L’esclusione di alcuni politici dalle
liste del Pdl per le votazioni del 24 febbraio ha riproposto l’antica
questione, particolarmente sentita nella destra, della giustizia in rapporto
alle garanzie; e ha riaperto la questione più generale dell’essere di destra.
Fino agli inizi degli anni
Novanta del secolo scorso dire destra in Italia voleva dire unicamente Msi,
ossia neofascismo. Nessun altro della destra politica voleva essere etichettato
tale. Lo sforzo fatto da Giorgio Almirante agli inizi degli anni Settanta per
creare la Grande Destra
col monarchico Covelli e il liberale Malagodi, dopo aver recuperato Pino Rauti
e godendo dell’appoggio del settimanale il
Borghese di Mario Tedeschi e Gianna Preda, che in quegli anni raccoglieva
il variegato universo neofascista e aveva notevole forza trainante, non riuscì
per la contrarietà del segretario liberale. Questi condivideva col partito
repubblicano di La Malfa ,
altro partito cui faceva riferimento la Confindustria , i
favori della destra economica e finanziaria e posti di potere nei governi
compositi capeggiati dalla Democrazia cristiana. Fare causa comune coi “fascisti”
Almirante e Rauti significava per Malagodi precludersi opportunità di governo.
Cosa non proprio sopportabile per chi fa politica allo scopo precipuo di
giungere al governo.
A dirla tutta e bene, però, Malagodi non poteva condividere
esperienze politiche con Almirante, per una ragione che allora non aveva tanta visibilità
ma che da qualche anno, direi dall’esplosione di Tangentopoli, è diventata la
cifra discriminante delle due componenti della destra italiana, quella di
derivazione missina e quella di derivazione liberale. I missini erano
ferocemente giustizialisti, se ne vantavano e se ne fregiavano. Furono fra
quelli che ai tempi di Tangentopoli inalberarono cartelli in Parlamento e
agitarono il cappio. Erano pur sempre gli eredi di Verona e i loro umori si
caratterizzavano per una gran voglia di giustizia. I liberali, invece, erano
garantisti. Si può capire. Gli uni, non essendo stati mai al potere, erano
assolutamente immuni da inchieste giudiziarie legate alla corruzione e perciò chiedevano
la forca per corrotti e corruttori. Gli altri, essendo stati invece per tanti
anni al potere, invocavano garanzie, contestavano metodiche da regime
repressivo. Gli uni e gli altri si sono poi ritrovati insieme e insieme con ex
democristiani, ex socialisti ed ex repubblicani nel cosiddetto centrodestra di
Berlusconi, prima come Forza Italia e poi, con la fusione di An, ex Msi, come
Popolo delle Libertà.
La premessa è funzionale per
capire la metamorfosi subita dagli ex missini dopo Mani Pulite e la nascita di
una destra allargata. All’interno di questa formazione, così eterogenea e
raccogliticcia, per gli ex missini si pose fin dall’inizio il problema della
loro derivazione e del loro essere stati. Il giustizialismo, insieme a tanti
altri ismi, era scomodo, ostativo di
alleanze coi garantisti e di opportunità governative. Era necessaria
un’operazione di riqualificazione. Questa ebbe inizio, in maniera direi
sommaria e sbrigativa, a Fiuggi nel gennaio 1994, nel famoso congresso di
chiusura del Msi e di fondazione di An, ideata e condotta da personaggi che
univano all’astrattezza del pensiero, come Domenico Fisichella, la concretezza
della politica, come Pinuccio Tatarella, la continuità nella prospettiva, come
Gianfranco Fini. Si può essere critici nei confronti di quella trasformazione,
ma non si può non riconoscere che qualcosa andava fatta in chiusura di
un’epoca, quella partitocratica o della prima repubblica, e in apertura di una
nuova, battezzata seconda repubblica. E ci stava perfino che si rivedesse
qualcosa anche nella domanda di giustizia, sapendo di dover convivere con tanta
gente che del garantismo aveva bisogno come un malato di un farmaco efficace.
Si verificò purtroppo un fenomeno
imprevisto e forse imprevedibile: la domanda di giustizia divenne tolleranza
prima e acquisizione poi del più acritico e pigro garantismo. I missini
finirono per diventare più garantisti dei liberali e ad estendere il garantismo
fino alla criminalità organizzata, che, come si sa, riesce ad infiltrarsi nei
settori meno sospettabili della società fino alle alte sfere del potere
politico, economico, finanziario, perfino giudiziario e Dio solo sa dov’altro.
A favorire il fenomeno di
trasformazione degli ex missini da giustizialisti arrabbiati in garantisti illuminati
ha concorso sicuramente la guerra che non pochi magistrati hanno scatenato
contro il capo del centrodestra Silvio Berlusconi, per cui ogni inchiesta
giudiziaria rivolta a un rappresentante di questo schieramento è stata
considerata un attacco politico, dal quale bisognava difendersi. Da quel
momento in poi gli ex missini, che tante denunce e battaglie avevano fatto per
la legalità, non sono entrati più nel merito delle inchieste e dei processi ma
si sono impegnati a sostenere le garanzie degli imputati. Essi devono essere
prima condannati con sentenza passata in giudicato prima di essere considerati
colpevoli; il che può accadere dopo i previsti tre gradi di giudizio e in
termini temporali dopo qualche decina di anni, dato che i tempi della giustizia
in Italia sono biblici. Nel frattempo questi “signori” possono candidarsi,
farsi eleggere, ricoprire cariche istituzionali e di potere politico; e intanto
continuare nelle loro attività che solo dopo tanti anni e tanti danni si può
sapere se erano o no legali. Il ragionamento a conclusione di una simile
aberrante visione delle cose è: e se al termine del processo l’imputato,
intanto escluso dai suoi diritti politici e rovinato, dovesse risultare
innocente? Ecco – dicono i garantisti – l’irreparabile, che bisogna evitare
prima che accada! Ma con lo stesso ragionamento si potrebbe dire: e se nel
frattempo che lo stesso è tornato a fare politica e ad amministrare la cosa
pubblica e a reiterare i reati dovesse risultare colpevole?
E’ evidente che giustizialismo e
garantismo sono posizioni radicali, estremiste, che non possono essere assunte a
criteri onnicomprensivi. Ciò che potrebbe valere per un comune cittadino non
può valere per un politico. Il quale, scendendo o salendo in politica, dovrebbe
sapere quali sono i rischi e fare di tutto per non correrli o predisporsi
mentalmente ad affrontarli con spirito garantista, non per se stesso ma per la
società, ed essere pronto a dimettersi.
Gianfranco Fini dice che fu lui a
sollevare la questione giustizia nel Pdl e che per questo fu cacciato. Peccato
che lui la questione non la pose sul piano politico né come leader di una componente importante come An, ma da
singolo a singolo, sperando che la magistratura togliesse di mezzo Berlusconi
per regalare a lui il partito e il governo. Oggi vuole nobilitare un tradimento
politico, non nei confronti di Berlusconi ma degli italiani che avevano creduto
in lui e lo avevano seguito, accreditandosi come un martire della giustizia e
della moralità pubblica.
La situazione politica della
destra oggi è di massima confusione. Ma se le istituzioni politiche di questa
importante parte politica difettano, non così i cittadini che si riconoscono
nei valori della destra. Essi possono trovare da sé la sintesi tra
giustizialismo e garantismo e separare il piano giudiziario da quello politico,
in attesa che si formi una nuova classe politica di destra che li rappresenti
degnamente.
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