domenica 28 novembre 2010

Il testamento biologico è un atto di pietas civile

Ex abrupto: sono favorevole al testamento biologico. Lo sono per senso di umanità e di solidarietà. Ritengo normale che un essere umano, nel pieno delle sue facoltà mentali e in condizioni di serenità di spirito, lasci per iscritto a testamento, tempestivamente depositato presso le autorità civili, che cosa altri, famigliari o amici, debbano fare di lui e per lui, nell’ipotesi che, giunto o trovantesi in condizioni irreversibili di sofferenza o di morte cerebrale, lui non sia più in grado di decidere per sé.
Anzitutto, i conti con la religione. La Chiesa ha ragione di fare la chiesa; avrebbe torto se facesse un’altra cosa. Fa benissimo, dunque, ad essere contro l’aborto, contro ogni forma di procreazione forzata, contro matrimoni tra gay, contro ogni comportamento innaturale, contro ogni forma di interruzione della vita che non sia quella voluta dalla natura, che lei identifica nel Signore Iddio.
Quando la Chiesa aveva anche il potere giudiziario e lo esercitava direttamente o attraverso il potere politico, che la stessa condizionava, puniva i peccatori come criminali. Più o meno come fanno oggi l’islamismo ed ogni altro stato teocratico. Oggi la Chiesa ha solo il potere di dire. Chi vuole ascoltare, ascolti; e se no faccia pure quel che vuole. Se la vedrà con Dio!
Conserva, tuttavia, una notevole capacità di influenzare le scelte del potere politico nelle sue varie articolazioni. Non solo in Italia. Pensiamo agli Stati Uniti d’America, dove un candidato alle presidenziali vince o perde a seconda del suo legame coi valori della Chiesa. Ma in nessun paese del mondo un politico al governo si mette deliberatamente contro la religione. Se lo fa, non dura.
In Italia non siamo sempre all’equiparazione del peccato col reato. Lo Stato non punisce chi non crede in Dio, chi fornica, chi desidera la donna o la roba degli altri. Punisce chi ruba, chi uccide, chi rende falsa testimonianza. Ma ci sono moltissimi casi in cui il discrimine tra peccato e reato non è così netto. In questi casi lo Stato sbaglia a seguire la posizione della Chiesa, perché diversi sono i suoi compiti.
L’essere umano nella sua essenzialità di vita risponde a pulsioni ed esigenze che non possono non prescindere da altro. Nessuna legge, dello Stato o della Chiesa, può stabilire quando devo mangiare, quando devo dormire, quando devo lavarmi, quando devo digerire e via di seguito. Sono esigenze, queste, che dipendono dalla fisiologia e in parte dalla volontà. I cittadini hanno diritti naturali che lo Stato dovrebbe garantire come diritti positivi.
Un diritto naturale potrebbe essere la morte. L’individuo può sentire l’esigenza di morire, quando è nelle spire del dolore o quando è malato e per lui, ridotto al puro stato vegetativo, non c’è possibilità alcuna di superare la fase del male che lo sta conducendo inevitabilmente a morte.
L’uomo respinge istintivamente il dolore, fa di tutto per alleviarlo; lo sopporta quando sa che c’è un dopo. Il dolore è un’offesa alla vita, per quanto faccia parte della stessa. Quando diventa condizione senza possibilità alcuna di venirne fuori, porre fine al dolore è il più naturale di tutti gli istinti. Quando, pur senza avvertire dolore, si è corpi privi di raziocinio e di volontà, è più che giusto porre fine all’inutile sofferenza propria e dei famigliari.
Implorava Jacopone: “O Segnor, per cortesia, manname la malsanìa”, perché voleva soffrire per poter espiare le sue colpe. Implorava una vita di sofferenza, lunga, lunga, lunga, per poter soffrire di più e peggio. Jacopone non sarebbe mai stato per l’eutanasia, ovvero per la dolce morte per evitare di soffrire inutilmente. Non solo perché riteneva che non si soffre inutilmente, ma soprattutto perché vivere e soffrire per lui erano la stessa cosa; perché per lui soffrire doveva essere condizione di vita. Se proprio doveva morire, allora voleva essere divorato da un cane e defecato sugli sterpi.
Oggi non so quanti potrebbero pensarla come Jacopone da Todi. Sicuramente ce ne sono. Soprattutto ci sono quelli che credono che non si vive inutilmente e che neppure si soffre inutilmente. Sono i credenti, non necessariamente mistici. Di fronte ai quali chi non ha cappello per scappellarsi provveda ad averne uno, perché di fronte a persone simili la massima riverenza è ancora poca.
Ma per i più, non necessariamente materialisti e miscredenti, le cose stanno diversamente; e lo Stato dovrebbe provvedere a riconoscere le loro esigenze. E’ necessaria una legge che renda quanto meno facoltativo il diritto di fare un testamento biologico, in cui dettare le proprie volontà, relative alla fine della propria vita. Certo, non è solo una questione di sofferenza o di dolore, non ci sono solo aspetti biologici, morali e religiosi; ci sono importanti risvolti civili. La morte, procurata per testamento biologico, è sempre qualcosa che viene decisa e dunque può essere pilotata per altri interessi, patrimoniali per esempio o di altra natura, a seconda del ruolo e dell’importanza che ha il soggetto in questione. Sicché la legge dovrebbe essere ben concepita ed elaborata, in grado di prevedere ogni e qualsiasi situazione.
Una legge del genere risponderebbe a criteri, come dicevo in apertura, di umanità e di solidarietà. Di umanità, perché è dell’uomo evitar di soffrire. Di solidarietà perché non si può costringere la gente a veder soffrire e a soffrire a sua volta. Quando la vita per un essere umano tale non è, nel senso che per poter vivere ha bisogno di tante persone che lo accudiscano, di macchine sofisticatissime che lo facciano respirare e fargli battere il cuore, mentre lui, cosciente o incosciente, non è in grado di decidere e di farla finita, perché continuare? Quale diritto ho io di condizionare la vita dei miei famigliari e costringerli a tenersi in casa un corpo, che spetta solo di essere umanamente seppellito?
Il testamento biologico è un importante atto di pietas civile; un preventivo gesto di rispetto di sé, di amore per gli altri.
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