domenica 30 maggio 2010

Pedofilia: pagliuzze e travi

La campagna denigratoria contro la Chiesa per la pedofilia dei preti non ha precedenti per estensione planetaria e virulenza. Tanto insistente che l’altra questione, legata alle finanze del Vaticano, assai grave per gli agganci criminosi – si pensi allo Ior, ai Calvi, ai Marcinkus, alla banda della Magliana – è passata in secondo ordine.
Gli effetti non si sono fatti attendere: già in varie parti d’Europa è calato l’8 per mille per la Chiesa cattolica. E probabilmente un primo obiettivo è stato raggiunto. Al Cerbero che l’azzanna è stato dato quel che voleva: la terra nelle bramose canne.
Questo, ovviamente, non è tutto e nemmeno significa che il problema della pedofilia non ci fosse e non andasse sollevato, tutt’altro. Andava, però, contenuto e contestualizzato.
Incominciamo col dire che non è nuovo né peggiore di prima e che durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II se ne parlò pochissimo. Continuiamo col dire che Benedetto XVI, già prima ancora di diventare Papa, in occasione della Via Crucis del 2005, pronunciò parole durissime, senza specifici riferimenti, contro il marcio della Chiesa. Il sospetto, perciò, che la campagna antipedofilia sia in buona sostanza contro Benedetto XVI è talmente ingombrante da non far vedere altro. E che essa nasconda altri obiettivi è talmente evidente che nessuno è disposto ad escluderli: matrimonio gay, procreazione assistita, uso di anticoncezionali, celibato dei preti, sacerdozio femminile, eutanasia, oltre a divorzio e aborto.
Su tutti questi problemi Benedetto XVI, come già Giovanni Paolo II, è intransigente. Questo Papa teologo, però, a differenza del suo predecessore, è un professore che spiega perché la Chiesa non può derogare dalle sue millenarie prerogative. Perciò irrita, con la sua fredda docenza. Giovanni Paolo II si limitava ad enunciare i “no” e con volto bonario e suadente, dall’alto del suo carisma, convinceva della loro giustezza. Questa, in buona sostanza, la differenza tra Benedetto XVI e il suo predecessore; se non si vuole anche tener conto dell’immaginario collettivo: il Papa polacco è già da amare perché appartiene ad un popolo vittima dei prepotenti, il Papa tedesco è già da odiare perché appartiene ad un popolo boia di innocenti.
Va da sé che un papa non può assolutamente, senza negare se stesso e chi e cosa rappresenta, dispensare autorizzazioni a peccare. Ve lo immaginate un Papa che parli come Dario Fo o Marco Pannella? Come Franca Rame o la Sabina Guzzanti?
Allora, il problema dei preti pedofili è vero ed è grave. C’è poco da discutere! E’ giusto pertanto che la società, tenuta da un Papa severissimo custode dell’ortodossia dei costumi tradizionali entro steccati di quotidiane rinunce, pretenda dalla Chiesa di dare il buon esempio, di essere intransigente con se stessa, a partire da ciò che accade entro le sue quattro mura, prima di lanciare anatemi sugli altri. Qui, invece, la Chiesa ha dimostrato di essere in grave difetto.
Le colpe della Chiesa sono soprattutto di carattere omissivo. Il che presuppone l’oggetto omesso, che è la materia del contendere. Il suo comportamento è piuttosto secolarizzato; esso s’inserisce in una morale dissimulatoria propria di una certa cultura occidentale: il danno che fa il male nascosto è minore di quello che lo stesso male produce se reso pubblico. “Intus quod libet foris quod licet” insegnava Torquato Accetto. Certe “porcherie”, del resto, non accadono solo negli spazi chiesastici (sagrestie, seminari, locali parrocchiali), ma nelle famiglie e nelle scuole. Di simili “porcherie”, in genere, trapela assai poco, perché si ritiene che nasconderle e soffocarle conviene di più che renderle pubbliche e farne oggetto di discussione e perfino, ove ricorrano gli estremi, di processi con relative sentenze e pene.
Ma se la Chiesa denuncia i vizi della società – ed è giustissimo che lo faccia – come può, poi, essa stessa praticare gli stessi vizi? Come può la Chiesa farsi società senza venir meno alla sua specificità di agenzia educatrice per eccellenza? La Chiesa pensa alla Civitas Dei, la società alla Civitas hominum. Ci deve pur essere una differenza.
Questo iato, Benedetto XVI lo ha capito da tempo. Nel male come nel bene, è appena il caso di ricordare che Benedetto XVI appartiene al popolo di Martin Lutero, uno che i conti li faceva con se stesso e lo insegnava agli altri. Di qui il suo forte impegno a pulire prima di tutto le sue “stalle”. Il suo continuo tornare sull’argomento, benché rivolto più immediatamente ai fedeli, è un messaggio che mira a colpire gli operatori della Chiesa, ossia i preti.
Ma gli effetti mediatici di tanto insistere su un argomento di per sé scabroso possono essere anche rischiosi. Uno può essere quello deviante di far passare una falsa verità, ossia che il problema riguardi solo la Chiesa, la sua gente e i suoi luoghi. Non occorre molta fantasia o particolari conoscenze per immaginare che laddove esista uno spazio chiuso, all’interno del quale, operano degli esseri umani, si possano verificare delle “porcherie”. In un seminario ci sono ragazzi dagli undici-dodici anni ai diciotto-diciannove. Come non immaginare che lì si verifichino “pratiche”, direi anche normali, per l’età dei soggetti e per la loro condizione? Non accade la stessa cosa, sia pure in condizioni diverse, nelle scuole pubbliche? E i presidi e i professori non si comportano esattamente come i loro omologhi in seminario, ossia tendono a nascondere? Suvvia, non siamo ipocriti! Eppure nessuno ha fatto finora il chiasso che è stato fatto per i preti pedofili, i quali, evidentemente, prima di essere preti sono stati seminaristi; e i presidi e i professori, prima di essere tali, sono stati studenti e sono passati dai bagni scolastici.
L’altro effetto deviante di questa campagna è che a farla è la stessa gente che alla questione sesso non pone nessun limite e nessuna regola. Come dire: vede la pagliuzza nell’occhio della Chiesa e non s’accorge della trave che è nell’occhio della società, ossia di se stessa.
Benedetto XVI fa bene ad insistere nella condanna della pedofilia, però credo che adesso si stia prestando alla speculazione di chi vuole male alla Chiesa. Pur considerando che per un prete pedofilo ci sono centinaia di preti bravi, onesti e veramente ligi al servizio di Dio e degli uomini, occorre insistere non tanto sulle parole quanto sui fatti. Colpire un prete pedofilo in modo puntuale e definitivo vale più, ma molto di più, che chiacchierare sul problema, che se non è falso è tuttavia offensivo nei confronti di una istituzione che merita rispetto e riconoscenza.

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domenica 23 maggio 2010

Corruzione, al disopra d'ogni sospetto: nessuno!

Nessuno – dice un noto proverbio – può stare in un mulino senza infarinarsi. La politica in Italia è da intendersi come mulino? E la farina è la metafora del malaffare? Direi di sì. Si dice che i costi della corruzione oggi nel nostro paese superino i quaranta miliardi di euro all’anno. Come dire, due manovre finanziarie per aggiustare i conti dello Stato. Purtroppo di questo non si stupisce più nessuno. Qualcuno ancora si indigna. Ma anche l’indignazione in Italia è quel che resta di un vaso dopo che è andato in frantumi.
Stupisce sempre, invece, l’industriosità di dove s’annidi e di come si organizzi il malaffare. Riflettiamo un attimo sulla vicenda Fasano-Siciliano, che ha tenuto banco in questi giorni nel Salento e che ha riguardato due uomini, che, benché provenienti da storie politiche diametralmente opposte, Fasano dal Pci, Siciliano dal Msi, si sono incontrati alla Teano del malaffare.
I fatti: ai tempi in cui l’avv. Flavio Fasano di Gallipoli era assessore provinciale ai lavori pubblici (Presidente della Provincia Pellegrino) viene bandita una gara d’appalto per eliminare da tutte le strade della provincia (2.000 chilometri) i cartelloni pubblicitari abusivi (7.000) e per gestire il regolare servizio pubblicitario sulle stesse. L’affare è di circa venti milioni di euro; la parte relativa alla rimozione di circa tre. Fasano vuole che la gara se l’assicuri l’azienda Five riconducibile a Siciliano e tramite la Cotup a Lagioia, con cui l’assessore provinciale sarebbe in combine, tramite un…Piccolo prestanome. Ha bisogno perciò che il responsabile Servizio strade della Provincia Stefano Zampino elabori il bando di gara e lo faccia conoscere agli interessati per poter giungere alla conclusione desiderata. Chi si frappone al disegno “non capisce un cazzo” (Phasanus dixit).
Ciò che colpisce di più in questa storia, pur grave nel suo complesso, è la parte che riguarda i cartelloni abusivi. Tre milioni di euro per rimuoverli. Incredibile! Per capire c’è davvero bisogno di uno sforzo non indifferente. Significa che per anni si è tollerato che sulle strade provinciali venissero installati cartelloni pubblicitari abusivamente e a volte in maniera difforme dai regolamenti e perciò pericolosi per gli utenti della strada. Significa che si è lasciato fare apposta, fino a quando il “mostro” non è cresciuto tanto da proporsi come un bell’affare di milioni di euro. Un caso di strategia malavitosa.
Ma come? Perché la Provincia, che ha perfino una sua polizia, non interviene, volta per volta, ad invitare i responsabili, che sono identificabili dalla titolarità del cartellone, a rimuoverli entro un dato numero di giorni, pena la rimozione forzata con l’aggravio delle sanzioni previste e il risarcimento delle spese? Già, perché?
La risposta è tanto semplice quanto intollerabile. Perché ci sono i vari mugnai della politica che devono infarinarsi, che devono crescere in orizzontale, arricchendosi di beni, e in verticale, scalando le gerarchie del potere politico.
In Italia – e specialmente nel Mezzogiorno – si scambia l’omissione di reato per sana tolleranza. Il cittadino, fin da bambino, viene abituato (non più educato) a vivere e a lasciar vivere, che tradotto in comportamenti significa fare quel che si vuole e lasciare che gli altri facciano quel che vogliono. Il bambino, essendo il prototipo del popolo, diventa un modello ben preciso di società. Il popolo degli adulti si comporta infatti come una moltitudine di bambini in un asilo senza assistenti.
I vari casi di corruzione e di malaffare che investono la società italiana a tutti i livelli sono la prova provata che dai comportamenti tollerati giungono segnali di impunità e di disgregazione progressiva delle norme condivise. Benché sia provato che lasciato un vetro rotto di una finestra il giorno dopo sono rotti tutti gli altri, perché chi passa e vede recepisce il messaggio di impunità e rompe i restanti, da noi si continua a lasciar fare.
Solo per un malinteso senso di tolleranza? Così si pensava. Non più. Ma per un ben preciso calcolo d’affari. I vetri rotti da noi sono un business. Siamo in presenza di una dimostrazione come la teoria dei vetri rotti qui da noi è applicata dal potere politico per arricchirsi ai danni dei cittadini. La sciatteria amministrativa genera mafie, camorre; crea situazioni di guadagno illecito.
Qui non c’è solo una mentalità anarcoide ma una precisa idea di criminalità sociale, con tanto di percorso tattico e di obiettivo strategico.
In una simile società, debole nella sua tenuta strutturale, ci sono delle élites che – nel migliore dei casi – con la copertura dell’amministrazione pubblica e della soluzione dei problemi della gente, organizzano le attività pubbliche in modo tale da riservare a sé una quota di benefici, una sorta di integrazione delle proprie indennità di mandato.
In questi ultimi tempi la corruzione ha attinto uomini e zone tradizionalmente al di sopra di ogni sospetto (vedi Frisullo, Fasano, Siciliano), rafforzando la tesi che è assolutamente impossibile oggi fare politica, a qualsiasi livello, senza rimanere in qualche modo coinvolti nel malaffare. Rispetto a prima c’è un autentico salto di qualità in peggio. Si è passati dallo stare al gioco o tacere per paura di subire qualche ritorsione, anche fisica, come in qualche caso è successo negli anni passati, alla consapevole accettazione del più redditizio minuetto dell’io do una cosa a te e tu dai una cosa a me, in un intreccio di rapporti in cui si passa, come in un labirinto da luna park, per zone ora illuminate da luce accecante, ora opache, ora buie completamente. I magistrati, per vedere qualcosa, hanno bisogno dei raggi – lo dico senza ironia – infrarossi.
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domenica 16 maggio 2010

Due-tre cose sull'Università del Salento

Prima cosa. Una volta l’Università del Salento si chiamava Università di Lecce. Così è nel mio diploma di laurea conseguito nell’aprile del 1973; così fino a pochissimi anni fa. Quell’Università non esiste più. Sotto il profilo giuridico nulla da eccepire: il soggetto è lo stesso, ha solo cambiato nome. Sotto il profilo politico e culturale è un’altra cosa. Prima di tutto non è più di Lecce, ma del Salento; il cambio non è senza significato. La nuova dicitura indica una pluralità di sedi, con alcuni corsi di laurea espatriati, per ora solo a Brindisi, nel nome del Grande Salento. Entità, questa, che non si sa bene se geografica o politica. Peraltro, già a Lecce, l’Università è dispersa in tante sedi diverse, fatta a pezzi e sparpagliata. Inevitabile, del resto, data la crescita. Ma ha perso il suo fascino e la sua funzionalità. Molte di queste sedi sono in locali adattati e perciò inadeguate, dove invece di aule o uffici universitari potrebbero esserci uffici delle case popolari o della previdenza sociale. MacLuhan diceva che il mezzo è il messaggio. Mi piace dire, da insegnante, magari anche esagerando, che la sede è la scuola.
Seconda cosa. L’intitolazione. Sembrava quasi che non ci fosse alternativa alla proposta del Prof. Pankievicz di intitolarla a Giuseppe Codacci Pisanelli, tra i fondatori e primo rettore dell’Università. E invece l’amico Mario Carparelli, ricercatore di filosofia, ha lanciato la proposta su facebook di intitolarla a Giulio Cesare Vanini (1585-1619), filosofo di Taurisano, condannato al rogo per ateismo dal Parlamento di Tolosa, uno degli autori salentini più famosi al mondo, proprio per la vicenda biografica che lo innalza ai livelli di Giordano Bruno e di altre eccellenti vittime del potere politico e religioso.
Benché Vanini sia mio concittadino e nel mio esercizio giornalistico io operi all’insegna del suo motto “Fraudes detegere – figmenta patefacere” (scoprire le frodi – svelare gli inganni), non mi dico d’accordo, per alcune considerazioni. Non mi sorprenderebbe se ora venissero fuori altre proposte, che so, Quinto Ennio, il Galateo, l’Ammirato, qualche bella figura degli Altavilla, e doversi bisticciare a difesa di un campanile o di un improbabile remoto riferimento politico. Credo, invece, che un’istituzione importante come l’Università debba avere il nome e i simboli del suo tempo. Giuseppe Codacci Pisanelli, pur con tutte le obiezioni del mondo, resta un nome a cui è difficile contrapporne un altro a saldo, per quanto meritevole possa essere l’altro.
Terza cosa. Lo spettacolo che Rettore e Presidi da una parte ed esponenti del governo nazionale dall’altra stanno dando in questi giorni a causa dei tagli finanziari, previsti in ragione dei criteri selettivi, lascia quanto meno perplessi. Il livello dello scontro è biasimevole per l’una e per l’altra parte, sia per toni che per argomentazioni.
Il Rettore Domenico Laforgia e alcuni Presidi, chiamati in causa (Strazzeri, Invitto, Dattoma), dicono che hanno già tagliato tutti gli sprechi tagliabili. Il ministro Raffaele Fitto e il sottosegretario Alfredo Mantovano ribattono, indicano le cattedre-doppioni e suggeriscono una politica universitaria di contenimento delle cattedre umanistiche, i cui laureati non sono richiesti nel mercato del lavoro, almeno non nel numero che quelle cattedre producono. Si controbatte dicendo che l’Università non è una scuola professionale e che deve dare a tutti l’opportunità di studiare in libertà d’indirizzo e di scelta a prescindere dal mercato del lavoro. Si controcontrobatte accusando chi difende una simile Università di essere fuori dal mondo e che chiedere soldi per soddisfare capricci personali è assurdo in un momento in cui le vacche sono più magre di quelle sognate dal Faraone d’Egitto e l’Europa attraversa una crisi finanziaria piuttosto grave.
E’ un dibattito serio, questo? Si assiste piuttosto non ad un concorso di forze per aiutare l’Università, che versa in cattive condizioni, non solo di soldi, ma ad un concorso di forze per danneggiarla, sia pure con intenzioni e metodiche diverse. Da una parte si vuole mantenere i rami secchi fino a quando non fanno seccare anche il tronco verde; dall’altra si vorrebbe colpire l’albero dove para-para, tanto un ramo vale l’altro.
E’ di tutta evidenza che non si può da un giorno all’altro azzerare tutte quelle situazioni ormai consolidatesi che hanno fatto dell’Università un luogo d’irresponsabilità culturale e finanziaria: cattedre fantasiose, insegnamenti con pochissimi studenti, altri con elargizioni di voti per intercettare il favore degli stessi, corsi corsini e corsetti “profumo”, che comunque costano danaro e via di seguito. Ma non si può neppure tollerare che un simile atteggiamento dai rappresentanti dell’Università venga considerato giusto anche in prospettiva nonostante i fallimenti prodotti.
Da parte loro i due autorevoli rappresentanti salentini del governo sbagliano a rapportarsi con chi rappresenta l’Università come se questi fossero degli avversari politici. Sembrerebbe quasi che gliela vogliono far pagare per qualche “torto” subito. La sconfitta alle Regionali?
Di certo c’è che né gli uni né gli altri intendono trovare un punto di accordo e che tutti puntano al commissariamento, palleggiandosi per ora le responsabilità.
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domenica 9 maggio 2010

Unità d'Italia: 150 anni fa ci unimmo per restare disuniti

Tra le italiche virtù c’è quella di stupirsi di tutto, anche delle cose più banali e scontate; ovvero, di far finta di stupirsi. Ci piace fare i bambini. Un esempio? L’Unità d’Italia. Ha scritto di recente Ernesto Galli della Loggia, uno dei primi, se non il primo, a registrare l’ipotermia celebrativa del 150° anniversario, che “A volte bisogna avere il coraggio di rischiare la retorica” e che “Questa è una di quelle volte”. Ma questa, se Galli della Loggia permette, è la prova che per dare un senso alla celebrazione occorre ancora, a distanza di 150 anni, la retorica piuttosto che la ricerca della verità storica o l’autentico sentimento unitario.
Diciamola tutta. La ricerca storiografica è stata sempre mortificata da superiori interessi nazionali, mentre il sentimento unitario non ci fu 150 anni fa e non c’è oggi, inteso come partecipazione di popolo. Il processo risorgimentale fu una sorta di operazione chirurgica, seguita da altri non meno dolorosi interventi chirurgici, per far sì che le molteplici componenti che ebbero una parte in quel processo trovassero una sintesi autentica.
Vogliamo considerarle quelle componenti? Partiamo dalle prime due: i fautori della rivoluzione per un’Italia unita e i fautori della conservazione di un’Italia disunita. Davvero dobbiamo cedere alla retorica, di cui parla Galli della Loggia, e negare che ci fossero quelli che l’unificazione dell’Italia non la volevano? C’erano, e come! C’erano al Nord, c'erano al Centro e c’erano al Sud. Ma perché non dovevano esserci?
Nell’ambito di chi voleva e si spendeva per l’unificazione c’erano quelli che volevano un’Italia monarchica, a guida Savoia, e quelli che la volevano repubblicana; quelli che la volevano fare dall’alto (Cavour e piemontesi) e quelli che la volevano fare dal basso (Mazzini, Pisacane); quelli che la volevano fortemente centralizzata e quelli che la volevano federale; e fra questi ultimi, quelli che la volevano sotto la presidenza del Papa (Gioberti e i neoguelfi) e quelli che la volevano democratica e laica (Cattaneo); e quelli che la volevano pur che fosse (Garibaldi). Più complicato diventa il processo unificante se si considera poi il profilo ideologico. Qui troviamo liberali e massoni, aristocratici e democratici, cattolici e anticlericali, borghesi e… no, non ci furono contadini e popolani. Insomma l’unificazione d’Italia avvenne davvero in un coacervo di idee e di proposte, ma anche con assenze importanti. E se non fosse stato per diplomazia ed esercito piemontesi, pur senza svalutare il contributo generoso di sacrifici e di sangue di tanti italiani al Nord, al Centro e al Sud, staremmo ancora a discutere se farla o non farla l’unità d’Italia; e se farla, come. La prova è che ancora oggi ne discutiamo e non siamo tutti d’accordo, neppure sulla ricorrenza celebrativa. Qualcuno (la Lega) dice che è tempo perso. Ma fu anche tempo perso farla, l'unificazione?
Non so se Gianfranco Fini, Presidente della Camera, da giovane si appassionasse davvero a leggere “L’Alfiere” di Carlo Alianello, come afferma in una recente intervista sulla “Stampa”; so che oggi è uno dei più convinti sostenitori dell’opportunità di celebrare la ricorrenza, mentre chi si appassiona ancora alle tesi di Alianello ha qualche difficoltà in questo senso, per non dire che è del tutto contrario. Alianello, infatti, sostiene nei suoi libri che il Sud fu conquistato dal Nord. Un altro suo libro è intitolato proprio “La conquista del Sud”. Ma Fini non sorprende più nessuno, neppure se si dicesse che in gioventù aveva simpatie borboniche. Per lui il Sud è oggi più che mai terra di conquista dopo lo sfratto subito dal Nord di Berlusconi e Bossi.
Certo è che c’è un filo che attraversa la storia d’Italia, dal processo risorgimentale di 150 anni fa al processo federalista dei nostri giorni. Il Risorgimento italiano è opera del Nord nei confronti di un Sud passivo, che si lascia conquistare da poche centinaia di volontari “male in arnese”, come dice Galli della Loggia; e opere del Nord sono tutti gli altri grandi fatti nazionali costitutivi: il fascismo, la resistenza, la repubblica ed oggi il federalismo.
Il Nord, però, è una categoria geografica che spiega in parte il ruolo dell’impresa. A volere l’unificazione e a farla fu la borghesia, come ben sostenne Antonio Gramsci; e ai tempi del processo risorgimentale la borghesia era in buona sostanza il Nord. E’ sempre la borghesia, se si esclude la parentesi resistenza-repubblica (la grande occasione mancata dalla Sinistra), a volere e a fare le cose in Italia. Oggi la stessa borghesia vuole il federalismo; e lo vuole così tanto che non esita a subordinarlo a qualsiasi ipotesi celebrativa dell’Italia unita e a richiederlo con l’insistenza con cui neppure Aldo Biscardi chiede la moviola in campo.
Comunque vada a finire la questione, ciò che non si può ignorare è già quanto è accaduto: dal clima antinazionale della Lega ad un atteggiamento piuttosto freddo del governo Berlusconi; dal disinteresse diffuso degli intellettuali all’indifferenza del popolo. Se così non fosse stato il Presidente emerito della Repubblica Ciampi non si sarebbe dimesso da presidente del comitato per le celebrazioni e con lui altre eminenti personalità. Ma questo stupisce qualcuno? Disuniti eravamo e disuniti siamo.
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domenica 2 maggio 2010

Pasolini: il dubbio e la verità

Premesso che ci sono cose nella vita talmente grandi che finiscono per non appartenere più ai loro “proprietari”, materiali o morali che siano, non si può mai rinunciare alla difesa della più piccola verità e al rispetto di tutti i suoi protagonisti.
Facciamola breve: la morte orribile di Pasolini nella notte tra l’uno e il due novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia, i processi che ne seguirono e soprattutto le polemiche sulle strategie difensive e sui presunti complotti, hanno adombrato, a volte anche pesantemente, non meglio definite accuse nei confronti dell’avv. Rocco Mangia, difensore unico del giovane allora diciassettenne Pino Pelosi, detto “la rana”, reo confesso del delitto. Accuse non esplicitate ma sospese nella “dispositio” dei servizi giornalistici e televisivi, con informazioni e domande efficacemente rivolte verso una verità come rigagnoli d’acqua verso il canale di gronda.
Da allora, periodicamente si torna sul caso Pasolini, in specifico sulla sua morte, per avvalorare l’ipotesi del complotto, sempre esclusa dalla verità processuale, e per chiedere la riapertura del caso, benché la sentenza definitiva sia stata chiara: “E’ estremamente improbabile che Pelosi abbia potuto avere uno o più complici”; e benché il caso, più volte riaperto, sia stato chiuso senz’altro, l’ultima volta nel 2008.
Alla ciclicità di interesse per il caso Pasolini si giunge per due motivi: primo, il fatto che Pasolini, essendo quel grande intellettuale che indiscutibilmente fu, non poteva morire in maniera così banale, vittima delle sue stesse avventure erotico-esistenziali; secondo, ad affacciare l’attendibilità di una tesi diversa da quella uscita dai processi concorre il continuo ritorno dell’unico accusato e condannato, il Pelosi appunto, che cerca quasi di mungere attenzione mediatica e probabilmente qualcos’altro con rivelazioni, che finora sono rimaste sempre indimostrate.
Sul primo motivo si spese fin dal primo momento tutto l’ambiente politico-culturale di sinistra, da Alberto Moravia, il quale disse pubblicamente che un poeta come Pasolini non poteva fare la fine che gli veniva attribuita, ad Oriana Fallaci, che in aula affermò di avere le prove del complotto, rischiando di essere arrestata quando si rifiutò di esibirle. Quanto al secondo motivo, sono i mass media ad insistere, per comprensibili motivi, a rifare il processo nelle aule di giustizia perché poi questo alimenterebbe il processo nei loro salotti.
Di recente – e siamo a quasi trentacinque anni da quel disgraziato 2 novembre del 1975 – si è tornati sul caso, con alcuni importanti interventi. Tra cui, per citare i più recenti, quello di Walter Veltroni con una lettera al Ministro di Giustizia Alfano per chiedergli di riaprire il caso (“Corriere della Sera” del 22 marzo); e quello della trasmissione “Chi l’ha visto?” di lunedì, 19 aprile su RaiTre. A parte quello di Veltroni che con molto garbo chiede di riaprire il caso perché “la scienza oggi può dirci la verità” su alcuni non irrilevanti dubbi mai definitivamente e completamente fugati, gli altri tornano ad insinuare che l’avv. Mangia, già difensore dei mostri del Circeo e di altri imputati dell’estrema destra, fosse stato proposto al Pelosi per impedire che gli avvocati d’ufficio impostassero la sua difesa non sulla sua dichiarata esclusiva colpevolezza ma sull’ipotesi del complotto, come gli avvocati di parte civile, Calvi e Marazzita, volevano. Insomma, per far passare l’idea che quella dell’avv. Mangia non fu un impegno deontologicamente ineccepibile, ma un’operazione politica per evitare che si giungesse ad una verità scomoda al Palazzo, siccome il penalista salentino apparteneva all’ala più conservatrice della Democrazia Cristiana romana. Fin dal primo momento, dunque, sul corpo martoriato di Pasolini s’ingaggiò una violenta battaglia politica “a prescindere”, dall’ipse dixit di Moravia all’io so ma non dico della Fallaci.
Da allora l’avv. Mangia, nel frattempo scomparso (ottobre del 2000), originario di Taurisano e all’epoca del delitto Pasolini già celebre penalista a Roma, viene attaccato in maniera subdola per aver fatto esclusivamente il suo dovere professionale senza farsi condizionare dalla grandezza del personaggio e dall’enorme clamore del caso. Fermo restando che ognuno è libero di avere le sue idee e coerentemente osservarle nel rispetto delle situazioni e degli uomini. Se questo vale per Calvi e Marazzita, perché non dovrebbe valere per Mangia?
Ora, è sicuramente condivisibile che non si smetta mai di cercare la verità su Pasolini. E’ perfino comprensibile che, per l’enormità del personaggio in questione, non si smetta mai di nutrire dei dubbi. Ma non è ammissibile che si debba continuare a gettare discredito su chi ha fatto, nel caso in questione, solo il suo sacrosanto e civilissimo dovere. L’avv. Rocco Mangia lo fece con quella passione, che, come possiamo vedere ogni volta che un avvocato difende un accusato di un crimine orribile, lo rende inviso ad una parte dell’opinione pubblica. Così è stato in tempi recenti per delitti come quello del bambino di Cogne, della ragazza di Garlasco, della strage di Erba, della giovane Meredith Kercher a Perugia; e come accadrà tutte le volte che l’opinione pubblica è emotivamente partecipe di un processo. Nel caso Pasolini, poi, sono in gioco contrapposizioni ideologiche, tanto irriducibili quanto inestinguibili, come dimostra lo studio più completo ed obiettivo sul caso Pasolini fatto dallo scrittore americano Barth David Schwartz nel 1995 significativamente intitolato “Pasolini Requiem”.

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