terza questione riguarda l’Ilva di Taranto. Napolitano è intervenuto con un decreto per dirimere il difficile conflitto (dicembre 2012). Di fronte ad una questione drammatica, salute o lavoro, Napolitano ha dovuto stoppare il potere giudiziario, nel tentativo di risolvere il duplice problema. Una scelta, questa, coraggiosissima, forse la più importante e rilevante delle tre; ma che farà discutere moltissimo. Il decreto mira a salvaguardare la produzione di acciaio, il lavoro dei dipendenti, la salute dei cittadini. Si poteva e forse si doveva fare. In fondo ci sono acciaierie in tante altre parti d’Europa che convivono con grandi città. Si tratta di rispettare le leggi in vigore. Il Decreto firmato da Napolitano mortifica il potere giudiziario, che, in presenza di conclamati reati, continuati e aggravati, è costretto a fermarsi per l’intervento di un altro potere dello Stato.
Queste tre scelte, fatte da Napolitano certamente non a cuor leggero, sono state dettate da contingenze che forse non lasciavano spazio ad alternative. L’idea di “costringere” Berlusconi al passo indietro e di giocare la carta Monti, è venuta sull’onda di indignazione generale per l’incredibile indecenza in cui certi comportamenti del Presidente del Consiglio in carica avevano gettato il paese, ma anche per la perdita di credibilità in campo internazionale con ricadute sulla condizione economico-finanziaria. A memoria non ricordo casi in cui dei governanti stranieri hanno deriso l’Italia di fronte al mondo. Tanto è accaduto poco più di un anno fa, qualche mese prima che Napolitano si decidesse a compiere il grave passo.
La storiaccia della trattativa Stato-mafia, in verità, non lasciava vie di scampo: o la Presidenza della Repubblica cedeva su una questione di principio, con il gravissimo precedente, o si doveva arroccare nelle prerogative costituzionali. Sacrificata è la verità giudiziaria, non quella storica, che risulta a questo punto assai acclarata.
La vicenda dell’Ilva è altrettanto dilemmatica: salvare la salute dei tarantini o gran parte dell’economia nazionale? E’ stata scelta una via di compatibilità dei due corni del dilemma. Ora sta alle istituzioni garantire la buona riuscita del drammatico provvedimento.
Ma qui si vuole sottolineare, al di là di ogni giudizio di merito, troppo presto per emetterlo, che Napolitano ha assunto tre provvedimenti che potrebbero essere altrettanti peccati mortali perché hanno leso, se pure non l’hanno formalmente violate, le regole scritte e convenzionali della democrazia. E non è finita!