Il settennato presidenziale di
Giorgio Napolitano è stato disturbato proprio in chiusura da tre importanti questioni
che hanno richiesto decisioni coraggiose ma assai discutibili. Diciamo tre
rogne, che sarebbe stato meglio non gli fossero capitate. Fino all’estate del
2011 Napolitano si era distinto come un timoniere sicuro e autorevole, pur in
presenza di forti marosi che avevano preceduto e seguito il ribaltamento della situazione
politica. Egli era espressione di una maggioranza di centrosinistra, la stessa
che aveva vinto le elezioni del 2006, durata fino al 2008 con non poche
sofferenze e poi sostituita, previe elezioni anticipate, da una di centrodestra
col ritorno al governo di Silvio Berlusconi. Inizio, questo, di un percorso
assai burrascoso, sia per le vicende personali del Presidente del Consiglio,
sia per la crisi interna al centrodestra e sia per l’aggravarsi della crisi
economico-finanziaria cosiddetta dell’Euro.
La prima questione è stato il
passaggio dal governo politico al governo tecnico nel novembre del 2011.
Napolitano l’ha affrontata con un’agenda assai bene pianificata. Prima mossa: induzione
di Berlusconi a dimettersi; seconda, nomina a Senatore a vita di Mario Monti;
terza, incarico di governo. La prima è un atto normale fino ad un certo punto,
anomalo da quel certo punto in poi. La nomina in sé non è anomala, rientra
nelle prerogative del Capo dello Stato; e non è anomalo neppure il fatto che
Monti fosse relativamente giovane per tale nomina e non avesse ancora
dimostrato appieno quei meriti da cui la stessa dovrebbe essere motivata.
L’anomalia sta nella sua finalizzazione, non era giustificata in sé ma era
funzionale all’incarico di presiedere un governo di tecnici per sostituire
quello politico di Berlusconi. Il governo Monti, enfatizzato per i suoi
successi esterni, tanto più ingigantiti quanto più esagerati i mali interni
della nazione, non ha avuto un minimo riscontro benefico all’interno. Dove tutto
è peggiorato; ed è perfino inutile sgranare il rosario delle doléances, col rischio di dare una
graduatoria falsata dei problemi del paese, uno più grave dell’altro al punto
che bisognerebbe elencarli in ordine alfabetico per equa gravità. Lo stesso
Monti non ha mai spiegato in che cosa abbia salvato il Paese, si è limitato a
parlare di un generico recupero di serietà e di credibilità. Ma se pure l’operazione
Napolitano-Monti avesse conseguito risultati straordinariamente positivi da
tutti condivisi resterebbe una parentesi – l’espressione è crociana e fu usata
per il fascismo – nella storia della nostra democrazia. Essa, per come
l’abbiamo conosciuta dai libri e dai fatti in questi ultimi sessantacinque
anni, è stata sospesa o comunque ristretta nella sua formalità liturgica.
La seconda questione riguarda il
conflitto di attribuzione in merito alle intercettazioni telefoniche della
Procura di Palermo, relative alla presunta trattativa Stato-Mafia del 1992.
L’iniziativa di Napolitano di ricorrere alla Consulta contro i giudici
palermitani (settembre 2012) è lesiva del buon funzionamento dei poteri dello
Stato con una pesante caduta di credibilità al cospetto della società civile. Non
è un bel sentire che due poteri dello Stato in democrazia entrino in conflitto.
Anche qui, poche ed essenziali considerazioni. Il Presidente della Repubblica,
chiunque esso sia, non è un monarca assoluto, tale per grazia di Dio, ma un
cittadino sottoposto alle leggi dello Stato, come ogni altro. La Procura della Repubblica è
titolare del potere giudiziario, che, in uno stato di diritto, non può
dipendere da un altro potere, men che meno da una centrale di poteri.
Napolitano ha fatto una questione di principio; ma la storia le questioni le fa
sui fatti. Se nelle conversazioni tra Napolitano e Mancino non c’era nulla di
politicamente o penalmente rilevante, le
intercettazioni andavano pubblicate; chiedere che venissero distrutte significa
trasformare un sospetto quanto meno ad un sospetto e mezzo. Non meno grave è il
sapere che il potere giudiziario, in relazione a fatti gravissimi, è stato
ostacolato e fermato. Eminenti giuristi, anche vicini a Napolitano, come
Zagrebelsky e Cordero, si sono espressi contro l’iniziativa di Napolitano.
La terza questione riguarda
l’Ilva di Taranto. Napolitano è intervenuto con un decreto per dirimere il
difficile conflitto (dicembre 2012). Di fronte ad una questione drammatica,
salute o lavoro, Napolitano ha dovuto stoppare il potere giudiziario, nel
tentativo di risolvere il duplice problema. Una scelta, questa,
coraggiosissima, forse la più importante e rilevante delle tre; ma che farà
discutere moltissimo. Il decreto mira a salvaguardare la produzione di acciaio,
il lavoro dei dipendenti, la salute dei cittadini. Si poteva e forse si doveva fare.
In fondo ci sono acciaierie in tante altre parti d’Europa che convivono con
grandi città. Si tratta di rispettare le leggi in vigore. Il Decreto firmato da
Napolitano mortifica il potere giudiziario, che, in presenza di conclamati reati,
continuati e aggravati, è costretto a fermarsi per l’intervento di un altro
potere dello Stato.
Queste tre scelte, fatte da
Napolitano certamente non a cuor leggero, sono state dettate da contingenze che
forse non lasciavano spazio ad alternative. L’idea di “costringere” Berlusconi
al passo indietro e di giocare la carta Monti, è venuta sull’onda di
indignazione generale per l’incredibile indecenza in cui certi comportamenti
del Presidente del Consiglio in carica avevano gettato il paese, ma anche per
la perdita di credibilità in campo internazionale con ricadute sulla condizione
economico-finanziaria. A memoria non ricordo casi in cui dei governanti
stranieri hanno deriso l’Italia di fronte al mondo. Tanto è accaduto poco più
di un anno fa, qualche mese prima che Napolitano si decidesse a compiere il
grave passo.
La storiaccia della trattativa
Stato-mafia, in verità, non lasciava vie di scampo: o la Presidenza della
Repubblica cedeva su una questione di principio, con il gravissimo precedente,
o si doveva arroccare nelle prerogative costituzionali. Sacrificata è la verità
giudiziaria, non quella storica, che risulta a questo punto assai acclarata.
La vicenda dell’Ilva è
altrettanto dilemmatica: salvare la salute dei tarantini o gran parte
dell’economia nazionale? E’ stata scelta una via di compatibilità dei due corni
del dilemma. Ora sta alle istituzioni garantire la buona riuscita del
drammatico provvedimento.
Ma qui si vuole sottolineare, al
di là di ogni giudizio di merito, troppo presto per emetterlo, che Napolitano ha
assunto tre provvedimenti che potrebbero essere altrettanti peccati mortali
perché hanno leso, se pure non l’hanno formalmente violate, le regole scritte e
convenzionali della democrazia. E non è finita!
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