domenica 26 dicembre 2010

Riformisti gli italiani? Fesso chi ci crede

In una recente intervista il Cardinal Camillo Ruini, già capo dei vescovi italiani, ha detto che al Paese serve stabilità governativa e un governo capace di fare le riforme (Corsera, 24 dicembre). Buon ultimo!
Riforme, in Italia sembra che non si sappia dire altro. Essere riformista è come avere un salvacondotto per attraversare le linee nemiche. Guai a non esserlo! Fai la figura del minorato politico.
In realtà non c’è niente di più difficile in Italia del fare le riforme. Aggiungo: non c’è falso più falso in Italia di chi dice di volere le riforme. Che ce ne sia urgente necessità non si discute, ma che davvero gli italiani le vogliano, ho seri dubbi. Generalizzazioni a parte! Vediamo, infatti, che appena un governo ci mette mano si scatena l’inferno. Lo si è visto di recente con la riforma dell’università, famigeratamente detta riforma Gelmini, ritenuta da eminenti commentatori politici e docenti universitari se non l’optimum quanto meno una buona riforma (Angelo Panebianco, Ernesto Galli Della Loggia, Francesco Giacovazzi, Giovanni Sartori, Luca Ricolfi). Mai, in Italia, tanti nomina e tanti numina in favore di una legge. Eppure, mentre nelle aule parlamentari le sinistre si scatenavano in comportamenti ostruzionistici per evitare che la riforma passasse, nelle piazze si scatenavano i giovani, studenti e non studenti, in devastanti violenze, per lo stesso fine. Il governo ha dovuto procedere coute que coute.
Ma come? Non si dice un giorno sì e l’altro pure che occorrono le riforme? Non si è sempre detto che l’Università così com’è spende troppo e produce poco e male? Che i baroni fanno quello che vogliono, spendono e spandono danaro pubblico e promuovono docenti nell’ambito della famiglia e dell’amicato? E allora, perché ora che si vuol tentare di cambiare le cose, di fare un’Università che spenda meno e produca di più e bene; un’università non in mano ai baroni, si è contrari fino a scatenare l’iradidio? Non piace che ad occuparsi della gestione dei fondi sia un Consiglio di Amministrazione piuttosto che il Senato Accademico, a cui riservare le competenze culturali e scientifiche? Non piace la mobilità dei Rettori, per evitare incrostazioni di potere? Non piace la meritocrazia di studenti, docenti, ricercatori e dottorandi? Ma come, e di che cosa si è parlato in tutti questi anni?
La risposta sta nell’immarcescibile italianità, che è da sempre refrattaria a qualsiasi cambiamento. Basti pensare che due dei cantori dell’italianità degli ultimi tempi, ferocemente avversi al centrodestra e a Berlusconi, parlo dello scrittore Andrea Camilleri e del regista, da poco defunto, Mario Monicelli, non hanno fatto altro nei lori libri e nei loro film che esaltare la cialtroneria degli italiani. Camilleri fa abitare il suo Commissario Montalbano in una casa abusiva, praticamente sulla spiaggia; Monicelli si estasiava coi suoi sgangherati personaggi, così inconfondibilmente italiani, dei soliti ignoti, dell’armata brancaleone, di amici miei. Gli italiani sono esattamente quelli proposti da tanti film-commedia di sceneggiatori e registi.
E, allora, di che riforme si vuole parlare? Di che correttezza e legalità si vuole parlare? Di che morale privata ed etica civile? Non prendiamoci per fessi. In questo paese non è Dante l’interprete massimo, che aveva un senso tragico della vita, ma Machiavelli, il più grande scrittore di politica e insieme il più grande scrittore di commedie del suo tempo. Non sarebbe uno sproposito leggere prima la Mandragola per capire meglio il Principe.
Perché gli italiani mentono quando dicono di volere le riforme? Ma perché intanto è vizio italico criticare e protestare sempre; e siccome non si può che criticare l’esistente, ecco che tutti vorrebbero qualcosa di diverso, ergo le riforme. Intanto, si rendano o meno conto dei vantaggi dell’esistente, ci sguazzano benissimo dentro; e si trovano talmente bene che quando si ventila la minaccia di un cambiamento insorgono.
In verità ognuno in Italia ha bisogno della via preferenziale, della scorciatoia, dell’arrangiamento. Gli italiani non vogliono le riforme primo, perché non avrebbero più di che lagnarsi o di che cazzeggiare (che fine farebbero i Crozza, i Guzzanti, i Dandini, i Benigni, i Grillo e i Travaglio?); secondo, perché non ci sarebbero più per loro i mille modi per risolvere i loro piccoli e grandi problemi; terzo, perché non avrebbero più la speranza di poter ottenere ciò che per legge e correttezza non potrebbero mai avere. Il vero miracolo degli italiani è proprio la possibilità di ottenere l’inottenibile. Guai a togliere loro una simile speranza.
Una volta un signore a scuola mi raccomandò il figlio, che aveva grosse difficoltà a seguire e a studiare per vecchie lacune e ritardi ed aveva bisogno di sostegno extrascolastico per recuperare. Quando glielo dissi, quel signore mi chiese di favorirlo, ché se io avessi voluto avrei potuto farlo, nonostante le difficoltà. Cercai di fargli capire che non era possibile e gli chiesi: se uno da sé non è in grado di andare avanti, che bisogna fare? Glielo chiesi perché lui capisse e mi rispondesse che andava aiutato nel merito. E invece quello con la più grande naturalezza di questo mondo mi replicò: lo si raccomanda, no? Mi sarebbero cadute le ali se le avessi avute.
I politici, specialmente quelli che hanno fatto del riformismo la propria bandiera, sanno perfettamente che le cose stanno così. Ed ecco perché di riforme vere non ne fanno mai, sarebbe per loro l’insuccesso e la fine. Ma, nello stesso tempo, hanno paura che altri le facciano e che alla lunga la gente ne colga gli aspetti positivi. Le riforme finiscono così nelle more del dibattito e della contrapposizione politica. Vedere tanti leader della sinistra scalare i palazzi per raggiungere i tetti e mettersi a protestare coi giovani per un verso ha fatto ridere, per un altro, ha fatto sperare che qualcuno si buttasse di sotto. Dopo tutto, non sarebbe stata una grave perdita.
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