domenica 26 dicembre 2010

Riformisti gli italiani? Fesso chi ci crede

In una recente intervista il Cardinal Camillo Ruini, già capo dei vescovi italiani, ha detto che al Paese serve stabilità governativa e un governo capace di fare le riforme (Corsera, 24 dicembre). Buon ultimo!
Riforme, in Italia sembra che non si sappia dire altro. Essere riformista è come avere un salvacondotto per attraversare le linee nemiche. Guai a non esserlo! Fai la figura del minorato politico.
In realtà non c’è niente di più difficile in Italia del fare le riforme. Aggiungo: non c’è falso più falso in Italia di chi dice di volere le riforme. Che ce ne sia urgente necessità non si discute, ma che davvero gli italiani le vogliano, ho seri dubbi. Generalizzazioni a parte! Vediamo, infatti, che appena un governo ci mette mano si scatena l’inferno. Lo si è visto di recente con la riforma dell’università, famigeratamente detta riforma Gelmini, ritenuta da eminenti commentatori politici e docenti universitari se non l’optimum quanto meno una buona riforma (Angelo Panebianco, Ernesto Galli Della Loggia, Francesco Giacovazzi, Giovanni Sartori, Luca Ricolfi). Mai, in Italia, tanti nomina e tanti numina in favore di una legge. Eppure, mentre nelle aule parlamentari le sinistre si scatenavano in comportamenti ostruzionistici per evitare che la riforma passasse, nelle piazze si scatenavano i giovani, studenti e non studenti, in devastanti violenze, per lo stesso fine. Il governo ha dovuto procedere coute que coute.
Ma come? Non si dice un giorno sì e l’altro pure che occorrono le riforme? Non si è sempre detto che l’Università così com’è spende troppo e produce poco e male? Che i baroni fanno quello che vogliono, spendono e spandono danaro pubblico e promuovono docenti nell’ambito della famiglia e dell’amicato? E allora, perché ora che si vuol tentare di cambiare le cose, di fare un’Università che spenda meno e produca di più e bene; un’università non in mano ai baroni, si è contrari fino a scatenare l’iradidio? Non piace che ad occuparsi della gestione dei fondi sia un Consiglio di Amministrazione piuttosto che il Senato Accademico, a cui riservare le competenze culturali e scientifiche? Non piace la mobilità dei Rettori, per evitare incrostazioni di potere? Non piace la meritocrazia di studenti, docenti, ricercatori e dottorandi? Ma come, e di che cosa si è parlato in tutti questi anni?
La risposta sta nell’immarcescibile italianità, che è da sempre refrattaria a qualsiasi cambiamento. Basti pensare che due dei cantori dell’italianità degli ultimi tempi, ferocemente avversi al centrodestra e a Berlusconi, parlo dello scrittore Andrea Camilleri e del regista, da poco defunto, Mario Monicelli, non hanno fatto altro nei lori libri e nei loro film che esaltare la cialtroneria degli italiani. Camilleri fa abitare il suo Commissario Montalbano in una casa abusiva, praticamente sulla spiaggia; Monicelli si estasiava coi suoi sgangherati personaggi, così inconfondibilmente italiani, dei soliti ignoti, dell’armata brancaleone, di amici miei. Gli italiani sono esattamente quelli proposti da tanti film-commedia di sceneggiatori e registi.
E, allora, di che riforme si vuole parlare? Di che correttezza e legalità si vuole parlare? Di che morale privata ed etica civile? Non prendiamoci per fessi. In questo paese non è Dante l’interprete massimo, che aveva un senso tragico della vita, ma Machiavelli, il più grande scrittore di politica e insieme il più grande scrittore di commedie del suo tempo. Non sarebbe uno sproposito leggere prima la Mandragola per capire meglio il Principe.
Perché gli italiani mentono quando dicono di volere le riforme? Ma perché intanto è vizio italico criticare e protestare sempre; e siccome non si può che criticare l’esistente, ecco che tutti vorrebbero qualcosa di diverso, ergo le riforme. Intanto, si rendano o meno conto dei vantaggi dell’esistente, ci sguazzano benissimo dentro; e si trovano talmente bene che quando si ventila la minaccia di un cambiamento insorgono.
In verità ognuno in Italia ha bisogno della via preferenziale, della scorciatoia, dell’arrangiamento. Gli italiani non vogliono le riforme primo, perché non avrebbero più di che lagnarsi o di che cazzeggiare (che fine farebbero i Crozza, i Guzzanti, i Dandini, i Benigni, i Grillo e i Travaglio?); secondo, perché non ci sarebbero più per loro i mille modi per risolvere i loro piccoli e grandi problemi; terzo, perché non avrebbero più la speranza di poter ottenere ciò che per legge e correttezza non potrebbero mai avere. Il vero miracolo degli italiani è proprio la possibilità di ottenere l’inottenibile. Guai a togliere loro una simile speranza.
Una volta un signore a scuola mi raccomandò il figlio, che aveva grosse difficoltà a seguire e a studiare per vecchie lacune e ritardi ed aveva bisogno di sostegno extrascolastico per recuperare. Quando glielo dissi, quel signore mi chiese di favorirlo, ché se io avessi voluto avrei potuto farlo, nonostante le difficoltà. Cercai di fargli capire che non era possibile e gli chiesi: se uno da sé non è in grado di andare avanti, che bisogna fare? Glielo chiesi perché lui capisse e mi rispondesse che andava aiutato nel merito. E invece quello con la più grande naturalezza di questo mondo mi replicò: lo si raccomanda, no? Mi sarebbero cadute le ali se le avessi avute.
I politici, specialmente quelli che hanno fatto del riformismo la propria bandiera, sanno perfettamente che le cose stanno così. Ed ecco perché di riforme vere non ne fanno mai, sarebbe per loro l’insuccesso e la fine. Ma, nello stesso tempo, hanno paura che altri le facciano e che alla lunga la gente ne colga gli aspetti positivi. Le riforme finiscono così nelle more del dibattito e della contrapposizione politica. Vedere tanti leader della sinistra scalare i palazzi per raggiungere i tetti e mettersi a protestare coi giovani per un verso ha fatto ridere, per un altro, ha fatto sperare che qualcuno si buttasse di sotto. Dopo tutto, non sarebbe stata una grave perdita.
[ ] 

domenica 19 dicembre 2010

Se lo Stato si lascia umiliare la democrazia è morta

Le immagini di guerriglia urbana del 14 dicembre scorso a Roma hanno dell’incredibile. Carabinieri, agenti di polizia, finanzieri presi a sassate, a sprangate, a bottiglie incendiarie, selvaggiamente colpiti. Mezzi militari dati alle fiamme, con colonne di fumo che s’innalzavano fino al cielo. Auto, negozi, vetrine colpiti, incendiati; tutto in un’orgia di distruzione. Da una parte i manifestanti, che cercavano di uccidere; dall’altra, gli uomini dello Stato, che cercavano di non farsi e di non fare del male. Uno spettacolo ignobile, sconvolgente. Tutto quello che avevano ordine di fare le Forze cosiddette dell’Ordine era di subire per evitare il peggio, non per se stessi, né probabilmente per i manifestanti, ma per l’establishment politico, che si sarebbe trovato a dover gestire qualcosa di diverso di un voto di sfiducia o di fiducia in Parlamento. E difatti il cordone di uomini e di mezzi delle Forze dell’Ordine era intorno a Palazzo di Montecitorio per impedire che i manifestanti, fra cui i soliti professionisti del crimine sociale, gratuito e garantito, infiltrati o semplicemente aggregati, irrompessero nell’Aula sacra della democrazia, dove c’erano altri scalmanati, i signori politicanti, nell’inutile liturgia della conta.
A Roma, come ad Atene, come a Parigi e a Londra. D’accordo. Si vive in tutta Europa un momento terribilmente serio. Ognuno rivendica diritti, chiede sicurezza di lavoro e di reddito, di prospettiva sociale, di studio e di formazione. I giovani hanno più ragione di tutti. Ha detto il filosofo polacco Zygmunt Bauman che “C’è senza dubbio nei giovani studenti una grande rabbia, che è una mistura esplosiva di paure verso il futuro – certamente giustificate – e di una disperata ricerca – altrettanto giustificata – per scaricare l’ansia che hanno dentro” (Il Messaggero, 18 dicembre). Diventa drammatica la situazione quando si riconoscono le ragioni ma ad impossibilia nemo tenetur. Le risorse finanziarie scarseggiano, mentre la crisi sociale viene da molto lontano. In dittatura il sospetto che altri si stiano fottendo le cose che spetterebbero a te resta un sospetto; in democrazia è certezza e diventa il carburante del pensiero e dell’azione. Male io, male tutti!
In Italia non si sta né peggio né meglio di altri paesi. Le forze politiche di opposizione, fra cui gli incredibili esponenti di un vuoto “futuro” e di un'altrettanto vuota “libertà”, che per sedici anni sono stati come culo e camicia con quello che oggi definiscono il tiranno, non fanno che gufare; sperano nel tanto peggio tanto meglio. Ma non dicono che se in Italia dovesse arrivare la crisi greca o irlandese, come loro vorrebbero, i primi a venir colpiti sarebbero i cittadini che vivacchiano con uno stipendio di fame e con una pensione d’estrema unzione; gli stessi che in qualche modo sostengono i loro figli disoccupati o precari. Se lo Stato ha bisogno di soldi va sul sicuro e prende da chi non può neppure opporsi, e cioè dai lavoratori a reddito fisso.
Proprio per la gravità della situazione tutte le forze politiche avrebbero dovuto da tempo mettere da parte gli egoismi di partito e le maniacali, irrazionali, fanatiche avversioni al governo, per dare una dimostrazione di serietà e di responsabilità al popolo. E’ penoso starli a sentire tutti parlare di responsabilità e pretendere che altri facciano quel che loro per primi non fanno. Non c’è forza politica, di maggioranza e di opposizione, che non sia lacerata, spaccata, in guerra con se stessa, prima ancora di esserlo contro le altre. E pur, nel disaccordo generale, c'è chi  nelle opposizioni invoca la formazione di un Cln (Comitato di liberazione nazionale) contro il governo Berlusconi.
Pazzi e criminali! Evocano bande partigiane e formazioni salodiane, in un momento in cui abbiamo bisogno di stringerci insieme per affrontare la crisi, senza farci più male di quello che già abbiamo.
A Roma lo Stato è stato insultato, mortificato, irriso, umiliato e danneggiato e non solo per colpa dei cosiddetti dimostranti. Certo, la loro è la rappresentazione più fisica e immediata. Ma ancor più colpevoli sono quelli che erano dentro il Palazzo a trastullarsi nei giochi di chiama e conta.
I magistrati hanno fatto bene, a prescindere dalle loro intenzioni ideologiche, purtroppo ormai acquisite, a scarcerare quella ventina di ragazzi presi durante i disordini. Probabilmente non erano questi neppure i peggiori responsabili di quanto era accaduto. Dovevano prenderne alcuni e magari hanno preso i meno furbi e scaltri. Sarebbe stato cinico e ingiusto trattenerli in carcere e magari processarli e condannarli, mentre chi veramente si era scatenato nella furia devastatrice era riuscito a farla franca, solo per dire che lo Stato c’è e che funziona. No, quei ragazzi andavano liberati e restituiti alle loro famiglie, come è stato fatto. Lo Stato ha dimostrato che non c’è, proprio perché non funziona.
Uno Stato che non riesce a prevenire, che non sa reprimere difendendosi sul campo, che non sa fare giustizia di quanto è accaduto è uno Stato ostaggio di gente incapace, che si gingilla con le parole, che passa il suo tempo a tramare per personali ambizioni; più che uno Stato giuridicamente inteso, è una condizione di degrado e di disfacimento.
Se questo governo, chiaramente inadeguato – non c’è davvero bisogno d’altro per capirlo – ma non sostituibile nell’immediato, per evitare che la situazione peggiori, meritasse di essere dimissionato lo è proprio per quanto è accaduto a Roma il 14 dicembre.
Non c’è cittadino che di fronte a dei selvaggi che col volto coperto e con la spranga in mano colpivano dei poveri poliziotti o finanzieri già a terra con tutte le insegne dello Stato sotto i piedi, non c’è cittadino, dicevo, che non abbia invocato ben altre giustizie, ben altre metodiche politiche, ben altre atmosfere. E forse se quei giovani esagitati fossero riusciti ad entrare nelle sacre stanze del potere infingardo per dargli una lezione non sarebbe stato più grave dell’averglielo impedito. Anche l’indignazione vuole la sua parte.

[ ] 

domenica 12 dicembre 2010

Se la tolleranza è una maschera

Tante persone, così a modo esteriormente, nell’intimo sono in realtà intolleranti e maleducate. Mi accorsi la prima volta di questa contraddizione che è negli umani quando, assistendo allo stadio ad una partita di calcio, un amico che era il non plus ultra della compostezza, ad un’entrata spezzagambe di un giocatore della sua squadra su un avversario, si mise a ripetere sadicamente, ma senza scomporsi, “vai, ammazzalo! ammazzalo!”. Lo guardai incredulo e sbigottito. Era così elegantino, azzimato, perbene che le parole che diceva sembravano provenire da chissà dove. Va be’, era tifoso; ma era sembrato sempre così mite!
La chiave per scardinare la cassaforte delle ipocrisie di tante persone perbene, è da un po’ di anni a questa parte Silvio Berlusconi. Ma non solo lui. Se la cavano molto bene anche Bush e gli israeliani; e perfino Papa Ratzinger non c’è male! Sono chiavistelli molto efficaci.
Dico io, se uno come José Saramago, grande scrittore e premio nobel – che Dio l’abbia in gloria! – dice che è un “fatto provato che il primo ministro [Berlusconi] sia un delinquente”, che lo stesso è “uomo di cuore come può esserlo un capo mafia”, che Bush è “un maligno prodotto della natura”, che i soldati israeliani sono “specialisti di crudeltà…dottori in disprezzo che guardano il mondo dall’alto dell’insolenza che è la base della loro educazione”, che “applicano fedelmente, eseguendo gli ordini dei loro successivi governi e comandi, le dottrine genocide di coloro che torturarono, gassarono e bruciarono i loro antenati”, che Dio non esiste e “se pure esiste, quanto meno non ha mai parlato con Ratzinger”, che Papa Ratzinger è “uno che si sforza di mascherare e occultare ciò che effettivamente pensa”, che vescovi e cardinali vivono “come parassiti della società civile” e “si ritengono investiti di un potere che solo la nostra pazienza ha fatto durare” e che contro di loro “qualcuno dovrà tirare una scarpa” (Il Quaderno, 2009), perché meravigliarsi se il vicino di casa, il collega di lavoro, l’amico del circolo si esprimono con tanta maleducazione, intolleranza e violenza verbale?
Umberto Eco, quando Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, disse che volentieri se ne sarebbe andato dall’Italia. Eugenio Scalfari non fa sconti a Berlusconi e berlusconiani; e Scalfari è il più convinto nostalgico della modernità. A sentire il fotografo Oliviero Toscani ti viene di correre ad indossare una tuta per ripararti dal linguaggio tossico che t’investe senza scampo come gas nervino. E così l’architetto Massimiliano Fuksas. E si potrebbe continuare con la bella società dei cosiddetti democratici e tolleranti. E lasciamo stare i Travaglio, i Grillo, i Di Pietro ed ora anche i Bocchino, i Briguglio, i Granata. Sparano tutti ad alzo zero bordate micidiali contro gli avversari politici. Non hanno riguardi per nessuno.
A sentirli, tutti questi lupi a confessione, ti convinci che contro l’intolleranza non c’è niente da fare, è una condizione irriducibile e immodificabile. Hai voglia di leggere Voltaire o di farti una cura di letture specialistiche. Puoi arrivare alla conclusione che l’intollerante non vive bene, ma non può vivere diversamente. Non è una questione di cultura, un cercare di leggersi dentro e di eliminare la mala radice, che sai di avere e sai com’è fatta; non è neppure cosa che si può trapiantare: mi tolgo un organo malato e me ne metto uno sano. No, è qualcosa che te la devi tenere, che al limite puoi soltanto mascherare o nascondere.
Per non agitarmi più di quanto non mi capiti durante il giorno ho smesso di seguire Ballarò o Annozero, L’infedele o Vieni via con me, programmi di un’intolleranza e di una ferocia verbali inaudite nei confronti degli avversari politici. Ma non sempre mi riesce. A volte cado in qualche imboscata. Giorgio Bocca, l’altra sera, ospite di Invasioni barbariche, disse che Bruno Vespa è un servo del potere. Ma come, io ho tanta ammirazione per quel cristiano, ed ora sento che è un servo del potere? E se lui è un servo, io che lo ammiro, che sono?
Senza aver fatto nulla di male – o per lo meno così credi – mentre te ne stai in casa tua, in grazia di Dio, ti senti dire che sei un rimbambito, che non capisci niente, che sei responsabile dello sfascio e dell’immoralità che regnano in Italia solo perché voti Berlusconi. Voti, dico, non che lo condividi sempre e comunque!
Una vecchia signora ultraottantenne mi raccontava che con lei stanno freschi perché appena incominciano la musica lei si alza dalla poltrona, si avvicina al video e via raffiche di parolacce: “cornuti, svergognati; voi a Berlusconi non siete degni neppure di pulirgli i piedi!”. Ah, caro Professore, gliele cantai, l’altra sera! Beata lei, che ha un rapporto così immediato con la televisione e che, virtuali o non virtuali, se ne va a letto soddisfatta di avergliele cantate!
Non credo che piaccia a nessuno sentirsi insultare senza avere la possibilità di replicare. Replicare? Per dire che cosa? A certe aggressioni si dovrebbe rispondere con altre uguali e contrarie e semmai ancora più decisive, come la vecchia signora. Perciò, Still! Non voglio sentire più niente.
Ma l’intolleranza si annida anche nelle circostanze meno sospettabili. Ti può capitare al bar o al supermercato, sul luogo di lavoro o in attesa di farti fare una ricetta dal medico.
Non c’è possibilità alcuna di convenire su nulla. O sei contro Berlusconi o sei peggio di lui. Non ti è consentito di dire mezza parola senza essere aggrediti dalle più viete e grevi contumelie, in partenza rivolte a Berlusconi e in arrivo a tutti quelli che lo votano o che stanno dalla sua parte. Ergo, pure tu, senza un minimo di riguardo o di educazione.
Per questa gente Berlusconi è il responsabile di tutto e lo è qualunque cosa faccia o dica, dato che quello che fa e dice, lo fa e lo dice a suo esclusivo interesse e a danno e vergogna del popolo italiano.
E dall’altra parte? Dall’altra parte ci sono gli intolleranti confessi, tra cui mi pregio di stare io. Indegnamente, aggiungo. Ahimè, non ho mai trovato una maschera che mi stesse bene.

[ ] 

domenica 5 dicembre 2010

Scuola: una riforma che non s'ha da fare!

“Mio caro, ho ricevuto, finalmente, oggi, la tua amatissima cartolina, alla quale m’affretto a rispondere prima che tu parta per Torino. Qui a Napoli, noi, studenti Universitari, siamo in sciopero da circa una settimana…”.
No, la cartolina sulla quale si leggono queste parole non è stata spedita in questi giorni di recrudescenza studentesca. In prosieguo di testo, si legge: “…per la Riforma Gentile, che va mano mano applicandosi. Sono successi parecchi incidenti tra studenti fascisti e non fascisti: ci sono stati 5 o 6 feriti. Non saprei dirti il giorno della riapertura: oggi il Rettore convoca il Senato Accademico per prendere qualche disposizione a riguardo”.
La data è il 20 gennaio1925, diciassette giorni dopo il fatidico discorso alla Camera del 3 gennaio, quando Mussolini si assunse tutte le responsabilità del delitto Matteotti e diede inizio alla dittatura fascista. Non so se mi spiego! Gli studenti universitari manifestavano anche durante il fascismo, benché non ancora regime, e sempre per una riforma. E che riforma!
Nei miei cinquant’anni di scuola, da studente e da insegnante, non ricordo ministro della pubblica istruzione che non sia stato bersaglio degli studenti e della stampa avversa, spesso con epiteti gratuitamente e sommariamente ingiuriosi. Ricordo, tra i primi che mi vengono a mente, Riccardo Misasi trasformato in Misasino, Franca Falcucci in Falciucci, lo stesso Luigi Berlinguer in copertina di un settimanale di destra con le orecchie d’asino, il povero Tullio De Mauro in pubbliche lacrime, fino alla Gelmini nell’immaginetta della “Santa Ignoranza”, forse per quel volto di santarellina. Le riforme, poi, sempre ferocemente avversate. Il ’68 in Italia ebbe la sua causa scatenante nella riforma del Ministro Luigi Gui. Inutile tirarla oltre: lo sanno tutti, in Italia non si può fare mai una riforma, men che meno quella della scuola o dell’università. Gli italiani si sentono tanto commissari unici della nazionale di calcio quanto esperti di cultura e di organizzazione dell’istruzione ad ogni livello e grado. Hanno bisogno di criticare, essere contro. E’ per loro imprescindibile. Allora, guai a toglier loro la materia dell’avversare!
Tutti sono riformisti a chiacchiere, poi sacrificano ogni importante riforma alla ragion politica del momento; un po’ perché non si dicesse che la riforma l’ha fatta la parte politica avversa e un po’ perché sono nella sostanza decisamente conservatori. Intendiamoci, lo fanno sia quelli di destra nei confronti dei governi di sinistra, sia quelli di sinistra nei confronti dei governi di destra.
Con la riforma Gelmini è successo, però, un fatto nuovo o quasi. Buona parte della stampa, anche di quella che non fa sconti al governo in carica, l’ha valutata positivamente, sia pure senza molti entusiasmi. Ciononostante si sono viste cose turche, con leader anche attempati salire, tanto rischiosamente quanto comicamente, sui tetti a manifestare con gli studenti, dando chiara e netta la sensazione che la riforma universitaria era solo un pretesto.
Ora, le manifestazioni studentesche sono le più facili da organizzare. In genere vengono fatte da eserciti di ragazzi che partecipano in maniera acritica perché l’età e le circostanze fanno loro approfittare di giornate festose, graziosamente giustificate. Gli organizzatori sono sempre gli studenti più svogliati, quando non si tratta di agitatori che fanno le prime prove politiche a scuola. Le stesse che dal ’68 in poi sono state istituzionalizzate, attraverso assemblee di classe e di istituto, elezioni scolastiche, partecipazione ai consigli d’istituto, che hanno sottratto tempo prezioso alle attività didattiche, e alla fine, in virtù del loro ruolo gli organizzatori se la cavano con abbuoni vergognosi. Per dirla papale papale: c’è chi consegue il titolo di studio senza mai aprire un libro, per premio alla carriera. E’ accaduto che siano diventati perfino professori universitari.
Ciò detto, va aggiunto che gli studenti a volte hanno validi motivi predisponenti. Il più importante dei quali, oggi, è il difficile inserimento nel mondo del lavoro dopo aver conseguito la laurea. Questa difficoltà, che oggi più che in qualsiasi precedente situazione ha i caratteri della disperazione, crea negli studenti, specialmente in quelli più politicizzati o variamente ostili a Berlusconi, visto come un Paperon de’ Paperoni vizioso e sporcaccione, uno stato d’animo di rabbia, per cui non si riflette tanto sui contenuti della riforma quanto sull’inanità dello studio.
Ad essi si aggiungono i politici interessati e ovviamente i docenti, i quali dalla riforma Gelmini sono minacciati nei loro privilegi.
Non sono cose da poco. Spesso, nel regno dell’intellettualità, vivono contraddizioni spaventose. Volterriani a parole, di una intolleranza incredibile nei comportamenti e nei fatti. E’ inutile che io stia qui a citare le aberrazioni di sedi universitarie proliferanti di docenti che ricordano i nobili della corte di Versaglia, di cattedre inventate, di concorsi fasulli, di docenti senza alunni e produttori di nulla, di ricercatori che non ricercano e via di seguito, tutta gente che prende il suo bravo e congruo stipendio e si fregia dei simboli accademici. Questa gente a parole è per la riforma, perché riforma è bello. Come ogni brava persona è per il rispetto del padre e della madre, così non si bestemmia la riforma. Nei fatti, però, questa gente si arrocca e minaccia sfracelli appena sente il fiato sul collo di un qualche cambiamento.
Gli studenti avrebbero ragione di ribellarsi, di salire sui tetti e magari di sfondarli, ma non a difesa della conservazione, bensì contro. E invece, che fanno? Si lasciano strumentalizzare e inconsapevolmente fanno gli interessi dei loro parassiti. I mass media fanno il resto, esibendo nelle loro vetrine mediatiche gli improvvisati masanielli del libro e del libretto, i futuri Capanna, i quali durano la breve stagione delle cicale. Intanto i loro bravi benefici li avranno, mentre gli altri, gli anonimi, potranno sempre dire: io c’ero! Storie viste e riviste, senza che avessero insegnato mai nulla. La riforma non s’ha da fare, viva la riforma!
[ ]