domenica 9 maggio 2010

Unità d'Italia: 150 anni fa ci unimmo per restare disuniti

Tra le italiche virtù c’è quella di stupirsi di tutto, anche delle cose più banali e scontate; ovvero, di far finta di stupirsi. Ci piace fare i bambini. Un esempio? L’Unità d’Italia. Ha scritto di recente Ernesto Galli della Loggia, uno dei primi, se non il primo, a registrare l’ipotermia celebrativa del 150° anniversario, che “A volte bisogna avere il coraggio di rischiare la retorica” e che “Questa è una di quelle volte”. Ma questa, se Galli della Loggia permette, è la prova che per dare un senso alla celebrazione occorre ancora, a distanza di 150 anni, la retorica piuttosto che la ricerca della verità storica o l’autentico sentimento unitario.
Diciamola tutta. La ricerca storiografica è stata sempre mortificata da superiori interessi nazionali, mentre il sentimento unitario non ci fu 150 anni fa e non c’è oggi, inteso come partecipazione di popolo. Il processo risorgimentale fu una sorta di operazione chirurgica, seguita da altri non meno dolorosi interventi chirurgici, per far sì che le molteplici componenti che ebbero una parte in quel processo trovassero una sintesi autentica.
Vogliamo considerarle quelle componenti? Partiamo dalle prime due: i fautori della rivoluzione per un’Italia unita e i fautori della conservazione di un’Italia disunita. Davvero dobbiamo cedere alla retorica, di cui parla Galli della Loggia, e negare che ci fossero quelli che l’unificazione dell’Italia non la volevano? C’erano, e come! C’erano al Nord, c'erano al Centro e c’erano al Sud. Ma perché non dovevano esserci?
Nell’ambito di chi voleva e si spendeva per l’unificazione c’erano quelli che volevano un’Italia monarchica, a guida Savoia, e quelli che la volevano repubblicana; quelli che la volevano fare dall’alto (Cavour e piemontesi) e quelli che la volevano fare dal basso (Mazzini, Pisacane); quelli che la volevano fortemente centralizzata e quelli che la volevano federale; e fra questi ultimi, quelli che la volevano sotto la presidenza del Papa (Gioberti e i neoguelfi) e quelli che la volevano democratica e laica (Cattaneo); e quelli che la volevano pur che fosse (Garibaldi). Più complicato diventa il processo unificante se si considera poi il profilo ideologico. Qui troviamo liberali e massoni, aristocratici e democratici, cattolici e anticlericali, borghesi e… no, non ci furono contadini e popolani. Insomma l’unificazione d’Italia avvenne davvero in un coacervo di idee e di proposte, ma anche con assenze importanti. E se non fosse stato per diplomazia ed esercito piemontesi, pur senza svalutare il contributo generoso di sacrifici e di sangue di tanti italiani al Nord, al Centro e al Sud, staremmo ancora a discutere se farla o non farla l’unità d’Italia; e se farla, come. La prova è che ancora oggi ne discutiamo e non siamo tutti d’accordo, neppure sulla ricorrenza celebrativa. Qualcuno (la Lega) dice che è tempo perso. Ma fu anche tempo perso farla, l'unificazione?
Non so se Gianfranco Fini, Presidente della Camera, da giovane si appassionasse davvero a leggere “L’Alfiere” di Carlo Alianello, come afferma in una recente intervista sulla “Stampa”; so che oggi è uno dei più convinti sostenitori dell’opportunità di celebrare la ricorrenza, mentre chi si appassiona ancora alle tesi di Alianello ha qualche difficoltà in questo senso, per non dire che è del tutto contrario. Alianello, infatti, sostiene nei suoi libri che il Sud fu conquistato dal Nord. Un altro suo libro è intitolato proprio “La conquista del Sud”. Ma Fini non sorprende più nessuno, neppure se si dicesse che in gioventù aveva simpatie borboniche. Per lui il Sud è oggi più che mai terra di conquista dopo lo sfratto subito dal Nord di Berlusconi e Bossi.
Certo è che c’è un filo che attraversa la storia d’Italia, dal processo risorgimentale di 150 anni fa al processo federalista dei nostri giorni. Il Risorgimento italiano è opera del Nord nei confronti di un Sud passivo, che si lascia conquistare da poche centinaia di volontari “male in arnese”, come dice Galli della Loggia; e opere del Nord sono tutti gli altri grandi fatti nazionali costitutivi: il fascismo, la resistenza, la repubblica ed oggi il federalismo.
Il Nord, però, è una categoria geografica che spiega in parte il ruolo dell’impresa. A volere l’unificazione e a farla fu la borghesia, come ben sostenne Antonio Gramsci; e ai tempi del processo risorgimentale la borghesia era in buona sostanza il Nord. E’ sempre la borghesia, se si esclude la parentesi resistenza-repubblica (la grande occasione mancata dalla Sinistra), a volere e a fare le cose in Italia. Oggi la stessa borghesia vuole il federalismo; e lo vuole così tanto che non esita a subordinarlo a qualsiasi ipotesi celebrativa dell’Italia unita e a richiederlo con l’insistenza con cui neppure Aldo Biscardi chiede la moviola in campo.
Comunque vada a finire la questione, ciò che non si può ignorare è già quanto è accaduto: dal clima antinazionale della Lega ad un atteggiamento piuttosto freddo del governo Berlusconi; dal disinteresse diffuso degli intellettuali all’indifferenza del popolo. Se così non fosse stato il Presidente emerito della Repubblica Ciampi non si sarebbe dimesso da presidente del comitato per le celebrazioni e con lui altre eminenti personalità. Ma questo stupisce qualcuno? Disuniti eravamo e disuniti siamo.
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