domenica 6 gennaio 2013

I tre peccati mortali di Giorgio Napolitano



Il settennato presidenziale di Giorgio Napolitano è stato disturbato proprio in chiusura da tre importanti questioni che hanno richiesto decisioni coraggiose ma assai discutibili. Diciamo tre rogne, che sarebbe stato meglio non gli fossero capitate. Fino all’estate del 2011 Napolitano si era distinto come un timoniere sicuro e autorevole, pur in presenza di forti marosi che avevano preceduto e seguito il ribaltamento della situazione politica. Egli era espressione di una maggioranza di centrosinistra, la stessa che aveva vinto le elezioni del 2006, durata fino al 2008 con non poche sofferenze e poi sostituita, previe elezioni anticipate, da una di centrodestra col ritorno al governo di Silvio Berlusconi. Inizio, questo, di un percorso assai burrascoso, sia per le vicende personali del Presidente del Consiglio, sia per la crisi interna al centrodestra e sia per l’aggravarsi della crisi economico-finanziaria cosiddetta dell’Euro.
La prima questione è stato il passaggio dal governo politico al governo tecnico nel novembre del 2011. Napolitano l’ha affrontata con un’agenda assai bene pianificata. Prima mossa: induzione di Berlusconi a dimettersi; seconda, nomina a Senatore a vita di Mario Monti; terza, incarico di governo. La prima è un atto normale fino ad un certo punto, anomalo da quel certo punto in poi. La nomina in sé non è anomala, rientra nelle prerogative del Capo dello Stato; e non è anomalo neppure il fatto che Monti fosse relativamente giovane per tale nomina e non avesse ancora dimostrato appieno quei meriti da cui la stessa dovrebbe essere motivata. L’anomalia sta nella sua finalizzazione, non era giustificata in sé ma era funzionale all’incarico di presiedere un governo di tecnici per sostituire quello politico di Berlusconi. Il governo Monti, enfatizzato per i suoi successi esterni, tanto più ingigantiti quanto più esagerati i mali interni della nazione, non ha avuto un minimo riscontro benefico all’interno. Dove tutto è peggiorato; ed è perfino inutile sgranare il rosario delle doléances, col rischio di dare una graduatoria falsata dei problemi del paese, uno più grave dell’altro al punto che bisognerebbe elencarli in ordine alfabetico per equa gravità. Lo stesso Monti non ha mai spiegato in che cosa abbia salvato il Paese, si è limitato a parlare di un generico recupero di serietà e di credibilità. Ma se pure l’operazione Napolitano-Monti avesse conseguito risultati straordinariamente positivi da tutti condivisi resterebbe una parentesi – l’espressione è crociana e fu usata per il fascismo – nella storia della nostra democrazia. Essa, per come l’abbiamo conosciuta dai libri e dai fatti in questi ultimi sessantacinque anni, è stata sospesa o comunque ristretta nella sua formalità liturgica. 
La seconda questione riguarda il conflitto di attribuzione in merito alle intercettazioni telefoniche della Procura di Palermo, relative alla presunta trattativa Stato-Mafia del 1992. L’iniziativa di Napolitano di ricorrere alla Consulta contro i giudici palermitani (settembre 2012) è lesiva del buon funzionamento dei poteri dello Stato con una pesante caduta di credibilità al cospetto della società civile. Non è un bel sentire che due poteri dello Stato in democrazia entrino in conflitto. Anche qui, poche ed essenziali considerazioni. Il Presidente della Repubblica, chiunque esso sia, non è un monarca assoluto, tale per grazia di Dio, ma un cittadino sottoposto alle leggi dello Stato, come ogni altro. La Procura della Repubblica è titolare del potere giudiziario, che, in uno stato di diritto, non può dipendere da un altro potere, men che meno da una centrale di poteri. Napolitano ha fatto una questione di principio; ma la storia le questioni le fa sui fatti. Se nelle conversazioni tra Napolitano e Mancino non c’era nulla di politicamente o  penalmente rilevante, le intercettazioni andavano pubblicate; chiedere che venissero distrutte significa trasformare un sospetto quanto meno ad un sospetto e mezzo. Non meno grave è il sapere che il potere giudiziario, in relazione a fatti gravissimi, è stato ostacolato e fermato. Eminenti giuristi, anche vicini a Napolitano, come Zagrebelsky e Cordero, si sono espressi contro l’iniziativa di Napolitano.  
La terza questione riguarda l’Ilva di Taranto. Napolitano è intervenuto con un decreto per dirimere il difficile conflitto (dicembre 2012). Di fronte ad una questione drammatica, salute o lavoro, Napolitano ha dovuto stoppare il potere giudiziario, nel tentativo di risolvere il duplice problema. Una scelta, questa, coraggiosissima, forse la più importante e rilevante delle tre; ma che farà discutere moltissimo. Il decreto mira a salvaguardare la produzione di acciaio, il lavoro dei dipendenti, la salute dei cittadini. Si poteva e forse si doveva fare. In fondo ci sono acciaierie in tante altre parti d’Europa che convivono con grandi città. Si tratta di rispettare le leggi in vigore. Il Decreto firmato da Napolitano mortifica il potere giudiziario, che, in presenza di conclamati reati, continuati e aggravati, è costretto a fermarsi per l’intervento di un altro potere dello Stato.
Queste tre scelte, fatte da Napolitano certamente non a cuor leggero, sono state dettate da contingenze che forse non lasciavano spazio ad alternative. L’idea di “costringere” Berlusconi al passo indietro e di giocare la carta Monti, è venuta sull’onda di indignazione generale per l’incredibile indecenza in cui certi comportamenti del Presidente del Consiglio in carica avevano gettato il paese, ma anche per la perdita di credibilità in campo internazionale con ricadute sulla condizione economico-finanziaria. A memoria non ricordo casi in cui dei governanti stranieri hanno deriso l’Italia di fronte al mondo. Tanto è accaduto poco più di un anno fa, qualche mese prima che Napolitano si decidesse a compiere il grave passo.
La storiaccia della trattativa Stato-mafia, in verità, non lasciava vie di scampo: o la Presidenza della Repubblica cedeva su una questione di principio, con il gravissimo precedente, o si doveva arroccare nelle prerogative costituzionali. Sacrificata è la verità giudiziaria, non quella storica, che risulta a questo punto assai acclarata.
La vicenda dell’Ilva è altrettanto dilemmatica: salvare la salute dei tarantini o gran parte dell’economia nazionale? E’ stata scelta una via di compatibilità dei due corni del dilemma. Ora sta alle istituzioni garantire la buona riuscita del drammatico provvedimento.
Ma qui si vuole sottolineare, al di là di ogni giudizio di merito, troppo presto per emetterlo, che Napolitano ha assunto tre provvedimenti che potrebbero essere altrettanti peccati mortali perché hanno leso, se pure non l’hanno formalmente violate, le regole scritte e convenzionali della democrazia. E non è finita!

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