domenica 26 dicembre 2010

Riformisti gli italiani? Fesso chi ci crede

In una recente intervista il Cardinal Camillo Ruini, già capo dei vescovi italiani, ha detto che al Paese serve stabilità governativa e un governo capace di fare le riforme (Corsera, 24 dicembre). Buon ultimo!
Riforme, in Italia sembra che non si sappia dire altro. Essere riformista è come avere un salvacondotto per attraversare le linee nemiche. Guai a non esserlo! Fai la figura del minorato politico.
In realtà non c’è niente di più difficile in Italia del fare le riforme. Aggiungo: non c’è falso più falso in Italia di chi dice di volere le riforme. Che ce ne sia urgente necessità non si discute, ma che davvero gli italiani le vogliano, ho seri dubbi. Generalizzazioni a parte! Vediamo, infatti, che appena un governo ci mette mano si scatena l’inferno. Lo si è visto di recente con la riforma dell’università, famigeratamente detta riforma Gelmini, ritenuta da eminenti commentatori politici e docenti universitari se non l’optimum quanto meno una buona riforma (Angelo Panebianco, Ernesto Galli Della Loggia, Francesco Giacovazzi, Giovanni Sartori, Luca Ricolfi). Mai, in Italia, tanti nomina e tanti numina in favore di una legge. Eppure, mentre nelle aule parlamentari le sinistre si scatenavano in comportamenti ostruzionistici per evitare che la riforma passasse, nelle piazze si scatenavano i giovani, studenti e non studenti, in devastanti violenze, per lo stesso fine. Il governo ha dovuto procedere coute que coute.
Ma come? Non si dice un giorno sì e l’altro pure che occorrono le riforme? Non si è sempre detto che l’Università così com’è spende troppo e produce poco e male? Che i baroni fanno quello che vogliono, spendono e spandono danaro pubblico e promuovono docenti nell’ambito della famiglia e dell’amicato? E allora, perché ora che si vuol tentare di cambiare le cose, di fare un’Università che spenda meno e produca di più e bene; un’università non in mano ai baroni, si è contrari fino a scatenare l’iradidio? Non piace che ad occuparsi della gestione dei fondi sia un Consiglio di Amministrazione piuttosto che il Senato Accademico, a cui riservare le competenze culturali e scientifiche? Non piace la mobilità dei Rettori, per evitare incrostazioni di potere? Non piace la meritocrazia di studenti, docenti, ricercatori e dottorandi? Ma come, e di che cosa si è parlato in tutti questi anni?
La risposta sta nell’immarcescibile italianità, che è da sempre refrattaria a qualsiasi cambiamento. Basti pensare che due dei cantori dell’italianità degli ultimi tempi, ferocemente avversi al centrodestra e a Berlusconi, parlo dello scrittore Andrea Camilleri e del regista, da poco defunto, Mario Monicelli, non hanno fatto altro nei lori libri e nei loro film che esaltare la cialtroneria degli italiani. Camilleri fa abitare il suo Commissario Montalbano in una casa abusiva, praticamente sulla spiaggia; Monicelli si estasiava coi suoi sgangherati personaggi, così inconfondibilmente italiani, dei soliti ignoti, dell’armata brancaleone, di amici miei. Gli italiani sono esattamente quelli proposti da tanti film-commedia di sceneggiatori e registi.
E, allora, di che riforme si vuole parlare? Di che correttezza e legalità si vuole parlare? Di che morale privata ed etica civile? Non prendiamoci per fessi. In questo paese non è Dante l’interprete massimo, che aveva un senso tragico della vita, ma Machiavelli, il più grande scrittore di politica e insieme il più grande scrittore di commedie del suo tempo. Non sarebbe uno sproposito leggere prima la Mandragola per capire meglio il Principe.
Perché gli italiani mentono quando dicono di volere le riforme? Ma perché intanto è vizio italico criticare e protestare sempre; e siccome non si può che criticare l’esistente, ecco che tutti vorrebbero qualcosa di diverso, ergo le riforme. Intanto, si rendano o meno conto dei vantaggi dell’esistente, ci sguazzano benissimo dentro; e si trovano talmente bene che quando si ventila la minaccia di un cambiamento insorgono.
In verità ognuno in Italia ha bisogno della via preferenziale, della scorciatoia, dell’arrangiamento. Gli italiani non vogliono le riforme primo, perché non avrebbero più di che lagnarsi o di che cazzeggiare (che fine farebbero i Crozza, i Guzzanti, i Dandini, i Benigni, i Grillo e i Travaglio?); secondo, perché non ci sarebbero più per loro i mille modi per risolvere i loro piccoli e grandi problemi; terzo, perché non avrebbero più la speranza di poter ottenere ciò che per legge e correttezza non potrebbero mai avere. Il vero miracolo degli italiani è proprio la possibilità di ottenere l’inottenibile. Guai a togliere loro una simile speranza.
Una volta un signore a scuola mi raccomandò il figlio, che aveva grosse difficoltà a seguire e a studiare per vecchie lacune e ritardi ed aveva bisogno di sostegno extrascolastico per recuperare. Quando glielo dissi, quel signore mi chiese di favorirlo, ché se io avessi voluto avrei potuto farlo, nonostante le difficoltà. Cercai di fargli capire che non era possibile e gli chiesi: se uno da sé non è in grado di andare avanti, che bisogna fare? Glielo chiesi perché lui capisse e mi rispondesse che andava aiutato nel merito. E invece quello con la più grande naturalezza di questo mondo mi replicò: lo si raccomanda, no? Mi sarebbero cadute le ali se le avessi avute.
I politici, specialmente quelli che hanno fatto del riformismo la propria bandiera, sanno perfettamente che le cose stanno così. Ed ecco perché di riforme vere non ne fanno mai, sarebbe per loro l’insuccesso e la fine. Ma, nello stesso tempo, hanno paura che altri le facciano e che alla lunga la gente ne colga gli aspetti positivi. Le riforme finiscono così nelle more del dibattito e della contrapposizione politica. Vedere tanti leader della sinistra scalare i palazzi per raggiungere i tetti e mettersi a protestare coi giovani per un verso ha fatto ridere, per un altro, ha fatto sperare che qualcuno si buttasse di sotto. Dopo tutto, non sarebbe stata una grave perdita.
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domenica 19 dicembre 2010

Se lo Stato si lascia umiliare la democrazia è morta

Le immagini di guerriglia urbana del 14 dicembre scorso a Roma hanno dell’incredibile. Carabinieri, agenti di polizia, finanzieri presi a sassate, a sprangate, a bottiglie incendiarie, selvaggiamente colpiti. Mezzi militari dati alle fiamme, con colonne di fumo che s’innalzavano fino al cielo. Auto, negozi, vetrine colpiti, incendiati; tutto in un’orgia di distruzione. Da una parte i manifestanti, che cercavano di uccidere; dall’altra, gli uomini dello Stato, che cercavano di non farsi e di non fare del male. Uno spettacolo ignobile, sconvolgente. Tutto quello che avevano ordine di fare le Forze cosiddette dell’Ordine era di subire per evitare il peggio, non per se stessi, né probabilmente per i manifestanti, ma per l’establishment politico, che si sarebbe trovato a dover gestire qualcosa di diverso di un voto di sfiducia o di fiducia in Parlamento. E difatti il cordone di uomini e di mezzi delle Forze dell’Ordine era intorno a Palazzo di Montecitorio per impedire che i manifestanti, fra cui i soliti professionisti del crimine sociale, gratuito e garantito, infiltrati o semplicemente aggregati, irrompessero nell’Aula sacra della democrazia, dove c’erano altri scalmanati, i signori politicanti, nell’inutile liturgia della conta.
A Roma, come ad Atene, come a Parigi e a Londra. D’accordo. Si vive in tutta Europa un momento terribilmente serio. Ognuno rivendica diritti, chiede sicurezza di lavoro e di reddito, di prospettiva sociale, di studio e di formazione. I giovani hanno più ragione di tutti. Ha detto il filosofo polacco Zygmunt Bauman che “C’è senza dubbio nei giovani studenti una grande rabbia, che è una mistura esplosiva di paure verso il futuro – certamente giustificate – e di una disperata ricerca – altrettanto giustificata – per scaricare l’ansia che hanno dentro” (Il Messaggero, 18 dicembre). Diventa drammatica la situazione quando si riconoscono le ragioni ma ad impossibilia nemo tenetur. Le risorse finanziarie scarseggiano, mentre la crisi sociale viene da molto lontano. In dittatura il sospetto che altri si stiano fottendo le cose che spetterebbero a te resta un sospetto; in democrazia è certezza e diventa il carburante del pensiero e dell’azione. Male io, male tutti!
In Italia non si sta né peggio né meglio di altri paesi. Le forze politiche di opposizione, fra cui gli incredibili esponenti di un vuoto “futuro” e di un'altrettanto vuota “libertà”, che per sedici anni sono stati come culo e camicia con quello che oggi definiscono il tiranno, non fanno che gufare; sperano nel tanto peggio tanto meglio. Ma non dicono che se in Italia dovesse arrivare la crisi greca o irlandese, come loro vorrebbero, i primi a venir colpiti sarebbero i cittadini che vivacchiano con uno stipendio di fame e con una pensione d’estrema unzione; gli stessi che in qualche modo sostengono i loro figli disoccupati o precari. Se lo Stato ha bisogno di soldi va sul sicuro e prende da chi non può neppure opporsi, e cioè dai lavoratori a reddito fisso.
Proprio per la gravità della situazione tutte le forze politiche avrebbero dovuto da tempo mettere da parte gli egoismi di partito e le maniacali, irrazionali, fanatiche avversioni al governo, per dare una dimostrazione di serietà e di responsabilità al popolo. E’ penoso starli a sentire tutti parlare di responsabilità e pretendere che altri facciano quel che loro per primi non fanno. Non c’è forza politica, di maggioranza e di opposizione, che non sia lacerata, spaccata, in guerra con se stessa, prima ancora di esserlo contro le altre. E pur, nel disaccordo generale, c'è chi  nelle opposizioni invoca la formazione di un Cln (Comitato di liberazione nazionale) contro il governo Berlusconi.
Pazzi e criminali! Evocano bande partigiane e formazioni salodiane, in un momento in cui abbiamo bisogno di stringerci insieme per affrontare la crisi, senza farci più male di quello che già abbiamo.
A Roma lo Stato è stato insultato, mortificato, irriso, umiliato e danneggiato e non solo per colpa dei cosiddetti dimostranti. Certo, la loro è la rappresentazione più fisica e immediata. Ma ancor più colpevoli sono quelli che erano dentro il Palazzo a trastullarsi nei giochi di chiama e conta.
I magistrati hanno fatto bene, a prescindere dalle loro intenzioni ideologiche, purtroppo ormai acquisite, a scarcerare quella ventina di ragazzi presi durante i disordini. Probabilmente non erano questi neppure i peggiori responsabili di quanto era accaduto. Dovevano prenderne alcuni e magari hanno preso i meno furbi e scaltri. Sarebbe stato cinico e ingiusto trattenerli in carcere e magari processarli e condannarli, mentre chi veramente si era scatenato nella furia devastatrice era riuscito a farla franca, solo per dire che lo Stato c’è e che funziona. No, quei ragazzi andavano liberati e restituiti alle loro famiglie, come è stato fatto. Lo Stato ha dimostrato che non c’è, proprio perché non funziona.
Uno Stato che non riesce a prevenire, che non sa reprimere difendendosi sul campo, che non sa fare giustizia di quanto è accaduto è uno Stato ostaggio di gente incapace, che si gingilla con le parole, che passa il suo tempo a tramare per personali ambizioni; più che uno Stato giuridicamente inteso, è una condizione di degrado e di disfacimento.
Se questo governo, chiaramente inadeguato – non c’è davvero bisogno d’altro per capirlo – ma non sostituibile nell’immediato, per evitare che la situazione peggiori, meritasse di essere dimissionato lo è proprio per quanto è accaduto a Roma il 14 dicembre.
Non c’è cittadino che di fronte a dei selvaggi che col volto coperto e con la spranga in mano colpivano dei poveri poliziotti o finanzieri già a terra con tutte le insegne dello Stato sotto i piedi, non c’è cittadino, dicevo, che non abbia invocato ben altre giustizie, ben altre metodiche politiche, ben altre atmosfere. E forse se quei giovani esagitati fossero riusciti ad entrare nelle sacre stanze del potere infingardo per dargli una lezione non sarebbe stato più grave dell’averglielo impedito. Anche l’indignazione vuole la sua parte.

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domenica 12 dicembre 2010

Se la tolleranza è una maschera

Tante persone, così a modo esteriormente, nell’intimo sono in realtà intolleranti e maleducate. Mi accorsi la prima volta di questa contraddizione che è negli umani quando, assistendo allo stadio ad una partita di calcio, un amico che era il non plus ultra della compostezza, ad un’entrata spezzagambe di un giocatore della sua squadra su un avversario, si mise a ripetere sadicamente, ma senza scomporsi, “vai, ammazzalo! ammazzalo!”. Lo guardai incredulo e sbigottito. Era così elegantino, azzimato, perbene che le parole che diceva sembravano provenire da chissà dove. Va be’, era tifoso; ma era sembrato sempre così mite!
La chiave per scardinare la cassaforte delle ipocrisie di tante persone perbene, è da un po’ di anni a questa parte Silvio Berlusconi. Ma non solo lui. Se la cavano molto bene anche Bush e gli israeliani; e perfino Papa Ratzinger non c’è male! Sono chiavistelli molto efficaci.
Dico io, se uno come José Saramago, grande scrittore e premio nobel – che Dio l’abbia in gloria! – dice che è un “fatto provato che il primo ministro [Berlusconi] sia un delinquente”, che lo stesso è “uomo di cuore come può esserlo un capo mafia”, che Bush è “un maligno prodotto della natura”, che i soldati israeliani sono “specialisti di crudeltà…dottori in disprezzo che guardano il mondo dall’alto dell’insolenza che è la base della loro educazione”, che “applicano fedelmente, eseguendo gli ordini dei loro successivi governi e comandi, le dottrine genocide di coloro che torturarono, gassarono e bruciarono i loro antenati”, che Dio non esiste e “se pure esiste, quanto meno non ha mai parlato con Ratzinger”, che Papa Ratzinger è “uno che si sforza di mascherare e occultare ciò che effettivamente pensa”, che vescovi e cardinali vivono “come parassiti della società civile” e “si ritengono investiti di un potere che solo la nostra pazienza ha fatto durare” e che contro di loro “qualcuno dovrà tirare una scarpa” (Il Quaderno, 2009), perché meravigliarsi se il vicino di casa, il collega di lavoro, l’amico del circolo si esprimono con tanta maleducazione, intolleranza e violenza verbale?
Umberto Eco, quando Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, disse che volentieri se ne sarebbe andato dall’Italia. Eugenio Scalfari non fa sconti a Berlusconi e berlusconiani; e Scalfari è il più convinto nostalgico della modernità. A sentire il fotografo Oliviero Toscani ti viene di correre ad indossare una tuta per ripararti dal linguaggio tossico che t’investe senza scampo come gas nervino. E così l’architetto Massimiliano Fuksas. E si potrebbe continuare con la bella società dei cosiddetti democratici e tolleranti. E lasciamo stare i Travaglio, i Grillo, i Di Pietro ed ora anche i Bocchino, i Briguglio, i Granata. Sparano tutti ad alzo zero bordate micidiali contro gli avversari politici. Non hanno riguardi per nessuno.
A sentirli, tutti questi lupi a confessione, ti convinci che contro l’intolleranza non c’è niente da fare, è una condizione irriducibile e immodificabile. Hai voglia di leggere Voltaire o di farti una cura di letture specialistiche. Puoi arrivare alla conclusione che l’intollerante non vive bene, ma non può vivere diversamente. Non è una questione di cultura, un cercare di leggersi dentro e di eliminare la mala radice, che sai di avere e sai com’è fatta; non è neppure cosa che si può trapiantare: mi tolgo un organo malato e me ne metto uno sano. No, è qualcosa che te la devi tenere, che al limite puoi soltanto mascherare o nascondere.
Per non agitarmi più di quanto non mi capiti durante il giorno ho smesso di seguire Ballarò o Annozero, L’infedele o Vieni via con me, programmi di un’intolleranza e di una ferocia verbali inaudite nei confronti degli avversari politici. Ma non sempre mi riesce. A volte cado in qualche imboscata. Giorgio Bocca, l’altra sera, ospite di Invasioni barbariche, disse che Bruno Vespa è un servo del potere. Ma come, io ho tanta ammirazione per quel cristiano, ed ora sento che è un servo del potere? E se lui è un servo, io che lo ammiro, che sono?
Senza aver fatto nulla di male – o per lo meno così credi – mentre te ne stai in casa tua, in grazia di Dio, ti senti dire che sei un rimbambito, che non capisci niente, che sei responsabile dello sfascio e dell’immoralità che regnano in Italia solo perché voti Berlusconi. Voti, dico, non che lo condividi sempre e comunque!
Una vecchia signora ultraottantenne mi raccontava che con lei stanno freschi perché appena incominciano la musica lei si alza dalla poltrona, si avvicina al video e via raffiche di parolacce: “cornuti, svergognati; voi a Berlusconi non siete degni neppure di pulirgli i piedi!”. Ah, caro Professore, gliele cantai, l’altra sera! Beata lei, che ha un rapporto così immediato con la televisione e che, virtuali o non virtuali, se ne va a letto soddisfatta di avergliele cantate!
Non credo che piaccia a nessuno sentirsi insultare senza avere la possibilità di replicare. Replicare? Per dire che cosa? A certe aggressioni si dovrebbe rispondere con altre uguali e contrarie e semmai ancora più decisive, come la vecchia signora. Perciò, Still! Non voglio sentire più niente.
Ma l’intolleranza si annida anche nelle circostanze meno sospettabili. Ti può capitare al bar o al supermercato, sul luogo di lavoro o in attesa di farti fare una ricetta dal medico.
Non c’è possibilità alcuna di convenire su nulla. O sei contro Berlusconi o sei peggio di lui. Non ti è consentito di dire mezza parola senza essere aggrediti dalle più viete e grevi contumelie, in partenza rivolte a Berlusconi e in arrivo a tutti quelli che lo votano o che stanno dalla sua parte. Ergo, pure tu, senza un minimo di riguardo o di educazione.
Per questa gente Berlusconi è il responsabile di tutto e lo è qualunque cosa faccia o dica, dato che quello che fa e dice, lo fa e lo dice a suo esclusivo interesse e a danno e vergogna del popolo italiano.
E dall’altra parte? Dall’altra parte ci sono gli intolleranti confessi, tra cui mi pregio di stare io. Indegnamente, aggiungo. Ahimè, non ho mai trovato una maschera che mi stesse bene.

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domenica 5 dicembre 2010

Scuola: una riforma che non s'ha da fare!

“Mio caro, ho ricevuto, finalmente, oggi, la tua amatissima cartolina, alla quale m’affretto a rispondere prima che tu parta per Torino. Qui a Napoli, noi, studenti Universitari, siamo in sciopero da circa una settimana…”.
No, la cartolina sulla quale si leggono queste parole non è stata spedita in questi giorni di recrudescenza studentesca. In prosieguo di testo, si legge: “…per la Riforma Gentile, che va mano mano applicandosi. Sono successi parecchi incidenti tra studenti fascisti e non fascisti: ci sono stati 5 o 6 feriti. Non saprei dirti il giorno della riapertura: oggi il Rettore convoca il Senato Accademico per prendere qualche disposizione a riguardo”.
La data è il 20 gennaio1925, diciassette giorni dopo il fatidico discorso alla Camera del 3 gennaio, quando Mussolini si assunse tutte le responsabilità del delitto Matteotti e diede inizio alla dittatura fascista. Non so se mi spiego! Gli studenti universitari manifestavano anche durante il fascismo, benché non ancora regime, e sempre per una riforma. E che riforma!
Nei miei cinquant’anni di scuola, da studente e da insegnante, non ricordo ministro della pubblica istruzione che non sia stato bersaglio degli studenti e della stampa avversa, spesso con epiteti gratuitamente e sommariamente ingiuriosi. Ricordo, tra i primi che mi vengono a mente, Riccardo Misasi trasformato in Misasino, Franca Falcucci in Falciucci, lo stesso Luigi Berlinguer in copertina di un settimanale di destra con le orecchie d’asino, il povero Tullio De Mauro in pubbliche lacrime, fino alla Gelmini nell’immaginetta della “Santa Ignoranza”, forse per quel volto di santarellina. Le riforme, poi, sempre ferocemente avversate. Il ’68 in Italia ebbe la sua causa scatenante nella riforma del Ministro Luigi Gui. Inutile tirarla oltre: lo sanno tutti, in Italia non si può fare mai una riforma, men che meno quella della scuola o dell’università. Gli italiani si sentono tanto commissari unici della nazionale di calcio quanto esperti di cultura e di organizzazione dell’istruzione ad ogni livello e grado. Hanno bisogno di criticare, essere contro. E’ per loro imprescindibile. Allora, guai a toglier loro la materia dell’avversare!
Tutti sono riformisti a chiacchiere, poi sacrificano ogni importante riforma alla ragion politica del momento; un po’ perché non si dicesse che la riforma l’ha fatta la parte politica avversa e un po’ perché sono nella sostanza decisamente conservatori. Intendiamoci, lo fanno sia quelli di destra nei confronti dei governi di sinistra, sia quelli di sinistra nei confronti dei governi di destra.
Con la riforma Gelmini è successo, però, un fatto nuovo o quasi. Buona parte della stampa, anche di quella che non fa sconti al governo in carica, l’ha valutata positivamente, sia pure senza molti entusiasmi. Ciononostante si sono viste cose turche, con leader anche attempati salire, tanto rischiosamente quanto comicamente, sui tetti a manifestare con gli studenti, dando chiara e netta la sensazione che la riforma universitaria era solo un pretesto.
Ora, le manifestazioni studentesche sono le più facili da organizzare. In genere vengono fatte da eserciti di ragazzi che partecipano in maniera acritica perché l’età e le circostanze fanno loro approfittare di giornate festose, graziosamente giustificate. Gli organizzatori sono sempre gli studenti più svogliati, quando non si tratta di agitatori che fanno le prime prove politiche a scuola. Le stesse che dal ’68 in poi sono state istituzionalizzate, attraverso assemblee di classe e di istituto, elezioni scolastiche, partecipazione ai consigli d’istituto, che hanno sottratto tempo prezioso alle attività didattiche, e alla fine, in virtù del loro ruolo gli organizzatori se la cavano con abbuoni vergognosi. Per dirla papale papale: c’è chi consegue il titolo di studio senza mai aprire un libro, per premio alla carriera. E’ accaduto che siano diventati perfino professori universitari.
Ciò detto, va aggiunto che gli studenti a volte hanno validi motivi predisponenti. Il più importante dei quali, oggi, è il difficile inserimento nel mondo del lavoro dopo aver conseguito la laurea. Questa difficoltà, che oggi più che in qualsiasi precedente situazione ha i caratteri della disperazione, crea negli studenti, specialmente in quelli più politicizzati o variamente ostili a Berlusconi, visto come un Paperon de’ Paperoni vizioso e sporcaccione, uno stato d’animo di rabbia, per cui non si riflette tanto sui contenuti della riforma quanto sull’inanità dello studio.
Ad essi si aggiungono i politici interessati e ovviamente i docenti, i quali dalla riforma Gelmini sono minacciati nei loro privilegi.
Non sono cose da poco. Spesso, nel regno dell’intellettualità, vivono contraddizioni spaventose. Volterriani a parole, di una intolleranza incredibile nei comportamenti e nei fatti. E’ inutile che io stia qui a citare le aberrazioni di sedi universitarie proliferanti di docenti che ricordano i nobili della corte di Versaglia, di cattedre inventate, di concorsi fasulli, di docenti senza alunni e produttori di nulla, di ricercatori che non ricercano e via di seguito, tutta gente che prende il suo bravo e congruo stipendio e si fregia dei simboli accademici. Questa gente a parole è per la riforma, perché riforma è bello. Come ogni brava persona è per il rispetto del padre e della madre, così non si bestemmia la riforma. Nei fatti, però, questa gente si arrocca e minaccia sfracelli appena sente il fiato sul collo di un qualche cambiamento.
Gli studenti avrebbero ragione di ribellarsi, di salire sui tetti e magari di sfondarli, ma non a difesa della conservazione, bensì contro. E invece, che fanno? Si lasciano strumentalizzare e inconsapevolmente fanno gli interessi dei loro parassiti. I mass media fanno il resto, esibendo nelle loro vetrine mediatiche gli improvvisati masanielli del libro e del libretto, i futuri Capanna, i quali durano la breve stagione delle cicale. Intanto i loro bravi benefici li avranno, mentre gli altri, gli anonimi, potranno sempre dire: io c’ero! Storie viste e riviste, senza che avessero insegnato mai nulla. La riforma non s’ha da fare, viva la riforma!
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domenica 28 novembre 2010

Il testamento biologico è un atto di pietas civile

Ex abrupto: sono favorevole al testamento biologico. Lo sono per senso di umanità e di solidarietà. Ritengo normale che un essere umano, nel pieno delle sue facoltà mentali e in condizioni di serenità di spirito, lasci per iscritto a testamento, tempestivamente depositato presso le autorità civili, che cosa altri, famigliari o amici, debbano fare di lui e per lui, nell’ipotesi che, giunto o trovantesi in condizioni irreversibili di sofferenza o di morte cerebrale, lui non sia più in grado di decidere per sé.
Anzitutto, i conti con la religione. La Chiesa ha ragione di fare la chiesa; avrebbe torto se facesse un’altra cosa. Fa benissimo, dunque, ad essere contro l’aborto, contro ogni forma di procreazione forzata, contro matrimoni tra gay, contro ogni comportamento innaturale, contro ogni forma di interruzione della vita che non sia quella voluta dalla natura, che lei identifica nel Signore Iddio.
Quando la Chiesa aveva anche il potere giudiziario e lo esercitava direttamente o attraverso il potere politico, che la stessa condizionava, puniva i peccatori come criminali. Più o meno come fanno oggi l’islamismo ed ogni altro stato teocratico. Oggi la Chiesa ha solo il potere di dire. Chi vuole ascoltare, ascolti; e se no faccia pure quel che vuole. Se la vedrà con Dio!
Conserva, tuttavia, una notevole capacità di influenzare le scelte del potere politico nelle sue varie articolazioni. Non solo in Italia. Pensiamo agli Stati Uniti d’America, dove un candidato alle presidenziali vince o perde a seconda del suo legame coi valori della Chiesa. Ma in nessun paese del mondo un politico al governo si mette deliberatamente contro la religione. Se lo fa, non dura.
In Italia non siamo sempre all’equiparazione del peccato col reato. Lo Stato non punisce chi non crede in Dio, chi fornica, chi desidera la donna o la roba degli altri. Punisce chi ruba, chi uccide, chi rende falsa testimonianza. Ma ci sono moltissimi casi in cui il discrimine tra peccato e reato non è così netto. In questi casi lo Stato sbaglia a seguire la posizione della Chiesa, perché diversi sono i suoi compiti.
L’essere umano nella sua essenzialità di vita risponde a pulsioni ed esigenze che non possono non prescindere da altro. Nessuna legge, dello Stato o della Chiesa, può stabilire quando devo mangiare, quando devo dormire, quando devo lavarmi, quando devo digerire e via di seguito. Sono esigenze, queste, che dipendono dalla fisiologia e in parte dalla volontà. I cittadini hanno diritti naturali che lo Stato dovrebbe garantire come diritti positivi.
Un diritto naturale potrebbe essere la morte. L’individuo può sentire l’esigenza di morire, quando è nelle spire del dolore o quando è malato e per lui, ridotto al puro stato vegetativo, non c’è possibilità alcuna di superare la fase del male che lo sta conducendo inevitabilmente a morte.
L’uomo respinge istintivamente il dolore, fa di tutto per alleviarlo; lo sopporta quando sa che c’è un dopo. Il dolore è un’offesa alla vita, per quanto faccia parte della stessa. Quando diventa condizione senza possibilità alcuna di venirne fuori, porre fine al dolore è il più naturale di tutti gli istinti. Quando, pur senza avvertire dolore, si è corpi privi di raziocinio e di volontà, è più che giusto porre fine all’inutile sofferenza propria e dei famigliari.
Implorava Jacopone: “O Segnor, per cortesia, manname la malsanìa”, perché voleva soffrire per poter espiare le sue colpe. Implorava una vita di sofferenza, lunga, lunga, lunga, per poter soffrire di più e peggio. Jacopone non sarebbe mai stato per l’eutanasia, ovvero per la dolce morte per evitare di soffrire inutilmente. Non solo perché riteneva che non si soffre inutilmente, ma soprattutto perché vivere e soffrire per lui erano la stessa cosa; perché per lui soffrire doveva essere condizione di vita. Se proprio doveva morire, allora voleva essere divorato da un cane e defecato sugli sterpi.
Oggi non so quanti potrebbero pensarla come Jacopone da Todi. Sicuramente ce ne sono. Soprattutto ci sono quelli che credono che non si vive inutilmente e che neppure si soffre inutilmente. Sono i credenti, non necessariamente mistici. Di fronte ai quali chi non ha cappello per scappellarsi provveda ad averne uno, perché di fronte a persone simili la massima riverenza è ancora poca.
Ma per i più, non necessariamente materialisti e miscredenti, le cose stanno diversamente; e lo Stato dovrebbe provvedere a riconoscere le loro esigenze. E’ necessaria una legge che renda quanto meno facoltativo il diritto di fare un testamento biologico, in cui dettare le proprie volontà, relative alla fine della propria vita. Certo, non è solo una questione di sofferenza o di dolore, non ci sono solo aspetti biologici, morali e religiosi; ci sono importanti risvolti civili. La morte, procurata per testamento biologico, è sempre qualcosa che viene decisa e dunque può essere pilotata per altri interessi, patrimoniali per esempio o di altra natura, a seconda del ruolo e dell’importanza che ha il soggetto in questione. Sicché la legge dovrebbe essere ben concepita ed elaborata, in grado di prevedere ogni e qualsiasi situazione.
Una legge del genere risponderebbe a criteri, come dicevo in apertura, di umanità e di solidarietà. Di umanità, perché è dell’uomo evitar di soffrire. Di solidarietà perché non si può costringere la gente a veder soffrire e a soffrire a sua volta. Quando la vita per un essere umano tale non è, nel senso che per poter vivere ha bisogno di tante persone che lo accudiscano, di macchine sofisticatissime che lo facciano respirare e fargli battere il cuore, mentre lui, cosciente o incosciente, non è in grado di decidere e di farla finita, perché continuare? Quale diritto ho io di condizionare la vita dei miei famigliari e costringerli a tenersi in casa un corpo, che spetta solo di essere umanamente seppellito?
Il testamento biologico è un importante atto di pietas civile; un preventivo gesto di rispetto di sé, di amore per gli altri.
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domenica 21 novembre 2010

Salviamo la "Dante"!

L’allarme ormai dura da anni. Non è più questione di questo o quel governo. In Italia non c’è più per la cultura l’attenzione e la dedizione che hanno contraddistinto nel mondo e nella storia il nostro Paese. Antichissime e importantissime istituzioni rischiano di chiudere per mancanza di fondi. Ma, evidentemente, non solo per mancanza di fondi!
C’è nella classe intellettuale italiana una sorta di pigrizia, di rassegnazione con qualche sussulto antigovernativo. Come se veramente tutto e sempre dipendesse dal governo. Perfino importanti uomini di cultura hanno un approccio sbagliato con le istituzioni, che spesso sono considerate mucche da mungere in termini di prestigio e di denari, per essere lasciate al loro destino quando non possono dare più niente. Neppure i diretti beneficiari si sforzano di fare qualcosa in surroga. Oggi il governo non è più in grado di provvedere al loro mantenimento a causa della nota crisi economico-finanziaria che obbliga a fare dei tagli ai finanziamenti.
E’ tempo, invece, che in Italia chi ha veramente a cuore la cultura si dia una mossa, faccia qualcosa senza aspettare che altri intervengano. E’ tempo di dare, non più di avere. Non solo i privati dovrebbero ravvedersi, ma anche quelli che lavorano già nelle istituzioni pubbliche. Se a Pompei crolla uno degli edifici di maggior interesse culturale e di richiamo turistico, la colpa non può essere solo del governo o della atavica mancanza di soldi, ma anche di tanta negligenza di funzionari, intendenti e sovrintendenti cialtroni, che non svolgono con passione e interesse il loro lavoro.
Per fortuna gli esempi buoni non mancano. In questo senso il professor Gerardo Motta è un vero eroe. Ha dilapidato i suoi averi, qualcosa come quattro milioni di euro, fino ad ipotecare la casa dove abita, pur di salvare l’Istituto per gli Studi Filosofici, da lui fondato a Napoli nel 1975 (300 mila volumi raccolti, tre mila pubblicazioni, migliaia di borse di studio) nell’indifferenza degli enti pubblici. In soccorso della nobile impresa di Marotta si sono mossi duecento intellettuali di tutto il mondo, che hanno lanciato un appello per salvare l’Istituto dalla chiusura.
Un precedente importante, che dovrebbe dare la svolta al rapporto istituzioni-intellettuali. Gli operatori culturali non possono più attendere che altri salvino le loro strutture. La cultura è di coloro che la producono ed è giusto che gli stessi ne difendano il patrimonio, che è anche laboratorio di produzione. E’ questione di sopravvivenza. Dovrebbero fare come gli operai quando, sacrificando i loro più immediati interessi, si mettono in difesa della loro fabbrica.
Il Politecnico di Milano, in difetto di fondi per far fronte alle spese di mantenimento delle borse di studio per dottorati di ricerca, ha lanciato “la campagna permanente di raccolta di fondi a favore della Scuola di Dottorato”, chiedendo a tutti i suoi laureati un contributo di almeno cento euro. Siamo alla questua vera e propria, in concorrenza con francescani e associazioni onlus; ma è una grande prova di coraggio e di realismo.
Qualche anno fa il grido d’allarme venne dall’Accademia della Crusca, fondata a Firenze nel 1583, la massima autorità in materia di lingua e filologia, la depositaria del nostro patrimonio lessicale col suo “Vocabolario”.
Ora anche la Società “Dante Alighieri”, fondata da Giosue Carducci nel 1889 per promuovere la lingua e la cultura italiana nel mondo, rischia di chiudere. Nella Legge di Stabilità, ex Finanziaria, sono stati previsti tagli del 53,5 per cento rispetto all’anno scorso. Coi 600 mila euro accordati rischia di tenere in piedi solo la struttura centrale. E i 423 comitati che ha, sparsi in tutto il mondo?
Coi soldi ricevuti non può davvero adempiere ai compiti istituzionali. Questa istituzione dipende sia dal Ministero degli Esteri e sia dal Ministero dei Beni Culturali; i suoi operatori sono da sempre dei volontari. Fanno conferenze, tengono seminari, organizzano manifestazioni; sono la faccia bella del nostro Paese. I corsi, però, sono a pagamento e sono tenuti dal personale accreditato presso le ambasciate e i consolati. Ci vogliono i soldi!
La “Dante” svolge da sempre un grandissimo compito in favore della nostra lingua nel mondo. Tanto più importante oggi, mentre per la lingua italiana non c’è molta considerazione nell’Europa burocratica di Bruxelles, se ogni tanto tentano di escluderla dalle lingue ufficiali della comunicazione legislativa e amministrativa della Cee, che sono inglese, francese e tedesco. E’ davvero un peccato che il nostro Paese non abbia i fondi per raddoppiare e dimezza la spesa delle sue attività.
Il mio amico polacco, professor Andrzej Nowicki, grande studioso di Giordano Bruno, di Giulio Cesare Vanini e della filosofia italiana del Rinascimento, apprese l’italiano proprio seguendo i corsi presso l’Ambasciata Italiana a Varsavia negli anni Trenta. Da allora divenne uno dei più grandi amici dell’Italia e della sua cultura.
La “Dante” è stata la prima grande istituzione culturale che noi ragazzini di scuola media abbiamo conosciuto, quando ognuno di noi aveva la sua brava tessera della “Dante” e i suoi bolli, che attaccavamo sui risvolti dei quaderni e dei libri.
Ora, bando alle nostalgie, che non hanno mai risolto i problemi. A questo punto, per salvarla, si dovrebbe istituire una piccola tassa per ogni alunno iscritto ad ogni ordine di scuola. La popolazione scolastica in Italia è di circa sette milioni. Basterebbe un euro per ogni alunno e si potrebbe mettere insieme un bel po’ di soldi. Credo che si potrebbe fare già da quest’anno, attraverso gli stessi operatori della “Dante” dislocati nei comitati di tutta Italia. Per gli anni successivi si potrebbe legare questo piccolo-grande contributo alla stessa tassa di iscrizione.
Sarebbe davvero un momento celebrativo straordinario dei 150 anni dell’Unità d’Italia con qualcosa di diverso e di più concreto.
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domenica 14 novembre 2010

Morire per un cane è peggio che morire come un cane

Una volta si moriva come un cane. Tempi barbari, direbbero gli animalisti. Per i cani e più in generale per tutti gli animali non c’era alcun rispetto. Il primo moto istintivo era di ammazzarli quando non erano utili all’uomo. In tempi più recenti molti animali sono stati utilizzati per ricerche ed esperimenti; i cani, vivisezionati, addirittura per cosmetici e profumi. Che, a considerare, è il massimo dell’egoismo umano: dalla vita animale trarre prodotti per deliziarsi. Non voleva dire proprio questo il Signore Iddio quando diede all’uomo il dominio su ogni essere vivente.
E vada per i serpenti e per i topi, gli uni perché viscidi, gli altri perché schifosi; entrambi irritanti. Ma per le lucertole? Da bambini le catturavamo con delle erbe filamentose, dette perciò mpicasarvìche (impicca lucertole), con cui facevamo dei cappi; poi le appendevamo e ci esercitavamo al tiro al bersaglio con arco e frecce, che ricavavamo da ombrelli rotti. Infilzavamo le cicale con tecniche turche per vederle partire come un razzo per l’ultimo volo e andare a sbattere contro il primo ostacolo e morire. Catturavamo gli uccelli con le tecniche più varie e più crudeli. Il massimo della nostra gioia era prendere a mamma cu tutti i curciùli (la passera con tutti i passerottini). Giochi da ragazzacci discoli, si dirà.
E gli adulti? Ancora oggi catturano e uccidono animali per le loro pelli. Ancora oggi studiano tecniche e veleni per combattere certi insetti, dannosi e fastidiosi, che pure animali sono. L’ultima trovata è la racchetta elettrica per intercettare le “povere” zanzare, un pendant della sedia elettrica per gli uomini. Va ad aggiungersi agli stermini di massa, ai genocidi dei gas asfissianti, ai pesticidi. Roba da fare invidia alle malanime di Hitler e di Saddam Hussein. Chissà che cosa non si darebbe oggi per trovare un antidoto contro il punteruolo rosso che sta distruggendo le palme e i nostri paesaggi urbani! E’ brutto a vederlo e soprattutto dannoso, d’accordo, ma è pur sempre un insetto, un animaletto.
Ironia a parte, ancora non siamo entrati nella fase del rispetto totale per tutto ciò che vive. Forse arriveremo. Per ora, siamo ad una più sensibile selezione rispetto a ieri. L’uomo conserva l’istinto primordiale di aggredire gli animali e ucciderli per paura di essere a sua volta attaccato, ma anche per gioco e divertimento. Istinto che ancora oggi lo spinge ad eliminare tutti quegli animali che non solo non gli sono utili, ma gli sono importuni, il più delle volte insetti, mosche e formiche.
Viviamo, tuttavia, un’inversione di tendenza. Cani e gatti, anche quando non hanno un’immediata utilità, sono sempre più membri della famiglia. I cani soprattutto, perché i gatti sono più indipendenti e insofferenti. I cagnolini sono trattati come bambini, coi loro vestitini, le cuffiette, gli impermeabili, le pelliccette. Morti, vengono clonati e addirittura viene loro lasciata l’eredità a testamento. Sono come status symbol di cultura, di benessere, ma anche – diciamolo pure – di indiretta professione di disprezzo per gli uomini. Io non dico: non amo gli uomini, anzi li odio; ma dando ad un cane tutto l’affetto e perfino l’eredità, lancio un messaggio ben preciso: preferisco gli animali agli uomini. Che è tutto dire. Ci sono vecchiette che altra compagnia non hanno che il proprio cagnolino, mentre i figli sono sempre più indifferenti e lontani. Ci sono giovani che gioiscono quando è finalmente un cane che maltratta l’uomo.
Ora c’è una legge anche in Italia che chi investe un cane ha l’obbligo di prestargli soccorso né più né meno che se fosse una persona. Una delle tante leggi nate all’estremità nord dell’Europa ed estese alla sua estremità sud, dove molto spesso non si presta soccorso neppure alle persone e per il soccorso agli animali non c’è neppure l’ombra di una struttura. La conseguenza è che ci sono in giro frotte di cani randagi. I casi di cani che sbranano bambini e vecchiette si sono moltiplicati. Le piazze e le vie dei nostri paesi ne sono piene, di ogni razza e taglia. Interagiscono ormai con le persone e le cose urbane. Ai rintocchi delle campane alzano al cielo la testa e rispondono ululando come lupi mannari alla luna; spesso fanno da battistrada o d'accompagnamento ai cortei funebri. Difendono da altri cani il loro territorio, in battaglie a volte ferocissime, che nulla hanno da invidiare a quelle epiche di Poitier o di Lepanto degli eroi cristiani.
Un po’ volenti e un po’ nolenti oggi abbiamo un diverso rapporto con gli animali. Una diversa sensibilità ha coinvolto tutti. Oggi nessuno si sognerebbe di attaccare una lattina alla coda di un cane per vederlo volteggiare come una trottola alla ricerca di liberarsi mordendosi la coda. Oggi gli animali hanno le loro istituzioni umane a difenderli. Esse intervengono in favore delle volpi cacciate in Inghilterra, dei cavalli lanciati al Palio di Siena, dei tori matadi nelle corride in Spagna, delle balene catturate nei mari del Giappone, dei cavalli frustati a sangue nelle fiere paesane in gare di tiro. Non si tollera più che si faccia del male ad una bestia per un motivo qualsiasi o addirittura senza alcun motivo. E’ segno di civiltà, non c’è dubbio.
Corriamo il rischio, però, di creare un rapporto con gli animali su basi sbagliate, il più delle volte su arrangiamenti e compromessi, da una parte una legge, pensata in una certa realtà socio-economica, dall’altra la realtà che non ne consente l’applicazione. Qui c’è gente che porta il cane fuori per fargli fare i suoi bisogni, lasciati poi lì, nella totale incuranza di leggi e di elementari opportunità di igiene. Vengono lasciati incustoditi cani pericolosi, che aggrediscono i passanti; oppure cagnolini che possono essere investiti e uccisi da un’auto di passaggio.
Recentemente a Milano un povero tassista è stato ucciso per aver investito un cagnolino. In tre lo hanno pestato e ridotto in fin di vita; poi difatti è morto. Non è morto come un cane, è morto per un cane. E’ il segno dei tempi. Nell’episodio c’è tutta la condizione di un’umanità, che, mentre si arricchisce per un verso s’impoverisce per un altro. Se la vita di un cane vale più di quella di un uomo, vuol dire che l’uomo è in grave confusione e disordine; sta scadendo pericolosamente al di sotto di un cane.
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domenica 7 novembre 2010

Berlusconi, l'immoralista necessario

Ha scritto Ernesto Galli Della Loggia nel suo ultimo libro, Tre giorni nella storia d’Italia, che “Nell’Europa di oggi è più facile, in generale, parlare di Hitler che di Berlusconi: i rischi sono assai minori”; ed ha aggiunto, quasi conscio della colossale minchiata detta: “Non credo di esagerare”. Che lo racconti agli Ebrei, allora!
Non c’è dubbio alcuno che gli scandali, sommati ai processi, che hanno investito Berlusconi in sedici anni di vita politica sono tanti e tali da rendere il suo nome metafora di frivolezza, di corruzione, di spregiudicatezza o, come dice Bill Emmott, ex direttore di “Economist”, autore del recente libro Forza, Italia. Come ripartire dopo Berlusconi, inadeguatezza; benché gli scandali non abbiano mai “varcato” la soglia della sua stanza da letto e i processi, riguardanti tutti presunti reati compiuti prima della sua scesa in politica, si siano rivelati in gran parte aggressioni giudiziarie.
Alcune sere fa, Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, intervistato da Daria Bignardi su “La 7” nel corso della trasmissione “Le invasioni barbariche”, ha affermato che scandali e processi hanno nascosto le cose buone che ha fatto il governo Berlusconi, tenendo a sottolineare che di cose davvero buone ne ha fatte e ne sta facendo.
Siamo in presenza di un inedito fenomeno politico. Un capo di governo che sa governare il Paese, capace di amministrare anche, ma non sa governare se stesso, la sua persona, la sua intimità. E’ indubbio che i suoi comportamenti, extragovernativi, creano imbarazzo e disagio in chi sta dalla sua parte politica; indignazione e rabbia in chi sta dalla parte dei suoi oppositori; offendono il Paese intero.
E tuttavia Berlusconi sale e guadagna punti in consenso. Oliviero Toscani, il famoso fotografo, dice che questo accade perché il popolo italiano è un “popolo bue” e che quelli che stanno con Berlusconi sono “italioti” e, usando un epiteto inventato prima che arrivasse Berlusconi con le sue televisioni da Gianna Preda, la famosa giornalista de “il Borghese”, “videoti”; insomma una componente inferiore del variegato popolo italiano. Lo stesso Eugenio Scalfari, dal suo cogitatorio domenicale de “la Repubblica”, è dello stesso avviso, spostando a dieci anni prima del 1994 la nascita del popolo italiota, a “quando ebbe inizio l’ascesa televisiva della Fininvest e l’incubazione del berlusconismo nelle vene della nazione”. Dimentica Scalfari. C’è un oblio diffuso in Italia, che non dipende solo dalla vecchiaia, ma da una propensione a ricondurre tutto all’hic et nunc, che serve a rendere più forte e sensazionale la polemica.
Sul versante antiberlusconiano c’è un’Italia che, par di capire, non ami Berlusconi a tal punto che non prende nemmeno in considerazione le cose buone che fa il suo governo, che perfino non considera, perché le sue “porcherie” fanno aggio su tutto. Anzi, per questi italiani, il governo Berlusconi non esiste; e si aggiungono, ultima varietà, alla sempre più folta e variegata schiera dei negazionisti.
Berlusconi, dunque, no, perché è uno sporcaccione, perché ricchissimo ed ostenta in maniera pornografica la sua ricchezza, fa un po’ schifo quando si mette con ragazzine; ed aggiungiamo pure altro, ci sta tutto, il suo è un sacco capiente.
Ma, siccome stiamo parlando di reggere le redini di una nazione, ci dobbiamo sì o no chiedere se esiste una concreta, reale alternativa, non tanto a Berlusconi quanto alla sua maggioranza? Un’alternativa che, ovviamente, non abbia i caratteri di altra immoralità e che abbia le stesse capacità di governo che – negazionisti a parte – il suo governo ha dimostrato di avere?
Non occorre molta intelligenza per rendersi conto che un’alternativa senza le forze politiche che costituiscono l’attuale maggioranza, non esiste; e ciò a prescindere da ogni considerazione morale o politica.
Per formare un ipotetico governo tecnico, invocato un giorno sì e l’altro pure, bisognerebbe mettere insieme un nuovo “arco costituzionale” da Vendola a Fini, comprendendo tutta l’umanità politica che sta in mezzo. Se questa può essere una concreta proposta politica ha ragione chi, alla domanda a chi va il suo consenso, senza stare lì a fare le elucubrazioni di Scalfari e dopo essersi premunito di farmaci antivoltastomaco, dice Berlusconi. Siamo tornati in Italia al famoso invito di Indro Montanelli, quando diceva: turiamoci il naso e votiamo Democrazia cristiana; che non è certo una gran bella cosa. Con la differenza che ai tempi di Montanelli alternative erano possibili ma improbabili, stanti in piedi la guerra fredda e il Muro di Berlino. Era possibile, infatti, un’alternativa di sinistra con comunisti e socialisti, ma questo non lo consentiva la posizione italiana nell’equilibrio degli schieramenti internazionali.
Stiamo, dunque, oggi peggio di prima sotto il profilo della reale possibilità di avere un’alternativa a questo governo presieduto da Berlusconi. Al quale va ascritto anche, tra le tante colpe, quella assai più grave, perché meno appariscente, di una corruzione italiana o italiota esistente da sempre e incancrenita da quando c’è la repubblica democratica fondata sui partiti, ossia la corruzione, metastasi pervasiva dell’organismo statale, sociale e nazionale. Pochi giorni fa è stato annullato il concorso per notai perché la traccia della prova scritta era già nota ai soliti “informati”. Si pensi! I notai, i custodi della legge che scadono in una combine da mafia, che in radice nascono come violatori o elusori della legge!
Il vero grande immondo scandalo che ammorba l’Italia è quello che per cinque posti di lavoro si presentano migliaia di candidati, per poi rinunciare perfino a presentarsi alle prove convinti che quei posti sono stati già assegnati. Gli italiani o italioti che siano, fessi comunque no, quando dicono: siamo con Berlusconi, lo dicono pure perché sono contro i suoi oppositori, che, quando non sono degli incapaci, sono dei complici di chi trucca i concorsi, di chi lascia crollare i monumenti, di chi non sa arginare gli straripamenti e gli smottamenti, di chi non riesce a garantire un'istruzione adeguata alla futura classe dirigente, di chi non sa gestire nemmeno la sua monnezza: un’Italia che l’immoralista Berlusconi non ha creato davvero, ma ereditato dai soliti immarcescibili moralisti.

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domenica 31 ottobre 2010

Berlusconi è malato. E gli altri?

“Famiglia Cristiana” ha detto che Berlusconi è malato, riprendendo la vecchia tesi dell’ex moglie del premier Veronica Lario, che, ai tempi della Noemi, così diagnosticò. Lo ha detto dopo l’ennesimo caso di sex-gate che lo ha coinvolto, quello relativo a tale Ruby, ragazza marocchina minorenne-maggiorata, che il Presidente del Consiglio avrebbe avuto sua ospite ad Arcore. In verità l’aspetto sexy è complicato dal fatto che Berlusconi sarebbe intervenuto presso la Questura di Milano a togliere dai guai la ragazza accusata di furto. Il profilo privato si è intrecciato così a quello pubblico. E se già quello privato non era edificante, quello pubblico è estremamente grave. Berlusconi ha rilanciato: “è spazzatura mediatica e comunque io amo la vita e le donne e non intendo cambiare”, aggiungendo così alla matassa un terzo filo, quello appunto della “salute”.
Inutile negarlo: i suoi comportamenti provocano disagio a tutto il Paese, probabilmente non a tutti i suoi elettori. Per ora i suoi sostenitori più razionali fingono una netta distinzione tra ciò che Berlusconi fa per così dire nei “fatti suoi” e ciò che fa nell’azione politica e governativa. Ma la finzione potrebbe venir meno e la verità snebbiarsi, anche per ragioni politiche, economiche e sociali, in cui il Paese sempre più gravemente si dibatte. Allora per coloro che non vogliono guardare ad un inguardabile centrosinistra, fatto di relitti della vecchia partitocrazia, che Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze, irriguardosamente ma giustamente dice di voler rottamare, il problema di un nuovo o diverso punto di riferimento si porrebbe. E, al pensiero, non c’è da stare allegri. Ci sarebbe Fini, potrebbe dire qualcuno. Ma Fini è fluido, liquido, assume la forma del contenitore dei suoi più immediati interessi; e quasi sempre sono interessi di carriera personale. Probabilmente non è neppure per calcolo consapevole. Gli è che non ha altro con cui sostanziare la sua azione politica. Per queste ragioni, non volendo giungere alla conclusione che è meglio non votare, dato che il voto è troppo importante per passarlo a sciacquone, il centrodestra deve cercare soluzioni coerenti e credibili, per il Paese prima di tutto e per i suoi sostenitori.
Ma, per tornare a Berlusconi e alle sue mattane, allo scopo di capire l’uomo e il politico, ma anche per capire perché nonostante tutto goda del favore di tanti italiani, bisogna riflettere su una vecchia categoria del politico. E’ la “dissimulazione onesta” dettata da Torquato Accetto nel ‘600. Consiste nel comportarsi in pubblico come è lecito (foris ut licet) e in privato come piace (intus ut libet). In questo sono stati maestri impareggiabili nella storia i Gesuiti e nel secolo i democristiani, ma in verità tutti gli esponenti della partitocrazia uscita dai Cln resistenziali sia di destra che di sinistra. Essi ne hanno combinate che ne hanno combinate! Ma lo hanno fatto nel chiuso, nel privato, protetti il più delle volte da un silenzio complice della stampa in una sorta di tacita intesa, solo raramente violata. E’ la prassi di tutti i politici di tutti i tempi e di tutti i luoghi della Terra, tranne che per tiranni e despoti. Imperatori ed imperatrici a Roma, per esempio, uscivano nottetempo con le loro scorte e travestiti si recavano nei lupanari, i postriboli di quei tempi, e si abbandonavano a schifezze irriferibili. Alla luce del sole, divinità smaglianti di simboli regali; al buio della notte lordure umane. Se sia giusto o solo conveniente comportarsi in questo modo lo dice la storia. L’etica lo impone. Chi viola la categoria della dissimulazione onesta è un “malato”. Berlusconi la viola. E’ dunque malato? Premesso che dovrebbero guardarsi dentro un po’ tutti, dall’ex attricetta Veronica Lario al direttore di “Famiglia Cristiana”, all’insegna del dettato evangelico, non si commette reato a voler capire i fatti e le persone.
Berlusconi non ha fatto gavetta politica, non ha perciò adeguata educazione. Per quanto il suo consigliere Gianni Letta somigli più ad un mandarino cinese che ad un viveur da riviera romagnola, è rimasto il milanese tipo: brillante, ottimista, affarista, vantoso e vanitoso, pronto ad esibire i suoi piaceri, sapendo di avere l’approvazione degli italiani, che nei suoi vizi e vezzi si riconoscono. Lui vuole far sapere di avere molti soldi, molte ville, che può realizzare tutti i sogni proibiti di tanti suoi connazionali e non solo, avere cioè ville di lusso in lusso, sedicenni di bellezza in bellezza. Avere tutte queste cose e non farlo sapere, secondo lui, non è da uomo normale, soprattutto da italiano medio, ma da politico, come lo teorizzava il Castiglione o il Della Casa, l’Accetto o il Mazzarino, che pur italiano era. Berlusconi è “malato” per questo. Se non amasse esibire i suoi piaceri sarebbe normale; sarebbe un vecchio democristiano, un ciellenista appena dismesso il fazzoletto al collo e il mitra a tracolla.
Altro discorso è quello dei suoi dichiarati avversari o nemici, i quali è da sedici anni che gridano “al lupo! al lupo!” anche quando in giro c’è solo un barboncino o un coniglio, una capretta o una gallina. Da sedici anni Berlusconi è assediato da avversari accaniti, arrabbiati, di ogni categoria: politici in primis e collateralmente magistrati, confindustriali, giornalisti, registi, attori e comici, e in fine famigliari e amici. Un altro sarebbe scoppiato. Lui resiste. Certo, il tradimento della moglie, che scrive a “la Repubblica” per accusarlo e dar ragione ai suoi avversari, e quello di Fini, che gli si è messo alle costole per meglio pugnalarlo, hanno lasciato in lui il segno e lo hanno peggiorato.
Forse qui s’innesta il principio di quella “malattia”, provocata e aggravata dai suoi avversari. In lui emerge sempre più la sindrome di quegli imperatori romani, per capirci alla Caligola e alla Nerone, che finirono per diventare, come ci ha tramandato Suetonio, esattamente quello che i loro nemici volevano che diventassero: despoti, folli e sanguinari.
Nulla di tutto questo per Berlusconi, per fortuna. Berlusconi è l’uomo di lusso ipotizzato dal Verga nel suo “Ciclo dei vinti”; e sarà anche lui un vinto. Ma è pur sempre un uomo di valore, un produttivo, uno che fa la ricchezza di un Paese. Lui è un buono e un generoso. Ma ciò detto, va aggiunto che i suoi vizi umani piuttosto che vigilarli, come sarebbe giusto e opportuno, non solo li aggrava in progressione, ma li ostenta in pornografico piacere. Come a dire: e la prossima volta, toccherà ad una quindicenne! Che, date le sue condizioni fisiche e anagrafiche, sarebbe come dire: e la prossima villa me la farò sulla Luna!
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domenica 24 ottobre 2010

Il turismo degli idioti fa tappa ad Avetrana

Il sindaco di Avetrana, comune nel Tarantino, dove si è consumata la triste vicenda di Sarah Scazzi, ha chiuso le vie d’ingresso del paese per impedire che pullman di turisti provenienti da altre regioni – si dice dalla Basilicata e dalla Calabria – continuassero un pellegrinaggio sui luoghi della tragedia: la casa dei Misseri, la casa degli Scazzi, il pozzo dove era stato nascosto il cadavere della fanciulla assassinata, il cimitero.
Il fenomeno del turismo macabro è nuovo, inventato ed alimentato dai massmedia, che dal 26 agosto non fanno che parlare della vicenda. Nessun caso in precedenza è stato così al centro dell’attenzione nazionale. E’ certamente un’anomalia, che esperti di sociologia e di psicanalisi sociale non mancheranno di spiegare. Ma è anche un fatto dal quale trarre spunti di riflessione diversi, applicabili ad altri campi, per capire in che mondo viviamo.
E il mondo in cui viviamo non ha più regole, di nessun genere. Guai, perciò, a parlare di anomalie! Del resto i fatti anomali ormai superano i normali. Gli anomali, i personaggi, si vantano di esserlo e contestano i presunti normali. Abbiamo un Paperon de’ Paperoni che fa il Presidente del Consiglio, in conflitto sempre d’interessi col pubblico bene e coi giudici, e se ne vanta. Abbiamo in alternativa un omosessuale che non nasconde il fidanzato e anzi dice di volere un figlio e se ne vanta. La normalità? E’ rimasta la Chiesa a sostenerla e a difenderla. Anzi, le religioni. L’islam scherza ancora di meno del cattolicesimo in fatto di regole e di normalità!
Ad Avetrana è accaduto un fatto gravissimo, che ha messo in luce ancora una volta la malvagità dell’animo umano e la torbidità che ingramigna nelle famiglie; ma fatti altrettanto gravi accadono purtroppo ogni giorno in Italia e nel mondo. Un ragazzo che ammazza una giovane donna con un pugno, il marito che ammazza la moglie a coltellate davanti ai figlioletti, una madre che mette nella centrifuga della lavatrice il figlioletto nato da pochi giorni, la moglie che fa ammazzare il marito dai suoi amanti e via raccapricciandosi, sono tutti episodi che stanno nell’arco di una settimana a contendersi il primato della nefandezza. Ci fosse ancora la “Settimana Incom”, il giornale che una volta informava dagli schermi cinematografici prima che arrivasse la televisione, avrebbe il suo gran da fare per scegliere quale di questi proporre agli spettatori all’interno di una panoramica comprendente anche altri eventi. Una informazione completa, infatti, vuole che sia panoramica ed equilibrata. Al giorno d’oggi i responsabili delle varie testate giornalistiche e delle emittenti televisive non si pongono più questi problemi. L’informazione panoramica ed equilibrata non esiste più. Esistono i particolari, ipertrofizzati, ingigantiti al dettaglio ripetuto e filigranato in maniera abnorme fino alla deformazione. Al caso di Avetrana sono state dedicate pagine e pagine di quotidiani come il “Corriere della Sera”, la “Stampa”, la “Repubblica”; se ne sono occupati in tutte le ore del giorno le trasmissioni televisive più popolari; gli stessi telegiornali si sono attardati interi quarti d’ora. Ovviamente il tempo e lo spazio per parlare del caso di Avetrana sono stati sottratti ad altre notizie, non so quanto più importanti ed utili allo spettatore e alla società.
Perché accade tutto questo? E’ l’informazione che trova nella notizia l’occasione per catturare l’attenzione del pubblico e anzi a creare il pubblico o è il pubblico che costringe l’informazione a piegarsi ai suoi gusti e a tradire la sua funzione? E’ molto difficile rispondere a questa domanda. Verrebbe di primo acchito di dire: c’è una partecipazione sostanziale ed osmotica, per cui una parte influenza l’altra, fino all’inverosimile.
Ma se il caso Avetrana, inteso nella sua massmediaticità, contiene dei messaggi, allora è giusto e importante vedere quali.
Il primo è che la gente è incapace di far prevalere in sé un sentimento per volta ed è emotivamente disordinata. Di fronte al caso di Sarah si è rivelata incapace di provare in sequenza sentimenti di orrore, di disgusto e di pietà. Secondo, essa si è abbandonata alla morbosità, fino a sentirsi delusa dalla ritrattazione del cosiddetto “zio orco” di aver abusato di lei dopo morta. Terzo, è subentrato in molti il rammarico per essere quasi esclusi da un simile “bene”, dallo spettacolo dell’informazione, abitando lontano da quei luoghi. Di qui, quasi in rivendicazione di un diritto, l’organizzazione di gite per vederli materialmente e magari per farsi una foto ricordo, come si fa con la Fontana di Trevi a Roma o col Duomo di Milano, col cantante amato o col calciatore preferito.
Questo desiderio di partecipare al grande evento mediatico, oltre che a condizionare i protagonisti stessi della disgraziata vicenda, avvocati compresi, ha coinvolto i semplici cittadini dello sterminato anonimo pubblico televisivo. Un desiderio di poter dire “io ci sono stato e toh questa è la prova”, esibendo una foto, ha prevalso su un normale sentimento di pietà per la giovanissima vittima e di compassione per la sua famiglia.
Si dice che la società democratica sia fatta di questo tipo di informazione. Infinite emittenti, zero censura, libertà assoluta non tanto di provare o non provare sentimenti quanto di abbandonarsi a comportamenti consequenziali. Provo dolore e pietà per Sarah? Mi chiudo in me stesso e piango. Sono travolto dal desiderio di andare sui luoghi della sua tragedia? E allora prendo l’auto, il pullman e vado a togliermi il capriccio. Libero l’uno e libero l’altro; nulla da dire all’uno e nulla da dire all’altro. Ma, almeno non si accusi di antidemocrazia chi la pensa diversamente e ritiene idioti i turisti del macabro, i gitaioli della stupidità. Perché, in questo caso, avrei qualche difficoltà a riconoscermi democratico.
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domenica 17 ottobre 2010

Ahi Serbia Italia...

E’ assai sconveniente in democrazia procedere per elogi sommari o condanne indistinte; modo tipico delle dittature. L’impresa compiuta dai tifosi serbi, in occasione della partita di calcio Italia-Serbia a Genova di martedì 12 ottobre, valida per la qualificazione alla fase finale degli Europei del 2012, è senz’altro da condannare sul piano sportivo e civico. Non si va allo stadio per mettere in atto comportamenti tali da impedire il normale svolgersi della gara fino al punto da minacciare l’incolumità dei calciatori e di migliaia di tifosi e spettatori; e poi mettere a ferro e a fuoco una città. Quei bravacci e delinquenti andavano affrontati sul “campo” e non lasciati fare per aspettarli poi per un pestaggio che aveva tutto il sapore della vendetta postuma.
Probabilmente in qualche altro paese europeo si sarebbe proceduto diversamente: con gli idranti, coi cani, con qualche carica, dopo aver invitato gli “estranei” ad allontanarsi da quel settore-gabbia. Noi invece abbiamo lasciato che un energumeno lavorasse tranquillamente con la tronchesina a tagliare la rete di protezione per poter poi lanciare petardi e bengala sul terreno di gioco come se fosse un operaio chiamato a fare delle riparazioni. Siamo in Italia, che diamine! Appena una ventina di poliziotti, fra cui alcune donne, a fare la guardia davanti alle due porte della rete di protezione. Intorno alla statua del Santo Patrono durante la processione se ne vedono di più. Ci è andata di lusso che quelli erano già soddisfatti della dimostrazione. Fossero entrati sul terreno di gioco, chissà che cosa sarebbe successo.
Dicono testimoni che i tifosi italiani erano perquisitissimi all’ingresso dello stadio, che ad un bambino che voleva portare con sé una bottiglietta di acqua gliel’avevano impedito. I tifosi serbi, invece, erano attrezzatissimi di tutto. Spiegazione ufficiale: erano talmente pericolosi per quello che avrebbero potuto continuare a fare in città che erano stati fatti entrare tutti nello stadio in fretta e furia. Vigilanza, insomma, zero. E zero vigilanza perfino alla frontiera, dopo che qualche giorno prima gli stessi tifosi avevano dato l’assalto al Gay Pride di Belgrado, provocando numerosi feriti. Spiegazione ufficiale: la polizia serba non aveva informato quella italiana della presenza tra i tifosi di elementi pericolosi. Siamo alle comiche. Polizie efficienti avrebbero impedito, quella serba di farli uscire; quella italiana di farli entrare, pur in difetto di informazioni preventive.
Giustamente le autorità calcistiche europee hanno fatto sapere che a termini di regolamento anche l’Italia è responsabile di quanto è accaduto. Saranno diverse le sanzioni, ma sanzioni ci saranno pure per l’Italia. E intanto non si è svolta la partita, circa centomila euro di danni allo stadio ed una figuraccia dell’Italia in mondovisione. E dire che ci proponiamo per organizzare Olimpiadi e Mondiali!
Questo è un aspetto. Ne vogliamo esaminare separatamente altri? Un altro è l’opportunità mediatica colta dai tifosi serbi per qualcosa che col calcio non ha niente a che fare. Nazionalisti ed estremisti volevano portare davanti ad una vasta platea il problema del Kossovo. Lo stesso energumeno, battezzato dai media italiani, in cerca sempre di personaggi da mitizzare, Ivan il Terribile, aveva tatuato sul braccio fra le altre cose una data, 1389, l’anno di una famosa battaglia dei Serbi cristiani per arginare l’invasione balcanica dei Turchi mussulmani, una sconfitta per la cristianità, ma rimasta nella tradizione serba come una data sacra. Ma neppure questa ragione può giustificare i comportamenti dei tifosi serbi. Uno stadio non è il luogo per fare dimostrazioni simili, certo non per scatenare una guerriglia, inscenare proteste violente e impedire che si svolgesse un evento sportivo per un evento politico. L’obiettivo è stato rggiunto, ma è stato controproducente.
Un terzo aspetto, che non è meno importante degli altri due e che dal secondo discende, è appunto politico. Oggi il Kossovo è stato dichiarato stato indipendente sotto la protezione della Nato e dei nostri soldati. Gli abitanti di etnia albanese mussulmana ne stanno combinando di tutti i colori, fino a distruggere chiese secolari, testimonianze di civiltà, a violare e distruggere tombe, a perseguitare la gente serba, lì ormai in minoranza. Si dirà: loro ne hanno subite tante dai Serbi nel corso di alcuni secoli. E allora, che facciamo? Ieri a noi ed ora a voi? E le grandi organizzazioni politiche e militari si prestano a favorire forme di revanscismo selvaggio?
L’Italia, peraltro, fu tra gli stati che nel 1999 bombardarono la Serbia, in seguito agli ultimatum dell’Onu, ed è stata tra le prime a riconoscere l’indipendenza del Kossovo. Si può essere d’accordo o meno con le ragioni dei Serbi, ma non si può non riconoscere che le loro ragioni sono comunque da rispettare. Invece, da parte della stampa italiana, si è fatto di ogni erba un fascio e la condanna è stata sommaria e totale in un mix di tifo calcistico, delinquenza comune ed estremismo politico.
La gran parte dei nostri commentatori, sempre pronti ad adeguarsi al vento che tira, hanno scritto che i nazionalisti serbi, rivendicando il Kossovo, perseguono obiettivi antistorici, senza peraltro spiegare perché “antistorici”. Le ragioni dello spirito non sono soggette a scadenza e valgono assai di più di quelle del corpo. Queste sì soggette a scadenza: riempita la pancia si può andare a dormire.
Siamo forse noi antistorici quando chiediamo che la scuola di Adro, nel Bresciano, torni ad intitolarsi ai Fratelli Dandolo, eroi del Risorgimento, dopo che era stata intitolata al professor Gianfranco Miglio? O non è legittima difesa di una identità storica e politica insieme? E che cosa diremmo noi se ad un certo punto, in seguito a sommosse e a guerre civili, venissero da fuori, armati di tutto punto, e ci imponessero questa o quella regione come indipendente? E permettessero che monumenti e tracce di italianità venissero cancellati dai nuovi padroni?
Stupisce e indigna in questo paese la superficialità di tanti intellettuali che non riescono, per difetto d’intelligenza, per opportunismo o per viltà, a capire che ci sono anche le ragioni degli altri e che queste vanno analizzate e rispettate piuttosto che incartate e buttate come pesce putrido.
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domenica 10 ottobre 2010

Sarah, l'ultimo Cappuccetto Rosso

La tragedia di Avetrana, dove una ragazzina di quindici anni il 26 agosto fu strangolata, violentata e nascosta in un pozzo in aperta campagna da uno zio-bestia, reo confesso, e ritrovata quarantuno giorni dopo, ripropone in termini nudi e crudi la difficoltà di chi vive, in ogni tempo, la condizione di Cappuccetto Rosso, il personaggio della celebre fiaba di Charles Perrault e dei Fratelli Grimm. Differenze di sensibilità culturale delle due versioni a parte, che concludono la fiaba in maniera diversa, resta costante il personaggio nella sua dimensione di ignara vittima designata.
E’ possibile che una ragazzina nella società odierna debba correre gli stessi pericoli di Cappuccetto Rosso? E’ possibile che progresso e civiltà nulla hanno potuto e nulla possono contro gli impulsi animaleschi che si annidano nell’umano? Se Cappuccetto Rosso è una fiaba ed universalmente valido il suo messaggio, evidentemente sì.
Le ragazzine oggi non vanno per prati a raccogliere fiori o per boschi a raccogliere frutti; e non hanno sulla testa un cappuccetto rosso. Tutte metafore, facilmente decodificabili. I prati e i boschi di oggi sono le discoteche, i pub, i bar, i facebook e i tanti luoghi d’incontro, reali e virtuali, dove i giovani amano incontrarsi per divertirsi; a volte solo per chiacchierare, in quel piacevole raccontarsi aneddoti di vita propria, storielle sentite, barzellette. Gioia e piacere dei giovani, di oggi come di ieri, come di sempre. Immortale testimonianza il Decameron del Boccaccio, dove dei giovani lasciano la città morta per la peste e si rifugiano in aperta campagna per trovare la vita nella piacevolezza dello stare insieme e del raccontarsi storie.
Il cappuccetto rosso è la metafora della disinvoltura, della freschezza di adolescenti, di quel loro modo di vestirsi, di comportarsi, di adornarsi di piercing, di equipaggiarsi di telefonini, di iPad, che allontana gli adolescenti dal mondo degli adulti, specialmente di certi ambienti, e li rende a volte incomprensibili e maliziosamente appariscenti e attraenti. La metto al plurale maschile, ma va da sé che a correre certi pericoli sono soprattutto le ragazzine. Cappuccetto Rosso è stato inventato al femminile.
Ma Sarah ha trovato il suo bosco e il suo lupo in famiglia, il più insidioso dei luoghi, proprio perché ritenuto il più sicuro.
“L’avevo già toccata”, ha confessato lo zio assassino. Quella ragazzina, così bella, delicata, una farfalla in volo, così l’hanno mostrata i tanti fotogrammi ripresi in diverse circostanze; quella ragazzina – dicevo – per quanto sua nipote, lo ossessionava. Chissà che cosa pensava di lei quel fauno con le mani legnose e contorte quasi quanto il cervello! L’incapacità di leggere correttamente gli atti lievi e spensierati di Sarah apre un altro fronte di conoscenza delle ragioni per le quali tra generazioni ci debba essere incomprensione e incomunicabilità. I comportamenti di Sarah non potevano che rispondere a desideri, sogni, pulsioni e mode legati alla sua età e al tempo. Le voglie di quel contadino non potevano che rispondere ad istinti naturali e selvaggi, legati alla sua condizione, alla sua età e ad un tempo ormai remoto. Tra i due mondi, tra le due condizioni non poteva che scatenarsi il dramma.
E’ proprio impossibile giungere ad un linguaggio comune, che consenta agli adulti di comprendere quanto meno che certi comportamenti possono voler dire qualcosa di diverso da quello che essi comunemente intendono? E’ proprio impossibile che i giovani, da parte loro, capiscano che la società è un bosco dove c’è di tutto, dove si nascondono ancora tanti lupi e che loro, anche ingenuamente, possono trasformarsi in esche e finire nelle loro gole?
Purtroppo perfino la bellezza in sé è motivo di incomprensione sociale, di incomunicabilità, di rischio. Il mito di Euridice è ancor più vecchio di Cappuccetto Rosso. E allora all’eterno male occorre rispondere con l’eterno bene e cercare di trarre una lezione da quanto per l’ennesima volta è accaduto.
Se è impossibile giungere ad un codice condiviso, si cerchi almeno d’imparare a vivere, sapendo di stare tra lupi ed agnelli, tra falchi e colombe, tra serpenti ed aquile, tutte metafore delle infinite varietà umane. A volte può anche non bastare. Ma la prudenza è il minimo che si possa usare per difendersi dalle insidie del mondo.
E’ un discorso repressivo, che soffoca la spontaneità, che depriva l’individuo della sua libertà? Può darsi. Ma, dopo che tu hai fatto la barbara e atroce fine della povera Sarah, che rimane? E’ forse un risarcimento la punizione, per quanto dura, se ci sarà, dello zio-bestia? Nooo!
Nella fiaba dei Grimm finisce che il cacciatore trova il lupo, lo uccide, gli apre il ventre e tira fuori Cappuccetto Rosso e la nonna, ancora vive e in attesa di essere liberate. Ma è una fiaba, è rivolta ai bambini, con lo spirito di educarli senza spaventarli; ma anche agli adulti, col mandato preciso di fare giustizia, di stanare i lupi malvagi e di eliminarli. Nella realtà tutto è terribilmente diverso. La povera Sarah non c’è più, nessuno la può richiamare in vita e fare giustizia è un dettaglio sociale, una necessità degli altri.
A condurre Sarah a quell'atroce esecuzione è stata la sua bellezza, la sua avvenenza, la sua grazia, la sua leggerezza, interpretate dal malvagio come disponibilità alla sporcizia, all’abominio, all’animalità; ma soprattutto a condurla a morte è stato il suo rifiuto, l’aver voluto dimostrare che non era ciò che agli altri, allo zio-bestia, poteva sembrare, che lei era se stessa e per se stessa. “Queste cose non si fanno” gli aveva detto prima che su quella luce e quel candore calasse il buio, per sempre.

domenica 3 ottobre 2010

In principio è il potere...e il potere è Dio

“In principio Dio creò i cieli e la terra. Or la terra era informe e vacua e c’erano tenebre sulla superficie delle ondeggianti acque…”. Inizia così la Genesi, primo libro della Bibbia attribuito a Mosè. Quale messaggio contiene questo esordio biblico? Dante ci insegna che le scritture possono essere lette in senso letterale e in senso allegorico. Lasciamo stare quello letterale. Non ci serve in questa sede. Se Dio mise ordine dove non c’era e diede forma a ciò che non ne aveva, creò la luce per rischiarare le tenebre e diede quiete alle “ondeggianti acque”, vuol dire che Dio è allegoria del potere, e che questo è in principio di tutte le cose. Senza il potere attivo tutto precipita nel caos primordiale.
Caliamoci nella realtà politica. Chi parla e opera contro il potere parla e opera contro l’ordine, contro la forma, contro la luce. Ordine, forma, luce sono presupposti di benessere e sicurezza. Abbattuto il potere, tutto il resto viene giù e tutti si cade nel disordine e nella prepotenza. Non c’è più chi provvede a fare le leggi e a farle rispettare, a garantire il patto sociale. Dai diritti più importanti alle esigenze più spicciole e quotidiane, tutto è in discussione. Così posta la questione, anche il più brutto dei poteri appare preferibile alla vacatio del potere.
Il potere, a volte, però, può diventare tirannide insopportabile; tirannide lo è sempre, ma solo in talune circostanze abbatterlo conviene più del conservarlo.
Veniamo al dunque. Siamo noi oggi in Italia in una circostanza in cui abbattere il potere conviene più del conservarlo?
Non è facile rispondere a questa domanda perché il potere non si identifica senz’altro col governo, che è sommariamente personificato da un uomo discusso e discutibile: Silvio Berlusconi. Anche se non è totus suus. Il potere dura finché da un governo si passa ad un altro; cade se invece si passa ad un non governo. Perciò, bisogna stare molto attenti.
In Italia, da quando è comparso Berlusconi sulla scena politica non c’è stato più bene; non c’è stato più ragionamento politico. Dimentichi dell’importanza del potere e condizionati dall’essere contro chi ne detiene il governo, ogni impegno ad abbatterlo è stato prioritario. Nessuno si pone il problema: abbattere Berlusconi non vuol dire anche abbattere il potere? La risposta sarebbe semplice se, abbattuto Berlusconi, ci fosse pronto un altro governo a prenderne il posto, a farsi titolare del potere ed esercitarlo per garantire ai cittadini i loro diritti e soddisfare le loro esigenze. Ma così non è. Fuori del brutto governo di Berlusconi nell’immediato non ce n’è uno più bello o più brutto; non c’è proprio un governo.
Ad appena due anni dalle elezioni quella che appariva l’invencible armada di Berlusconi è prossima a fare la fine dell’armata Brancaleone di Prodi; un numero notevole di parlamentari, come ondeggianti acque, vanno e vengono dai gruppi e dagli schieramenti, sospinti dal vento dell’interesse personale. Ancora una volta, democraticamente, ossia irresponsabilmente, i rappresentanti del popolo agiscono senza nessun vincolo. Come dice la Costituzione, ma non nello spirito della Costituzione. A riprova che questa nostra magna charta può essere usata come si vuole, per incartare qualsiasi cosa.
Sorprende non tanto il politico avversario di chi oggi detiene il potere quando lancia proclami e assesta colpi per abbatterlo senza neppure preoccuparsi del poi. In democrazia c’è una irresponsabilità diffusa, per cui non necessariamente chi è contro il potere e lo vuole abbattere ne ha uno in sostituzione. Si dice: per ora abbattiamo questo, dopo si vedrà. Sorprende, invece, chi, come Giovanni Sartori, un politologo, uno scienziato della politica, si mette a scimmiottare i politici avversari del potere, come un medico piuttosto che curare il malato si mette a scimmiottarlo. Sartori non è il solo, come lui si comporta la stragrande maggioranza di chi dovrebbe mettere in guardia il paese dal non precipitare nel disordine e nell’anarchia. L’Italia è malata, ma i medici lo sono più di lei.
Berlusconi è davvero così importante che ipotizzare un’Italia senza di lui sarebbe il disastro? Assolutamente no, come no è la risposta alla domanda: ma davvero Berlusconi è il male assoluto, da eliminare prioritariamente senza porsi nessun problema del dopo, che sarebbe senza ombra di dubbio migliore del prima?
Dico che il problema politico italiano sarà pure Berlusconi, e non lo dico per comodità di ragionamento, ma sono anche gli altri, i suoi oppositori. Berlusconi è a capo del governo perché lo hanno voluto gli italiani, che hanno votato in base ad una legge approvata sia dal centrodestra che dal centrosinistra. Governa e propone riforme. Sono brutte? Perché, allora, gli altri non fanno la loro parte, opponendosi nel merito delle proposte di Berlusconi e avanzando proposte a loro volta? No, essi pongono una pregiudiziale: niente governo, niente politica finché c’è lui al potere.
Essi perciò sono politicamente latitanti, non affrontano i problemi, non hanno nulla da dire all’infuori delle solite frasi, che ripetono ogni giorno, senza nessuna variante. Sono inadempienti e incoerenti. Tutto ciò che prima rientrava nel loro strumentario politico è rivisto alla luce della funzionalità o meno all’utile berlusconiano. La Costituzione è stata sempre criticata per i suoi difetti di fabbrica; ma oggi la Costituzione, siccome può essere brandita contro Berlusconi, è la più bella del mondo. Da sempre si dice che la giustizia in Italia non funziona, che i processi non finiscono mai; ma oggi, siccome il processo breve è funzionale all’utile berlusconiano, ecco che tutto va bene come va. Lungi dal fare politica a prescindere dall’utile berlusconiano i suoi oppositori non sanno andare oltre la “morte” di Berlusconi, che vorrebbero venisse inflitta dal popolo, ma in cuor loro si accontenterebbero anche se a provvedere fosse il Padreterno.
I cittadini hanno capito, però, che Berlusconi in qualche modo i problemi del paese li affronta e li risolve, mentre chi lo vuole “morto” non ha né la forza politica né le idee per proporsi al suo posto. Essi, perciò, non sono così allocchi da rinunciare ad una forma, che magari non piace, ad una luce che magari non è molto chiara, ad una calma delle acque che magari sarà pure apparente, per precipitare in una terra politica “informe e vacua”, neppure promessa. Verrebbe da dire neppure Deo lo vult!
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domenica 26 settembre 2010

Fini: una condanna senza appello

Non c’è dubbio alcuno che lo schifo che sta facendo la destra politica oggi in Italia non ha precedenti e non può avere comprensioni o tolleranze. Dire, però, che è tutta la politica a fare schifo non è giusto, perché non è vero. Se dici tutti, dici nessuno. E non è giusto neppure colpevolizzare tutti a destra allo stesso modo. Se tutti hanno colpa, nessuno ne ha. Proprio nei momenti di peggiore crisi della politica, senza nulla nascondersi e nascondere, bisogna avere fiducia.
Esiste in Italia da anni una questione Berlusconi, nei confronti della quale c’è stata e c’è una durissima presa di posizione da parte delle sinistre di ogni ordine e grado. E in tutta onestà non si può dire che facciano male a denunciare continuamente quanto accade nel paese e che secondo loro non dovrebbe accadere. Esse svolgono un compito essenziale in una democrazia. Si può obiettare sulla giustezza delle critiche e sulla fondatezza delle denunce, ma questo è un altro discorso. Conflitto di interessi, inadeguatezza a rappresentare le istituzioni, processi per corruzione, ripetuti scandali finanziari e sessuali, leggi ad personam, pubbliche beghe famigliari balzate alla cronaca nazionale, gaffe internazionali con esibizione di corna e battute inopportune e stravaganti sono critiche e denunce assai fondate. Potremmo continuare. Berlusconi ne ha fatte di tutti i colori, senza mai dirsi pentito o contrito, ma esibendole come un modo nuovo di far politica, a dimostrazione che lui non viene dal mondo del dire ma da quello del fare. Il popolo italiano, almeno quello che da sempre lo segue, non lo ha sempre condiviso, ma lo ha sempre tollerato, perché poi i suoi governi sono riusciti a dimostrare che un conto sono le stravaganze comportamentali, un altro è il governo.
E’ un fatto innegabile che la politica, anche a livello governativo, grazie a Berlusconi ha rinnovato il suo personale. Ci sono tante donne che prima non c’erano e se si escludono maliziosità di bassa lega nei loro confronti, indegne di un paese civile e incoerenti per chi le fa, hanno dimostrato di essere all’altezza. Ci sono quadri giovanili che si sono rivelati capaci e importanti. Ci sono ministri come Tremonti, Maroni, Frattini, La Russa, Sacconi, Gelmini, Brunetta, Carfagna, Brambilla, tanto per rimanere al governo in carica, che hanno dimostrato che in Italia il governo c’è e che sa anche operare, pur in un periodo di gravissima crisi finanziaria internazionale.
Va bene, dunque, criticare Berlusconi; va male, invece, circoscrivere a lui tutto quello che si può dire della politica e del suo governo.
E veniamo al dunque. La destra ex missina ed ex aennina ha sempre approvato senza fare una grinza l’operato di Berlusconi, a volte anche indecorosamente e venendo meno al suo compito oserei dire storico prima ancora che politico di caratterizzare di più e meglio l’azione del governo. La storia di questo partito avrebbe imposto a Fini e compagni un ruolo di controllo, di pungolo e di condizionamento soprattutto sul fronte dell’etica pubblica, fiore all’occhiello di sempre della destra italiana. Il Msi non era soltanto corporativismo, neofascismo, squadrismo, violenza; ma era anche legalità, giustizia, rispetto dello Stato, stato etico e stato sociale, senso di patria, compostezza istituzionale, etica pubblica.
Fini è stato il traghettatore di questa destra dal Msi al PdL nell’arco di sedici anni. Se c’è una persona chiamata a rispondere nel bene e nel male della metamorfosi della destra politica italiana è lui e in subordine i cosiddetti colonnelli, che lo hanno sempre seguito e assecondato, compreso quello Storace, che ne ha tratto benefici personali divenendo Presidente della Regione Lazio e Ministro della Sanità, prima di prendere le distanze per motivi mai del tutto chiariti.
L’opposizione di Fini e di alcuni ex missini ed ex aennini a Berlusconi è una questione recente. Da che cosa è nata? Lo hanno visto tutti. Fini, divenuto presidente della camera dopo il voto del 2008, non ha tardato a dare segni di irrequietezza, alternando esternazioni e picconate, a volte nobilitate da una nuova sensibilità politica (testamento biologico, cittadinanza agli immigrati, omosessualità), che nulla hanno a che fare con la destra, e a volte svestite di qualsiasi compostezza formale (attacchi fuori onda a Berlusconi e a rappresentanti della maggioranza). In un primo momento si è pensato ad una eccessiva identificazione da parte di Fini con la terza carica dello stato, che obbliga ad avere nei confronti di certi problemi un atteggiamento meno politico di parte e più istituzionale. Ma poi è apparso chiaro che lui mirava al bersaglio grosso, in un crescendo sempre più duro, attaccando ora Berlusconi senza mezzi termini ora uomini di quella maggioranza che pur lo aveva eletto presidente, facendosi apripista delle opposizioni, in un misto di dipietrismo e grillismo. La sua incominciava a configurarsi come opposizione bella e buona: all’interno reclamava libertà di dissenso, allo scopo di dimostrare che Berlusconi non ne concede; all’esterno facendo causa comune con le opposizioni. Mentre, in maniera incredibilmente cinica e sfrontata, confermava la sua fiducia al governo per rispetto di chi lo aveva votato. Il gioco era chiaro: mettere in crisi il governo per trarre poi dalle votazioni successive il massimo profitto; dimostrare che non la destra aveva fallito, ma Berlusconi, che andava perciò sostituito; per accreditarsi pertanto come unico legittimo erede. Lui, vessillifero di legalità, il nuovo Catone: Caiman delendus est.
Ma ahimè si era scordato che Berlusconi non era il re e che lui non era il principe ereditario gratia dei. La legge salica non vale in repubblica, dove nascono e muoiono gerarchie nel volgere di poco tempo. Inoltre non si era ben guardato addosso e intorno. Se lo avesse fatto si sarebbe accorto di non avere proprio le carte in regola. La questione della casa di Montecarlo non è una cosa da niente, come i suoi nuovi “amici” vogliono dare ad intendere. E’ oggettivamente grave; è soggettivamente gravissima, se si considera che il soggetto è quel partito nato nel 1946 sulle ceneri del fascismo, di cui fino al 1992 non ha mai nascosto l’eredità politica e morale. I suoi nuovi “amici” non sanno cosa significhi essere stati missini, e forse non lo sa neppure lui; ma gli altri, soprattutto quelli della base, che non sono tutti morti ancora, lo sanno. E perciò, senza essere berlusconiani e anzi subendo Berlusconi, lo condannano senza appello.
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domenica 19 settembre 2010

Destra e Sinistra, chi ha tradito e chi pure

I Balcani si sono trasferiti in Italia e hanno preso il posto di Alpi e Appennini. Le creature di Machiavelli, principi e principini, si sono moltiplicate come le uova fatali di Bulgakov. Lo dice la politica italiana con le sue lotte incrociate, con quella spinta, appena appena dissimulata di pulizia etnica nei confronti degli avversari, dentro e fuori degli schieramenti. Lo dicono i tanti leader e leaderini che spuntano come funghi. La formula è “primus super pares”, inventata da Berlusconi ma taroccata e finita sulle bancarelle delle sagre agostane. L’accusa più ricorrente è di tradimento. Se la rinfacciano tutti, a destra in maniera più violenta, a sinistra in maniera più soft.
Ma più di tutti ad aver ragione di parlare di tradimento è il cittadino, espropriato del diritto politico di coltivare dei valori in cui ha sempre creduto, in cui continua nonostante tutto a credere; ed oggi ridotto a fare il berlusconiano o l’antiberlusconiano. Uno squallore!
A destra. Non c’è dubbio alcuno che lo scontro tra finiani e berlusconiani, al di là delle ragioni esibite, nasconde un profilo personale mai registrato nella cosiddetta prima repubblica. Dal Msi ad An, da An al PdL, dal PdL a Futuro e Libertà, la destra italiana ha perso i suoi veri connotati, in nome di una progressiva liberalizzazione, modernizzazione ed europeizzazione. Così dicono. La metamorfosi continua di Fini è emblematica; e se prima poteva sembrare un caso isolato con le sue contraddizioni in materia di fascismo, di Mussolini, di ebraismo, di omofobia, di cattolicesimo, di xenofobia, di difesa ad oltranza della vita, oggi su posizioni negate e neganti troviamo un nascente partito, cosiddetto dei finiani o impropriamente dei futuristi, più appropriatamente dei Fli-pper. Sono diventati antifascisti, filoebraici, sono per le coppie gay, si dicono agnostici, vogliono diritto di cittadinanza e voto agli immigrati senza tante attese, difendono l’aborto e l’eutanasia. Essi, in buona sostanza, sono i radicali e i liberali degli anni Sessanta. Altro che destra moderna!Chi degli ex missini ed ex aennini non ha seguito Fini nei suoi funambolismi o finambolismi, come li chiama Veneziani, lo accusa di tradimento. Ma ad aver tradito, non meno di Fini, su taluni importanti valori di quella che una volta era la destra, sono quelli che son rimasti nel PdL, con Berlusconi e con la Lega, per intenderci. Quali sono i tradimenti? Sono nei confronti dell’unità, dell’identità e del decoro nazionale, della legalità e della giustizia sociale. Governare insieme con la Lega e con Berlusconi vuol dire favorire una politica secessionistica ed affaristica, una concezione della politica da bottega, dove contano i commerci e gli affari. I continui episodi di antitalianità della Lega non possono passare per forme di folclore innocuo. E’ in atto – vedi l’episodio della scuola di Adro nel Bresciano – una sovrapposizione di un modello identitario sul nascere ad un modello identitario sul morire. Le performance di Gheddafi in Italia sono indegne, indecorose ed offensive finché si limitano alle pagliacciate romane, che pure sono gravi; ma diventano intollerabili quando sono ricattatorie ed intimidatorie come l’episodio dell’aggressione libica al peschereccio italiano “Ariete” con mezzi italiani in mano libica e militari italiani in coperta. C’è una tolleranza da parte degli uomini ex missini nei confronti della patente e continua violazione della legalità e della compostezza da parte del capo del governo e di taluni suoi fedelissimi che grida vendetta al cospetto della onorata storia di almeno quattro generazioni di missini, fascisti per coerenza e democratici per dovere. I fedeli al PdL, in realtà, nulla hanno più del loro patrimonio politico, sono anch’essi i democristiani e i socialisti degli anni Settanta e Ottanta.
La Lega, la tanto vituperata Lega, si è ingrassata a dismisura non come si vuol far credere, attribuendole la parte della rana di Fedro, ma si è riempita dei voti degli ex missini e degli ex comunisti. Quando la componente finiana rimprovera Berlusconi di cedere ai ricatti della Lega dimentica che se la Lega è forte la colpa è proprio di chi ha sciolto prima il Msi e poi An, togliendo a molti italiani del Nord un punto di riferimento nazionale e sociale credibile. Allo stesso modo a sinistra, prima di accusare Berlusconi di essersi appiattito sulla Lega, dovrebbero chiedersi perché essa sta conquistando persino l’Emilia Romagna, feudo tradizionalmente del Pci e della sinistra in senso lato.
L’IdV di Di Pietro fa da pendant meridionale alla Lega. Questo partito è cresciuto nel Sud per i voti in fuga di tanti missini, che amavano la legalità e la giustizia, e di tanti comunisti che non hanno trovato più nel loro partito lo sdegno e la rabbia di chi lotta anche per un posto di lavoro o per migliori condizioni di vita.
A sinistra. Non meno che a destra è un continuo rinfacciarsi di trasmutazioni e tradimenti; con stile diverso, ma nella medesima sostanza. A parte le schegge delle più varie posizioni socialiste e comuniste, dai rifondaioli ai comunisti italiani, dai verdi ai vendoliani, anche gli ex comunisti e gli ex democristiani, confluiti nel Pd, hanno dovuto rinunciare ai loro valori più identitari. La rissa è evitata in nome di Annibale-Berlusconi alle porte e da una continua fuga di chi ha capito che in quel partito non c’è prospettiva. La sortita di Veltroni, con un documento sottoscritto da settantacinque parlamentari, è stata scomunicata come intempestiva e improvvida. Ma è del tutto normale e inevitabile. A sinistra hanno cambiato leader come Liz Taylor cambiava mariti, per giungere alla fine ad un “Nuovo Ulivo”, che è pari pari il vecchio, una sorta di sagrada union contro Berlusconi, comprensiva della nouvelle vague dei “grillini”.
A fronte di simile furibonda giostra, di tutti contro tutti, c’è il più grave di tutti i tradimenti, quello degli intellettuali. Alcuni sono schierati come pezzi di scacchi sulla scacchiera, altri si perdono in osservazioni e critiche prudenti, cerchiobottistiche, tanto inconcludenti quanto interessate. Nessuno vuole compromettersi al punto da dover dare poi spiegazioni o procedere a pentimenti.
E intanto il desiderio di una bonifica generale, di un nuovo ricominciamento, si fa sempre più forte e pressante nei cittadini. Gli unici veramente traditi.
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domenica 12 settembre 2010

La politica non può essere la sentina degli italiani

Nel corso di questa settimana, 6-12 settembre 2010, cinque episodi, quasi uno al giorno, hanno mostrato il livello di degrado in cui è precipitata la politica in Italia.
L’attore-regista Michele Placido, irritato per le critiche al suo film “Gli angeli del male”, in cui narra le imprese del bandito Renato Vallanzasca, criminale pluriomicida negli anni Settanta, ha detto che in Parlamento c’è di peggio.
L’on. Angela Napoli di Futuro e Libertà ha detto che alcune parlamentari del PdL, nelle elezioni del 2008, pur di essere inserite in lista con la sicurezza di essere elette, si sono prostituite.
Il Presidente della Camera Gianfranco Fini, rispondendo ad Enrico Mentana, nel corso di un’intervista su "La 7", ha detto che in politica non si tradisce, si cambia.
Il Senatore a vita Giulio Andreotti, nel corso della trasmissione “La storia siamo noi” su Rai Due di giovedì 8 settembre, ha detto a Gianni Minoli a proposito dell’avv. Giorgio Ambrosoli, ucciso l’11 luglio 1979 da un sicario di Michele Sindona, che in fondo quella morte se l’andava cercando.
Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dalla Russia, dove partecipava ad un convegno sulla democrazia, ha insolentito la magistratura italiana e Gianfranco Fini.
Cinque episodi di cinismo e spudoratezza che hanno investito la politica. Le parole di Michele Placido sono passate quasi inosservate, come se fosse di pubblico e accettato dominio che in Parlamento ci siano o ci possano essere elementi peggiori del pluriomicida Renato Vallanzasca, il quale con due-tre colpi di pistola in fronte si sbarazzava del malcapitato che gli capitava davanti. A qualche debole rimostranza Placido ha risposto che lui fa il regista come altri fanno i giornalisti: racconta la realtà italiana. E no! Raccontare la criminalità è un dovere del cronista, e nell’esercizio di questo dovere sono caduti tanti giornalisti, sotto il fuoco della mafia e del terrorismo politico; ma esaltarne le gesta, con racconti accattivanti, giocando con l’artifizio della retorica, è un’altra cosa. Dire poi che in Parlamento c’è gente peggiore di Vallanzasca è un oltraggio all’istituzione, a prescindere da qualsiasi altra considerazione.
La sortita dell’on. Napoli è sconcertante. Subito dopo le elezioni, quando Beppe Grillo accusò che in Parlamento era arrivata qualche zoccola, lei fu una delle diciannove risentite che querelarono il comico. Dunque in Parlamento, oltre a criminali peggiori di Vallanzasca, secondo il Placido pensiero, ci sono anche zoccole, secondo il Grillo pensiero, condiviso in ritardo da una che, essendo parte in causa e non essendo davvero appetibile, come zoccola voglio dire, non si sa di chi parla.
Diversa ma non meno grave è la sortita di Fini, secondo cui il tradimento non riguarda la politica. Si sapeva che il Presidente della Camera fosse digiuno di libri. Rauti, ai suoi dì, glielo disse: caro Gianfranco il tuo problema è che hai letto meno libri di quanti io ne abbia scritti. Ora, con gli ultimi fatti che lo hanno riguardato e con la sua teoria sul tradimento, si sa anche che è digiuno di qualsiasi principio etico. Neppure Machiavelli si era spinto a negare il tradimento in politica, si era limitato a piegarlo agli interessi dello Stato. Fini è piuttosto l’uomo del Guicciardini, come Francesco De Sanctis lo desunse dai suoi famigerati “Ricordi”. L’uomo, cioè, che risponde alla più guicciardiniana delle categorie: il “particulare”. Che non è da intendersi in senso storiografico, dove ha una sua importanza metodologica, ma in senso politico, come ricerca del proprio esclusivo interesse.
Inqualificabile la battuta del Senatore a vita Giulio Andreotti, che, con cinica indifferenza, ha offeso una delle più illustri vittime del dovere civile in Italia. Che il più volte capo del governo democristiano fosse un ammiratore del mafioso Sindona lo si sapeva, ma che potesse arrivare al punto di offendere la memoria di una delle più limpide figure dell’impegno civile fino al sacrificio è davvero intollerabile. Claudio Magris gli ha augurato di dare conto a Dio di questo insulto; mentre altri, meno credenti, vorrebbero che gli fosse revocata la nomina di Senatore a vita per indegnità.
Berlusconi, ancora una volta dall’estero, dove bisognerebbe sempre esportare le immagini più belle dell’Italia – lo dice pure lui quando sta di aria – è tornato ad insolentire la magistratura e ad abbandonarsi a battute ironiche su Fini. A prescindere se a torto o a ragione, certo non era né la sede né il momento per sbattere sotto gli occhi di tutti i panni sporchi di casa.
Sembrerebbe una settimana particolare, purtroppo da un po’ di tempo in qua le settimane passano tutte così, tra insulti e diffamazioni della peggiore specie. La politica italiana non brilla certo di grandi esempi di onestà, di limpidezza, di lealtà, ma insultarla quotidianamente ad ogni occasione, in ogni luogo, impunemente, è un brutto segnale.
Lo Stato democratico si caratterizza per la libertà che riconosce ai cittadini, i quali possono esercitarla come meglio credono; ma se essi non dimostrano un minimo di maturità politica e civile non è improbabile che prima o poi da qualche parte si invochi lo Stato etico, quello che oggi processerebbe Michele Placido ed Angela Napoli per oltraggio alle istituzioni; Fini e Andreotti per indegnità a ricoprire cariche così esemplarmente importanti per la vita della nazione; e sanzionerebbe Berlusconi per aver danneggiato ancora una volta l’immagine dell’Italia all’estero.
Chi ricopre una carica pubblica, chi svolge un’attività pubblica o tesa al pubblico, non dovrebbe mai dimenticare quel profilo educativo che è la forza etica di chi ha responsabilità; dovrebbe sempre rendersi conto di dove si trova e dell’opportunità di dire o di non dire qualcosa. Se il buon esempio in Italia non lo danno le figure apicali, a qualsiasi livello, dal Presidente del Consiglio alla maestra di scuola materna, chi dovrebbe allora preoccuparsi di educare i giovani, di preparare una classe dirigente migliore? Se in Parlamento si è tra assassini e puttane – ed è considerato un fatto normale che qualcuno lo dica pure – se la politica è il refugium peccatorum, se il Presidente della Camera teorizza il tradimento come normale pratica politica, se un funzionario dello Stato ucciso perché ha voluto compiere fino in fondo il suo dovere di uomo e di cittadino, incurante perfino di avere moglie e figli, viene addirittura deriso da un mostro sacro della politica come Giulio Andreotti, se il Presidente del Consiglio esporta all’estero le magagne della nostra politica, allora dobbiamo preoccuparci seriamente.
Qui non si tratta più di centrodestra o di centrosinistra, di voto anticipato o di riforma elettorale, ma di vera e propria bonifica. La politica non è certo il salotto buono della nazione, ma non può essere nemmeno la sua sentina.
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