domenica 31 gennaio 2010

Il caso Puglia dimostra che Berlusconi è in declino

L’erroraccio del PdL di rinunciare alla candidatura regionale pugliese di Adriana Poli Bortone, l’unica vera esponente del centrodestra in grado di raccogliere tutte le anime del composito schieramento, dagli ultimi nostalgici del Msi ai più avanzati sostenitori di una destra aperta e capace di tener testa a Niki Vendola, giunge dopo una serie di cedimenti di Berlusconi ai vari capi e capetti del suo vasto e disarticolato schieramento. L’impero politico berlusconiano sta cedendo alle varie satrapie locali.
Al Nord Berlusconi ha ceduto alla Lega di Umberto Bossi, in Sicilia ha ormai perso carisma e potere in favore del Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, in Campania non è riuscito a difendere Nicola Cosentino, in Puglia ha ceduto ai vari Fitto e Mantovano, prepotenti e rancorosi leader di periferia. Al posto degli interessi comuni ci sono gli interessi personali, a volte autentiche rese dei conti.
Il Cavaliere è stanco, ma ancor più deluso da un mondo, che, nella sua incredibile ingenuità, doveva sorridergli per dato naturale. In poco meno di un anno gli è precipitata addosso una serie di colpi terribili, in parte privati e in parte pubblici: il divorzio dalla moglie, la sua prima accusatrice – quoque tu, Veronica… – lo scandalo delle minorenni, il caso D’Addario, i processi Mills e Mediaset che lo hanno costretto a gettare la maschera e cercare a tutti i costi un salvagente legislativo per non finire nei gorghi di una magistratura che non molla, la bocciatura del Lodo Alfano e la conseguente frizione col Presidente della Repubblica, il tormentone dei suoi rapporti con Gianfranco Fini e infine l’attentato di Milano seguito da migliaia e migliaia di evviva di giubilo da parte dei suoi avversari in tutta Italia. Si credeva amato e inviolabile. Si è dimostrato odiato e alla mercé di ogni “squilibrato” d’Italia.
Forse proprio quest’ultima offesa, la meno grave sul piano politico ma sicuramente la più devastante sul piano psicologico, perché colpito e commiserato coram populo, lo ha danneggiato di più. Se non ha ceduto di schianto è perché veramente ha una fibra fortissima. E tuttavia qualcosa ha perso sul piano della volizione, della sicurezza di sé, della capacità di padroneggiare i rapporti, della forza di imporre le sue scelte quasi sempre vincenti.
E’ per questo che negli ultimi tempi hanno incominciato a prendere piede le mezze figure, gli eterni provinciali della politica, quelli che sarebbero capaci di ammazzare il gemello nel comune utero materno se ne avessero contezza e capacità, pur di sbarazzarsi di uno che s’alimenta allo stesso cordone.
Il caso Puglia è esemplare. Berlusconi era preparato, sapeva. Sapeva che tra Fitto-Mantovano e la Poli Bortone era in corso una guerra all’ultimo sangue, iniziata molti anni prima. Per questo aveva cercato di farla entrare nel governo; ma gli si erano opposti con forza gli stessi implacabili nemici. Per lui la candidata migliore era la Poli Bortone. Ha ritentato fino all’ultimo di convincerli, ma non c’è stato niente da fare. Alla fine ha perso la pazienza, mostrando ormai la corda della sua tenuta nervosa, svalutando pubblicamente con motivazioni da gossip Rocco Palese, il candidato scelto dai suoi proconsoli pugliesi.
La mossa di Berlusconi era intelligente, ma non rispondeva all’odio mortale dei due, che la Poli la volevano e la vogliono annientare, cancellare una volta per tutte, dovesse costare anche la sconfitta regionale del 29 marzo. Con lo schieramento di centrodestra diviso Vendola vincerà a mani basse. Ma a Mantovano non importa nulla che il PdL perda le votazioni purché si allontani definitivamente l’incubo Poli Bortone. A Fitto addirittura non dispiace neppure perdere le elezioni regionali per non dover ammettere che un altro è riuscito dove a lui non era riuscito cinque anni fa.
Berlusconi in Puglia paga per colpe non sue, ma certamente per la sua debolezza. Già altre volte il Cavaliere è sembrato sulla via del tramonto e poi è riuscito a riprendersi, a riconquistare terreno ad imporsi più forte di prima. Ma questa volta è difficile che egli riesca a riprendersi completamente da quello stato che in gergo pugilistico si dice groggy, colpito da avversari e purtroppo per lui da amici ed alleati. Una volta tanto non traditori, ma rissosi e inconcludenti.
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mercoledì 27 gennaio 2010

Vendola Palese Poli: una partita asimmetrica

Come volevasi dimostrare: Niki Vendola ha sconfitto ancora una volta il suo antagonista interno al centrosinistra Francesco Boccia, sponsorizzato da tutto il Pd (D’Alema, Bersani, Franceschini); Adriana Poli Bortone è stata ancora una volta messa da parte dai capi territoriali del centrodestra, che non hanno esitato a mettere perfino la propria faccia pur di esorcizzare qualsiasi suo ritorno nella di lei casa naturale. Il popolo di centrodestra avrebbe preferito stare unito, pazienza!
Nulla da dire allo sconfitto del Pd e al candidato scelto per rappresentare il Popolo della Libertà Rocco Palese. Entrambi sono persone degne del massimo rispetto. Il primo è un economista di belle speranze, forse nel centrodestra sarebbe stato già valorizzato meglio; il secondo è un politico di provata esperienza, ambivalente, buono al governo (con Fitto), buono all’opposizione (con Vendola).
Non è di loro che qui si vuol parlare, ma del mondo politico che i due rappresentano e del modo con cui sono giunti l’uno alla sconfitta da parte della base, l’altro al successo da parte del vertice; l’uno che esce dal campo con l’onore delle armi, l’altro che rischia di fare la figura del missus dominicus non gradito.
Nelle due modalità c’è tutta la differenza fra due modi di intendere la partecipazione politica. Lo vede perfino un cieco: nel primo caso, la base ha chiesto di contare e nonostante le iniziali resistenze dei vertici è riuscita nel suo intento; nel secondo caso, la base non è stata interpellata minimamente, chiusa negli stazzi della grande fattoria. Nel primo caso la base è stata soggetto dell’operazione e per le elezioni si sentirà coinvolta in prima persona a difendere una sua scelta; nel secondo, la base, fino al giorno delle elezioni negletta, andrà alle urne per soddisfare una scelta fatta da altri e con criteri a lei ignoti. La differenza non è irrilevante, è la stessa che passa fra chi combatte per difendere la propria casa e i propri cari e chi fa finta di combattere per trovarsi dietro il carro del presunto vincitore.
Nel centrosinistra i cittadini fanno ancora politica, discutono, si confrontano, votano; nel centrodestra sono ridotti a comparse, sospettano, malignano, litigano.
Il successo di Niki Vendola è straordinario. Vincere col 73 % non è vincere, è bastonare, è rovesciare una gragnuola di colpi sulle teste di chi ti voleva mettere da parte in nome di un potere usurpato. La sua vittoria è la vittoria della sua gente, che ha rivendicato il diritto di decidere, che ha stabilito un punto fermo in politica: non è vero che o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra, ma è vero che puoi buttare sia la minestra sia chi te la vuole cacciare in gola. E’ la vittoria di chi intende la politica come partecipazione, passione, rivendicazione anche identitaria. Quel 73 % di cittadini che hanno votato Vendola lo hanno fatto anche per difendere il proprio mondo politico da contaminazioni alambiccate in laboratorio.
A fronte di questo universo politico, di sinistra, ci doveva essere il suo omologo avverso, ossia l’universo politico della destra, che oggi solo Adriana Poli Bortone incarna e rappresenta. Palese ha un altro vissuto, che esclude l’anima sociale. A destra non vogliono le primarie non solo e non tanto perché non rientrano nella tradizione, ma soprattutto perché, nello specifico pugliese, esse avrebbero dato ragione a lei. La Poli Bortone è oggi il solo esponente del centrodestra in grado di coniugare i valori della tradizione con le esigenze del nuovo senza barattare il proprio vissuto e senza fughe in avanti per paura di perdere il posto in prima fila. Il mondo missino, non ancora del tutto estinto, ha ragione di guardare a lei come al suo candidato naturale; ma anche il mondo di An, se vuole difendersi dal tentativo fagocitante di Forza Italia e della Lega, ha ragione di scegliere lei per lanciare un messaggio forte. L’apporto, poi, politico ed elettorale dell’Udc dimostra che lei gode del favore dell’elettorato cattolico e moderato ed aumenta le sue chances di successo.
Per altre strade, insomma, la politica è giunta a proporre agli elettori il vero confronto, quello che doveva essere scontato fin dall’inizio, che è tra Niki Vendola, uomo di sinistra, governatore uscente, e Adriana Poli Bortone, donna di destra, capace di governare, di suscitare entusiasmo, di interpretare quell’elettorato che l’ha seguita per più di quarant’anni.
Vendola sembra avvantaggiato potendo contare su tutto l’elettorato di centrosinistra; non così per Palese e Poli, i quali devono giocare una partita in cui l’avversario più subdolo è proprio quello più vicino. Ma, nella casa del centrodestra, c’è chi potrà perdere qualcosa di più delle regionali.
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domenica 24 gennaio 2010

Napolitano collaboratore di verità

Chiedo scusa per l’irriverente paragone, ma se un pentito di mafia si chiama collaboratore di giustizia, un pentito di politica come si potrebbe chiamare? Ecco, ce l’ho: collaboratore di verità.
Il quesito me lo sono posto dopo aver letto la lettera che il Presidente Napolitano ha scritto alla vedova Craxi nel decennale della morte del leader socialista. Napolitano è oggi un pentito di quella politica che nel 1993 condannò Craxi ad assumersi la responsabilità del gravissimo fenomeno di Tangentopoli. Napolitano era lì a Montecitorio quando Craxi, con fare accusatorio, invocò la corresponsabilità dell’intero sistema partitocratico.
Dico, tuttavia, che ho difficoltà a far rientrare l’iniziativa di Napolitano nei suoi attuali compiti istituzionali, ancor prima di conoscere i contenuti della lettera, sui quali, invece, sono sostanzialmente d’accordo.
Perché Napolitano ha ritenuto d’intervenire, pur conoscendo i rischi dell’iniziativa? Sicuramente ha voluto sanare una gravissima ferita provocata dal suo partito, quel Partito comunista che, pur avendo avuto una parte non minore nella vicenda del finanziamento illecito dei partiti, ebbe l’ardire di ergersi a giudice di Craxi e di organizzare la campagna denigratoria contro di lui fino al suo abbattimento. In quella circostanza ci fu la “fusione politico-giudiziaria”: da una parte i partiti politici, comunista in testa, si trasformarono in giudici; e dall’altra parte i giudici si trasformarono in politici. Ebbe inizio di lì l’epifania di una magistratura che capì che il momento di fare politica era giunto. Il Muro di Berlino era caduto, i comunisti non erano più una minaccia per la democrazia, dato che l’Unione Sovietica, di lì a poco, avrebbe chiuso i battenti; la classe politica era debilitata.
E’ significativo che a distanza di quasi vent’anni dalle vicende di Mani Pulite, l’ex Procuratore Generale di Milano Francesco Saverio Borrelli è perfettamente d’accordo col comunista Pietro Ingrao. Per Borrelli “Craxi è un latitante” e trova sconveniente che gli si intitoli una strada o un giardino. Ingrao di Craxi “non salva nulla, ma proprio nulla” e non condivide i giudizi espressi da Napolitano nella lettera alla vedova. Per entrambi si v. “La Stampa” del 19 gennaio 2010.
“Senza mettere in questione l’esito dei procedimenti che lo riguardarono – scrive Napolitano – è un fatto che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona”. Parole molto chiare, che sembrano escludere i giudici da quel “peso caduto con durezza senza eguali”, ma subito dopo aggiunge. “Né si può peraltro dimenticare che la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo – nell’esaminare il ricorso contro una delle sentenze definitive di condanna dell’on. Craxi – ritenne, con decisione del 2002, che, pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il “diritto ad un processo equo” per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea”. Insomma, Napolitano riconosce che fu un’ingiustizia che tutto quel peso fosse caduto su Craxi e nella ricorrenza del decennale della di lui morte ha voluto, più che alla vedova, ricordarlo agli italiani, dicendo: fu colpa dei politici, ma un po’ anche dei giudici.
Ma se i giudici operarono “nel rispetto delle norme italiane allora vigenti”, chi deve rispondere di quel “peso caduto con durezza senza eguali” su Craxi? Verrebbe di dire: nessuno. E invece non fu così; e Napolitano lo sa bene.
D’accordo, la colpa fu della situazione, di quel clima di giustizialismo che si era creato nel Paese. Ma parlare di clima per non parlare di persone è come voler dare la colpa al sole, al vento o alla pioggia. A distanza di dieci anni, si può dire che Craxi non era il solo responsabile? Napolitano ha detto di sì. Allora si può anche dire che i giudici non vollero guardare verso altre parti; e i comunisti, responsabili quanto Craxi del finanziamento illecito, potevano finalmente ottenere due risultati: apparire puliti pur sapendo di non esserlo e liberarsi di un nemico mortale. E peggio per lui se fu così sfortunato!
“Nel corso di quegli anni molto aspri per la vicenda politico-sociale del nostro Paese, Craxi si è schierato con la parte più conservatrice della Dc […] E contemporaneamente ci ha fatto la guerra, a noi comunisti”. Ingrao tradisce, così, una responsabilità che nessuno ha mai negato. Napolitano era allora un comunista, stava fra gli accusati da Craxi. Essi non ritennero di dover rispondere, lasciando cadere il peso della responsabilità su di lui “con durezza senza eguali”.
Quello di Napolitano è stato allora un “atto di pentimento” che in qualche modo coinvolge tutto il suo ambiente umano e politico. Un Presidente della Repubblica non è un Papa. Giovanni Paolo II infilò in una crepa del Muro del Pianto a Gerusalemme le parole di pentimento della Chiesa per le ingiustizie commesse contro gli ebrei nel corso dei secoli. Napolitano, con la dignità del ruolo che ricopre, ha voluto fare qualcosa di simile, mettendo nelle crepe della sinistra politica e giustizialista un atto di pentimento, che per alcuni è tardivo, per altri prematuro e per altri ancora inopportuno. In ogni caso, è un contributo di verità e di giustizia.
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domenica 17 gennaio 2010

La destra missina: dalle aquile agli aquiloni

Chi difende i cittadini dalle prepotenze delle lobbies politiche, che, senza modificazione alcuna della Costituzione, si sono sostituite ai partiti e impadronite delle decisioni che spettano ai cittadini; che decidono chi deve essere il candidato presidente della regione e chi della provincia, chi deve andare al Senato, chi alla Camera e chi in Europa?
Il “tiranno senza volto”, che, secondo Giuseppe Maranini, era il potere partitocratico, è figliato e ha partorito tiranni e tirannelli, incredibile a dirsi, ognuno con volto e didascalia.
La situazione è migliore? Almeno prima c’erano dei passaggi obbligati, che erano le decisioni dei partiti a tutti i loro livelli. Ora ci sono dei caporali, che, come quelli famigerati che assumono lavoratori a bassa mercede nelle campagne pugliesi, trasportano gli elettori da un fondo di coltivazione all’altro, fuori da ogni regola di mercato del lavoro e di ogni garanzia di legge.
Da mesi in tutta Italia non si parla che di ipotesi di candidature, in un vero e proprio festival di stranezze, di prepotenze e di spartizioni. La Puglia non fa eccezione, anche se si sono verificati degli episodi che depongono in favore della vivacità di questa regione, cui siamo orgogliosi di appartenere: a sinistra, la sollevazione dei vendoliani contro le decisioni dall’alto che volevano imporre un candidato diverso; a destra, la reazione dei consiglieri regionali alla decisione di Berlusconi di imporre come candidato un non politico, il magistrato Dambruoso.
Per restare alla destra, luogo politico di nostra pertinenza, osserviamo che la scelta di Berlusconi non era campata in aria, ma rispondeva ai desiderata di quegli esponenti pugliesi, i quali pensavano di vincere la partita in Puglia forti dell’autorevolezza del Cavaliere. Perché sarà pure vero che Berlusconi non si sente un dittatore, ma abbiamo il sospetto che gli italiani che gli stanno attorno vorrebbero proprio che lo fosse. Chi si è opposto, dunque, lo ha fatto contro chi, in Puglia, e non ad Arcore, è contro un candidato pugliese a lorsignori non gradito.
Questo candidato potrebbe essere la Senatrice Adriana Poli Bortone, contro la quale da mesi c’è un’accanita battaglia da parte delle lobbies politico-economiche leccesi e salentine, quelle delle potenti famiglie della borghesia ex agraria ed oggi finanziaria e commerciale. I nomi di coloro che le sono ostili sono noti: Mantovano, Perrone, Congedo, Fitto, Palese; peraltro alcuni di essi, a diversi livelli, sono fra di loro imparentati. Presi uno per uno nessuno di essi reggerebbe il confronto con la consistenza del vissuto politico della Poli e col prestigio di cui gode in tutta la Puglia, l’Italia e l’Europa. Essa non ha eguali nel rappresentare il popolo di destra più autentico, dal più conservatore al più liberale. Senza mai rinnegare il suo passato di missina e anzi fregiandosene, ha seguito le evoluzioni del partito, dal Msi ad An e avrebbe continuato a seguirle fino al PdL se nel frattempo non ci fosse stata l’invasione barbarica dei sostenitori di una “destra che non esiste”.
Ebbene sì, in Italia c’è pure quest’altro curioso ossimoro. Da Montanelli in poi si può essere di una destra che non c’è, un’autentica sciccheria, una sorta di distintivo di nuova aristocrazia politica.
In realtà questa “psuedo-destra” ha ragioni meno nobili e snobistici. I suoi sostenitori, infatti, incapaci, perché non abituati al confronto e alla lotta, amano proporsi senza storia, perché solo così pensano di essere inattaccabili. I figli di nessuno non possono davvero rispondere di genitori ignoti. Sostengono il “futuro” perché il “futuro” è suggestivo e soprattutto non c’è. Il passato – si sa – pesa; e non tutti hanno spalle per reggerlo. Chi in politica ha un padre ed una madre – e magari anche i nonni – non solo è disposto a difenderli con le unghie e coi denti, ma ha anche il piacere di esibirli con orgoglio. Chi sta oggi a destra, a parte i berlusconiani, residui dei tradizionali partiti di governo della prima repubblica, si libera continuamente di qualsiasi peso nell’improbabile tentativo di prendere il volo. Certa destra – quella missina, per esempio – ha lasciato l’ideologia delle aquile per quella degli aquiloni. Si capisce, allora, perché cerca di prendere le distanze definitivamente da tutte quelle persone e cose che ricordano e ammoniscono che la destra vera è quella storica, reale, esistente, con irrinunciabili legami col passato, fortemente radicata nel presente e realisticamente in movimento. Al di fuori di una simile destra più che volare si può soltanto svolazzare.
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domenica 10 gennaio 2010

Da Aigues-Mortes in Provenza a Rosarno in Calabria 117 anni dopo

Giovedì, 7 gennaio, “la Repubblica” ricordava, con un articolo-intervista di Fabio Gambaro allo storico francese Gérard Noiriel, autore del recentissimo “Le massacre des Italiens” (Fayard, pagg. 291), uno degli episodi più gravi di xenofobia ai danni di nostri connazionali.
Il 17 agosto del 1893 nelle saline di Aigues-Mortes nella Provenza ci fu una sollevazione della popolazione francese contro gli immigrati italiani, una vera caccia all’uomo che si concluse con 9 morti, circa 50 feriti e una quindicina di dispersi, mai ritrovati. “I giornalieri francesi, per lo più emarginati e vagabondi – dice lo storico francese – non riuscivano a stare al passo con il ritmo di lavoro degli stagionali italiani, che venivano quasi tutti dal Piemonte ed erano lavoratori infaticabili. Il sentimento d’umiliazione dei francesi alimentò una prima rissa che poi degenerò, innescando la caccia all’uomo contro gli italiani, che furono inseguiti e attaccati da una folla inferocita. […] Furono pochissimi coloro che cercarono di aiutare gli immigrati a mettersi in salvo”.
Una coincidenza davvero incredibile, quasi un’evocazione. O un remake della storia perché proprio in quel giovedì, 7 gennaio, a distanza di circa 117 anni, a Rosarno in Calabria, sarebbe accaduto qualcosa di simile, questa volta con gli italiani a dare la caccia agli immigrati africani.
In questo comune della provincia di Reggio, su una popolazione di circa quindicimila abitanti, vivono da diversi anni migliaia di immigrati in condizioni di totale abbandono e indigenza: lavoro stagionale precario e sottopagato in agricoltura, pizzo della ndrangheta sulla misera paga che percepiscono, alloggi fatiscenti in fabbriche dismesse e abbandonate, case fatte di legno e di cartone, senza servizi igienici, ostilità diffusa della popolazione locale, continui incidenti e scontri con essa, reciproca intolleranza. Una miscela esplosiva ad altissimo potenziale. E infatti gli incidenti sono esplosi, gravissimi, giovedì 7 e venerdì 8 gennaio, due giorni e due notti di guerriglia. Lo Stato è intervenuto cercando di calmare gli animi, arrestando i più esagitati e trasferendo circa un migliaio di immigrati in alcuni centri di accoglienza tra Calabria e Puglia.
Non ci sono state vittime, per fortuna, ma c’è mancato poco. C’è stato chi ha sparato, chi ha colpito con spranghe di ferro, chi ha appiccato il fuoco, chi è uscito con una pala meccanica e si è diretto contro gli immigrati quasi li volesse prendere come detriti da buttare in qualche cava. Da parte loro gli immigrati, il giorno prima, in seguito al ferimento di uno di loro da parte di un ragazzo che gli aveva sparato con un fucile a piombini, si erano scatenati contro tutto ciò che trovavano sulla loro strada, bruciando e devastando, seminando il panico perfino nelle case e costringendo gli abitanti ad asserragliarsi dentro. Scene incredibili, hanno riferito gli inviati dei grandi giornali.
A parte le forze dell’ordine e qualche operatore di associazioni di volontariato, tutto il resto della popolazione, come a Aigues-Mortes nel 1893, donne in testa, si è scagliato contro gli immigrati, prendendosela con le forze dell’ordine che li difendevano e chiedendo al governo di allontanarli definitivamente da Rosarno, gridando minacciosi: “Vulimm c’a spariscono!”.
Quanto è accaduto è di estrema gravità e getta il nostro Paese in uno stato di precarietà civile. Superfluo dire che dovremmo vergognarci. Vergogna non solo per quanto è accaduto ma anche per ciò che è a monte. Se la Comunità Europea non si preoccupasse soltanto degli aspetti ragionieristici dei vari stati membri dovrebbe intervenire, dato che in Italia né lo Stato né la Chiesa sono in grado di capire veramente il problema e di comportarsi di conseguenza, ossia da paese civile. Ma l’Europa obbedisce alle grandi centrali della finanza e del commercio mondiali, che perseguono i loro interessi e scaricano sulle popolazioni le conseguenze della mondializzazione.
Non è possibile che uno Stato moderno – ricordiamo che l’Italia è tra i primi sei paesi più industrializzati del mondo; e non consideriamo la sua storia e la sua civiltà! – ignori l’esistenza sul territorio di migliaia di cittadini stranieri, arrivati in Italia in maniera avventurosa, e li lasci in balia di organizzazioni malavitose e di popolazioni stanche di dover vivere nel disagio urbano, nel disordine sociale, nella precarietà e nella paura. Per capire: pensiamo ad un paese di modeste dimensioni territoriali e demografiche invaso da migliaia di forestieri, tutti maschi, continuamente in giro per bar, strade e piazze in cerca di spazi di vivibilità.
Non è possibile che la Chiesa non si ponga il problema che fenomeni sociali come l’immigrazione di massa non possono essere risolti invocando la solidarietà e la carità, quasi fossimo una società regredita e preindustriale, povera e contadina. Ci sono conquiste sociali a cui la gente non sa, non vuole e non può rinunciare. E questo non è peccato né mortale né veniale se il suo benessere è frutto di fatiche e sacrifici. Non è giusto che una grande parte dell’Italia, il Mezzogiorno, e zone qua e là in altre regioni del centro-nord vengano lasciate sole alle prese con problemi così complessi. Non ci si può meravigliare se le popolazioni interessate, poi, finiscano per rieditare inconsapevolmente fenomeni di selvaggia xenofobia come quello accaduto in Provenza più di un secolo fa, ma tanto più grave proprio perché accaduto in una temperie diversa.
Non so a che distanza di civiltà sia l’Italia dalla Svizzera – incrocio di cristianesimi, di lingue e di culture – ma ricordo che più di cinquant’anni fa in Svizzera uno straniero non entrava senza un contratto di lavoro, un permesso di soggiorno e una casa in attesa di ospitarlo per tutto il tempo della sua permanenza. E se un immigrato regolare – mettiamo il caso – non sapendo dove andare per un suo bisogno corporale lo faceva ingenuamente ad un angolo di strada, sorpreso, veniva denunciato e rimpatriato.
E’ lecito chiedersi perché in Italia si debba andare avanti in una visione spontaneistica e cialtronesca della vita, ipocritamente cristiana, falsamente accogliente, all’insegna del “faccia Dio” e dell’arrangiarsi fino a quando le situazioni non esplodono? Che fanno migliaia e migliaia di immigrati irregolari a Rosarno, a Castel Volturno e in tanti altri luoghi del Mezzogiorno d’Italia, già gravati da atavici problemi di esistenza, di coesistenza e di sussistenza?
E’ evidente che uno Stato, che manda a sedare rivolte, è uno Stato che non ha saputo evitarle; è uno Stato capace sì e no di controllare un territorio regionale ed omogeneo, non già un territorio nazionale, variegato e complesso come quello italiano.
Ora, di fronte a quanto successe il 19 settembre 2008 a Castel Volturno e a Rosarno in questi giorni, non è giusto che i cittadini di Taurisano o di Abbiategrasso debbano vergognarsi; ma non è neppure giusto che i cittadini di Castel Volturno o di Rosarno debbano pagare incapacità e debolezze di uno Stato che per altri versi ostenta al mondo un volto perbenista e garantista, vero quanto il pirandelliano volto di donna Poponica.
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domenica 3 gennaio 2010

La destra recuperi la vocazione sociale

La destra italiana non si sa più cosa sia. Le varie sue anime sono confluite nel PdL come risucchiate da una vora. C’è come una sorta di spontaneo contrappasso nei loro interpreti e rappresentanti, i quali si sforzano di apparire diversi da quel che erano. Fanno un po’ come quei poveri che, arricchitisi, si vergognano del loro passato e cercano perfino improbabili ascendenze nobiliari. Fini non è il solo ad aver smarrito la “diritta via”. Probabilmente è l’istituzione che li rende “savi” – o piuttosto il potere – sicché se prima Fini non avrebbe mai accettato che un gay facesse l’insegnante, oggi, potendo scegliere, affiderebbe i propri figli ad una scuola di gay piuttosto che ad una scuola di insegnanti normali. Si può dire normali? Alemanno invoca pesanti condanne per chi scrive sui muri della “città eterna” slogan contro i “fratelli caldi”. Niente a che fare la massoneria! Convertiti in toto ai diritti civili, gli ex missini si sono calati tanto nella loro “vita nova” (mi perdoni il divin poeta) che davvero si emozionano davanti alle nuove “beatrici”, che sono l’eutanasia, l’eugenetica, il multiculturalismo, e vorrebbero “i miei dentro i tuoi e i tuoi dentro i miei”, per dirla con un’espressione dialettale salentina all’uopo adattata.
Ma la destra di cui essi si vergognano e in parte fanno bene – salvo che dovrebbero fare un’analisi critica del loro passato e non un’operazione di frettoloso nascondimento – non era solo rozza e istintiva avversione nei confronti di qualsiasi forma di diverso, di qualsiasi deroga all’autorità e alla tradizione, era anche sensibilità sociale, difesa dei lavoratori, preoccupazione per l’ordine pubblico e rispetto delle leggi.
Oggi infuria il maltempo sociale. Il ricco e il benestante, chiusi nelle loro case-fortezza, non sentono che il rumore della tempesta esterna; il povero e il disoccupato, invece, nelle loro stamberghe sentono sulla pelle ogni scàzzica di vento. Il prof. Luca Ricolfi, che insegna metodologia delle scienze sociali all’Università di Torino, su “La Stampa” del 27 dicembre scorso, ha detto che la crisi ha colpito più chi stava bene che chi stava male. Che è un po’ come sostenere che chi non aveva nulla continua a non avere nulla e chi aveva qualcosa, rispetto a prima oggi ha di meno. Probabilmente è così. Ma chi stava bene aveva un lavoro e riusciva ad arrivare se non proprio alla fine del mese nelle sue vicinanze. La crisi, che imperversa da più di un anno in Italia e nel mondo, ha colpito sicuramente di più quei ceti che vivevano del loro lavoro, dipendente o autonomo che fosse, e dal quale traevano una paga mensile con la quale potevano soddisfare le esigenze famigliari. Oggi sono più di 2 milioni i disoccupati, l’8 % secondo l’Istat. Per alcuni di essi e per alcuni mesi ci sono gli ammortizzatori sociali, l’indennità ordinaria e le pensioni dei parenti più prossimi. Ma il loro futuro è davvero preoccupante. Centinaia di migliaia di famiglie stanno già o stanno per cadere nel baratro della fame e della disperazione.
Una volta di esse si preoccupavano i partiti di sinistra, i sindacati e le correnti sociali di alcuni partiti, come la Democrazia cristiana e il Movimento sociale. Oggi chi si preoccupa di loro? La destra è al governo e la destra oggi è il PdL di Silvio Berlusconi, che – intendiamoci – cerca anche di risolvere i problemi di tante famiglie ma con dei palliativi sociali che lasciano il tempo che trovano. I partiti di sinistra, a parte i cosiddetti cespugli, si sono alquanto svaporati dal punto di vista sociale.
Il governo ha avviato, pur nella crisi, un percorso che privilegia il taglio della spesa pubblica e quindi la non assunzione di lavoratori neppure quando, per raggiunti limiti di età molti di essi vanno in pensione. Un esempio è la scuola. Il discorso che fa il governo – inutile prendersela con la Gelmini o con Tremonti in quanto singoli ministri – è di iniziare un percorso di rinnovamento scolastico, all’insegna dell’eccellenza e del risparmio. A parte che la formula ricalca un po’ quella della botte piena e della moglie ubriaca, potrebbe andare benissimo, ma se per questo migliaia e migliaia di precari che hanno un’età dai trentacinque ai cinquant’anni sono senza lavoro, non va più benissimo e nemmeno bene. Lo stesso vale per ogni altro settore della pubblica amministrazione. Ci sono categorie di lavoratori in via di estinzione, come i portalettere.
Un ex missino dovrebbe saperlo: non lavorare significa non solo non essere in grado di spendere e di dare un contributo alla produzione e al commercio, che hanno bisogno di consumo, ma crea le condizioni per turbative e disordini sociali. Se i disoccupati non vi toccano il cuore, cari ex camerati, vi tocchino almeno la mente. Finché uno solo su cento non sta bene, nessuno degli altri novantanove può stare tranquillo.
Perché i cosiddetti colonnelli di An non si ricordano di essere stati anche difensori dello Stato sociale e cercano o di fare quadrato intorno a Berlusconi o di mettersi in mostra sposando tesi finiane estranee alla loro cultura d’origine e alla loro storia?
In questi ultimi anni si è privilegiata la governabilità alla politica, scaduta a becera rissa e a trancianti anatemi. Il bipartitismo ha sicuramente garantito, specialmente da sponda di destra, la stabilità del governo, ma ha mortificato le politiche sociali, ha impoverito il dibattito e lasciato i ceti più deboli senza una valida rappresentanza politica.
L’anno appena iniziato dovrebbe essere fondamentale sia per il governo che per l’uscita dalla crisi. E’ necessario che il governo apporti qualche aggiustamento di rotta, aprendo ad una politica sociale più fattiva e percepibile, per evitare che la crisi traligni in qualcosa di peggio. La destra sociale degli ex missini s’impunti e faccia come la Lega.
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