domenica 25 gennaio 2015

Renziani e berlusconiani: gli allegri trasformismi


Il trasformismo, malattia endemica della politica italiana, è stato sempre argomento di studio da parte di politologi, storici e politici più virtuosi. Oggi non lo è da meno rispetto al passato. Quel che cambia è che mentre prima era considerato unanimemente un vizio o una necessità, cui si faceva ricorso nella consapevolezza di compiere comunque un’azione poco commendevole, oggi lo si considera un modo come un altro di stare in politica. Tanto per la semplice constatazione che non ci sono più i partiti, non ci sono più le ideologie; tutto è più liquido. E questo è un altro aspetto della grave crisi morale – anzi, preferisco dire culturale – che stiamo attraversando.
Come si fa a non dare ragione alla fronda dem, capeggiata dallo storico Miguel Gotor, che si ribella al più allegro e sfacciato trasformismo di Renzi? Come si fa a non dare ragione alla fronda forzista, capeggiata da Raffaele Fitto, che si rivolta contro il più cinico e arrogante trasformismo di Berlusconi? Già, come si fa? Eppure si fa, si deve fare. Perché esse sono le due ridotte, dalle quali respingere gli assalti sconsiderati di politici geneticamente trasformati, che sarebbe già più dignitoso considerare venduti anziché stupidi e incapaci di collocarsi in un cammino di civiltà politica. Fossero venduti, infatti, starebbero ancora nelle categorie tradizionali e sarebbe poco male; sono, invece, convinti assertori di nuove categorie, ancorché non ancora definite. Ma quali?
Sono figli del vuoto lasciato dalla borghesia. Secondo una lettura sociologica di Giuseppe De Rita. «Il vuoto borghese ha lentamente trascinato la società italiana verso una deriva antropologica, caratterizzata da pulsioni individuali, anche le più sfrenate, interessi personali o di singola categoria sempre più frammentati» (L’eclissi della borghesia). Sono figli del nulla, orfani delle tanto vituperate ideologie, cachielli di facile e vuota parlantina, maturati nelle scuole della didattica modulare, priva di logica consequenziale, di ordine temporale, di finalizzazione di un gesto, di un’idea, di una proposta. Sono sconosciuti in cerca di tutto ciò che li possa far conoscere. Sempre De Rita scrive: «Una prova empirica, ma molto indicativa, del fenomeno dell’eclissi borghese la si può ricavare partendo da uno sguardo attento alle liste dei candidati durante le elezioni… migliaia di nomi di aspiranti consiglieri, tutti sconosciuti. Non sappiamo se cercano pubblicità, potere, affari».
Sappiamo sappiamo! Cercano tutte queste cose; e se ce l’hanno, non le vogliono perdere. Sia i renziani che i berlusconiani sono capaci di fare colazione, pranzo e cena a base di gnocchi chiodati pur di essere ricandidati alle prossime elezioni. Non hanno altro di più importante, di più dignitoso. Sono come i cosiddetti “cornuti contenti” di una volta, i quali, pur di avere qualche beneficio dal signore del paese o di non perderlo se già ce l’avevano, erano capaci di prostituire moglie e figlie.
Per il presidente del Pd Matteo Orfini, renziano dell’ultima o della penultima ora – faccia lui! – è perfettamente normale che una trentina di senatori del Pd, renitenti all’adesione cieca alla proposta del loro segretario premier, di questo nuovo feudatario, venga sostituita, per far passare la legge elettorale, da una trentina del partito di opposizione guidato da un altro feudatario, un uomo che per la vergogna del paese è ancora in auge, dopo non solo e non tanto le condanne della magistratura, ma lo schifo dei suoi comportamenti pubblici e privati. Con quella sua faccia di cospiratore ottocentesco Orfini ha il coraggio di dichiarare: si è sempre detto che per le riforme istituzionali non contano maggioranza e opposizione, e nel momento in cui ciò accade si grida allo scandalo. Come se si trattasse del principio dei vasi comunicanti in versione politica: posti due partiti comunicanti è normale che si verifichi un passaggio di liquami, pardon di liquidi, politici ad un unico livello.
E in Forza Italia, non vanno tutti in brodo di giuggiole i berlusconiani, che si masturbano all’idea che Berlusconi sia tornato al centro del dibattito politico? Come se il fine ultimo del loro impegno politico sia il ritorno di Berlusconi, il suo pieno recupero politico, la sua restituzione a nuove porcherie! 
Il vuoto lasciato dalla borghesia per certi aspetti è causa ed effetto insieme della trasformazione antropologica di cui parla De Rita. C’è una deriva assai più complicata e grave, che ha diverse altre cause. Lo stato della politica italiana dipende sì dai cattivi esempi degli anni passati, dalla corruzione diffusa,  che fu quasi sul punto di avere un suo statuto; ma anche dall’impotenza politica di cambiare il corso di questa slavina devastante, così la chiamò agli inizi degli anni Novanta il politologo socialista Luciano Cafagna (La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia).
L’altro grande vuoto è la perdita nazionale di sovranità, seguita dalla convinzione che ormai nulla dipende dalla nostra volontà, dal nostro impegno.  E’ la conseguenza del nostro essere ormai sottomessi a dei poteri sovranazionali che ci impediscono di pensare, di riflettere e di agire secondo prospettive, di avere dei sogni politici da realizzare. Quando tutt’intorno non ci sono che muraglie insormontabili, che si chiamano Europa e globalizzazione, a cui si è aggiunto il terrorismo islamico, che ci tiene tutti in ambasce, come si può aspirare a qualcosa? Nella condizione in cui non si hanno più sogni da realizzare, mete da raggiungere, prospettive, subentra una sorta di spleen politico che annichilisce. Allora monta il sommerso. Così emergono i furbi, gli spregiudicati, i Girella del Giusti, quelli che facilmente perdono “la bussola e l’alfabeto”, o i senza memoria storica, i depurati da ogni forma di ideologia. Quanti renziani e berlusconiani non sono riconoscibili nelle categorie citate? Direi moltissimi.

Per tornare alle ragioni di quelle minoranze che non ci stanno a svendersi, ad accodarsi alle mutazioni genetiche che hanno aggredito la politica di questi ultimi vent’anni, devono prendere atto che vanno incontro alla sorte dei perdenti, di quelli, che, pur avendo ragione, sono sconfitti e mortificati dalla congiura dei tempi. Non è un caso che sia nel Pd che in Forza Italia i dissidenti gridano, urlano, minacciano, ma poi regolarmente stanno al loro posto. Come ad aspettare che passi l’eduardiana nuttata o, magari, che arrivi Godot. 

domenica 18 gennaio 2015

Il Presidente che ci vuole? Scalfitano!


Sono del parere che in questo momento più che indicare nomi per la Presidenza della Repubblica occorre indicare profili politico-istituzionali, che il futuro Presidente dovrebbe saper interpretare. Per anni abbiamo sentito che in Italia il Presidente della Repubblica non conta nulla, è poco più di un simbolo dell’unità nazionale. Gli ultimi Presidenti, direi a partire da Pertini e fino a Napolitano, hanno dimostrato che non è così. O, per lo meno, così è stato fino a quando i Presidenti sono appartenuti allo stesso partito che dominava le maggioranze governative, ossia la Democrazia Cristiana (Gronchi, Segni, Leone), o a qualche suo satellite, come il Partito liberale (Einaudi) e il Partito socialdemocratico (Saragat). Poi le cose sono cambiate.
Fu il socialista Pertini che consegnò ad un socialista, Bettino Craxi, per la prima volta nella storia della Repubblica, la Presidenza del Consiglio, sia pure con l’inganno della staffetta col democristiano Ciriaco De Mita, promessa e poi tradita dal segretario socialista con machiavellica disinvoltura. Una svolta avvertita come una scossa tellurica, specialmente dai partiti moderati e di destra. Fu il democristiano Scalfaro che non ridiede l’incarico al socialista Craxi non già per ritorsione per l’inganno subito dal suo partito ma per l’avvio di quel processo cosiddetto di Mani Pulite, che trovò Craxi con le mani sporche. E fu sempre Scalfaro a colpire il governo Berlusconi, con l’inganno del governo Dini, anticamera del governo Prodi. Fino ai giorni nostri, con l’autentica “dittatura” istituzionale di Napolitano, che di fatto è stato il domino assoluto della situazione, con scelte forti e discutibili, ma volte a tirar fuori dalle gravissime difficoltà il paese: dimissioni imposte a Berlusconi, governo Monti, governo Letta, governo Renzi. Chi può dire più che il Presidente della Repubblica in Italia è poco più di un simbolo? Credo nessuno, e nessuno più lo dice.
Il sistema politico italiano è passato dalla prima alla seconda repubblica ed è oggi in mezzo al guado verso la terza senza aver cambiato né in maniera formale né in maniera sostanziale l’assetto della Costituzione. Per cui oggi potremmo avere un Presidente appena-appena simbolo dell’unità nazionale o un Presidente decisore di scelte importanti. Tutto dipende da lui. I suoi spazi di manovra sono direttamente proporzionali alle esigenze del momento e alle sue capacità.
La posizione della destra o di quello che di essa rimane è per un Presidente di garanzia, che rappresenti l’intera nazione, che è come dire qualcuno che non c’è. La  destra che si è sempre connotata per concretezza e pragmatismo, oggi tradisce Aristotele per Platone. Dove vai a trovarlo un Presidente espressione della Nazione? Nell’Iperuranio, probabilmente; ma l’Iperuranio non esiste. In buona sostanza non sanno chi o che cosa indicare. Quando si sentono nomi come Riccardo Muti o Renzo Piano o non so chi altri, addirittura un imprenditore, sono pure scemenze. A Presiedere la Repubblica deve essere una persona prima di tutto moralmente inattaccabile, esperta di politica e di diritto, capace di intervenire con tempestività e decisione, come appunto hanno saputo fare Scalfaro e Napolitano, in presenza di crisi piuttosto gravi. Occorrerebbe uno Scalfitano. Che deve fare Muti, intonare il Nabucco? Che deve fare Piano, progettare una torre alta quanto il cielo? Ci vuole un politico, possibilmente con gli attributi, se evocarli non è un oltraggio al femminismo. Si è anche ipotizzata una donna al Quirinale. Perché no? Ma di donne all’altezza della situazione ne vedo poche; donne voglio dire che già abbiano dato prova di essere capaci di un ruolo così importante e dipendente dalle doti personali di chi lo occupa.        
Il filosofo Cacciari ha detto che il prossimo Presidente della Repubblica sarà uno di questi tre: Prodi, Amato o Mattarella. Cacciari è un uomo di grossa cultura e di notevole esperienza politica; se si è spinto ad una profezia, quanto meno ha degli elementi. Non è il caso di esprimersi né sull’uno, né sull’altro, né sull’altro ancora di questi tre. In questo momento sarebbe più la simpatia o l’antipatia a dettare un nome, oggettiva difficoltà a parte.
Un fatto appare certo: il prossimo Presidente lo designerà Renzi, il quale gioca nel Pd; e fuori del Pd oggi non c’è partita a nessun livello. Berlusconi con le sue uscite anti-comuniste si gioca gli ultimi residui di reputazione, ma non determinerà nulla. Dovrà sorbirsi l’ennesimo Presidente espresso dalla sinistra, che continuerà a tenerlo alla porta, come Gregorio VII tenne Enrico IV a Canossa. Renzi tiene Berlusconi al Nazareno. Avrebbe dovuto pensare prima, quando aveva tanto consenso da creargli imbarazzo, come lui stesso disse in un comizio dopo le elezioni del 2008. Quanto a Salvini, le sue cafonate, in continuità con Bossi, non dicono nulla di concreto. Di fatto Forza Italia e Lega sono fuori dai giochi per il Quirinale. Dovranno accontentarsi – Berlusconi almeno – di non peggiorare la propria posizione.

Il Presidente che ci vuole, dunque, deve essere un politico di lungo corso, ma dalla tenuta ideologica solida, che sappia almeno che significa “presidente di garanzia”. Questi può anche non trovare sempre il consenso degli avversari della parte politica dalla quale proviene, ma può farsi apprezzare nel suo esercizio presidenziale, quando i suoi atti vanno a beneficio di tutto il paese. Poi, può accadere che certe scelte possano coincidere con gli interessi di una parte politica piuttosto che di un’altra, ma questo è tanto inevitabile quanto non intenzionale. Se non vogliamo dire che è anche abilità di chi subisce scelte avverse di saperle tramutare a proprio favore o comunque di non tribolarsene più di tanto e guardare avanti.   

domenica 11 gennaio 2015

A destra non sono tutti "Charlie"


Alla marcia parigina di domenica, 11 gennaio, in risposta all’eccidio di “Charlie Hebdo” non ci sarà Marine Le Pen, la quale ha detto “Ie ne suis pas Charlie”. La leader dell’estrema destra francese non ha mai condiviso la satira di “Charlie Hebdo”, ritenendola, anarchica e trotzkista, dissolvente e inutilmente offensiva dei più elementari e diffusi sentimenti religiosi e nazionali. Dello stesso parere è il medievista italiano Franco Cardini, esperienza missina in gioventù, il quale in un’intervista apparsa su “La Gazzetta del Mezzogiorno” di sabato 10 gennaio, ha detto che non si possono offendere i sentimenti religiosi per il gusto di satireggiare, che Voltaire non c’entra con quel tipo di satira, c’entra piuttosto De Sade, e che perciò lui non se la sente di dire “Io sono Charlie”.
Distinguerei le due posizioni, dopo aver fatto una premessa. La destra non ha quella che si può chiamare un’avversione preconcetta per l’Islam, anzi per qualche aspetto lo condivide. Inutile star qui a dire quali sono gli aspetti condivisi. Se ne può parlare in altra sede e in un altro momento. Basti pensare ai debiti culturali che noi occidentali abbiamo nei confronti degli arabi. Come San Paolo, noi diciamo di aver debiti nei confronti dei greci, dei romani, degli arabi e di chissà quanti altri ancora. Certo, questo non basta a passar sopra ad offese e a danni, ad aggressioni e a continui tentativi di turbare la pace universale. Le azioni dell’Isis e della Jihad, che pure all’Islam si rifanno, sono terribilmente serie. Se non si assume nei loro confronti una decisione forte, si andrà incontro a chissà quale altra tragedia planetaria. Gli islamici sono in tutti i continenti e non obbediscono ad una centrale, ma sono gruppi slegati, prendono iniziative molecolari, quando vogliono, dove possono e come possono, come dimostrano le loro ultime imprese, la strage di Parigi e quella in Nigeria, dove i morti non si contano, sarebbero addirittura ventimila. Ciò che li unisce è la motivazione comune del rispetto di Allah e del suo profeta Maometto, secondo gli insegnamenti del Corano. Nella fase esecutiva ognuno per sé e Allah per tutti.   
La posizione della Le Pen si può capire. In un primo momento pare che sia stata esclusa dagli invitati alla marcia. Successivamente ha avuto un incontro con Hollande, il quale ha ribadito forte che l’islamismo non c’entra con la strage alla “Charlie Hebdo”, che è una questione di terrorismo, spostando gli obiettivi su antirazzismo e antisemitismo, quasi apposta per respingere la leader della destra. E difatti la Le Pen si è dissociata. E’ comprensibile che la destra francese non stia al gioco della sinistra, che porta avanti una politica decisamente opposta a quella della destra in materia di immigrazione e più volte ha denunciato il pericolo dell’islamizzazione del Paese, quella che lo scrittore Houellebecq chiama “La sottomissione” in un libro appena uscito e già diventato cult. E’ ancora più comprensibile che oggi la destra cerchi di monetizzare in termini di consenso elettorale la gravissima questione che si è aperta coi fatti parigini del 7 gennaio.
La posizione di Cardini è meno interessata. E’ la posizione di un intellettuale, di uno storico che ha grande senso di appartenenza culturale ma anche una grande ammirazione per la cultura araba, conosce molto bene quel mondo e ritiene di non dover esprimere giudizi sommari. 
Quel che non è condivisibile nei due – credo che moltissimi altri a destra si identifichino chi nell’uno e chi nell’altro – è che la circostanza non consente di fare tanti distinguo. Se si deve esprimere un giudizio sulla satira di “Charlie Hebdo”, dagli stessi autori ritenuta “irresponsabile” (sottotitolo della rivista), gratuitamente velenosa, disorganica e inutilmente dissolvente, è di dura condanna. Si tratta in gran parte di spazzatura. Ma qui si è di fronte ad una tragedia che si è abbattuta sul mondo occidentale, sui suoi modelli culturali, attraverso l’attacco a quella rivista. Lo slogan “Je suis Charlie” contiene – e perciò è forte nella sua banalità – un significato importantissimo: sono Charlie nonostante io non lo condivida. Voltaire è tutto qui: non condivido le tue idee ma mi batto perché tu le possa esprimere. In condizioni normali io non mi sognerei di essere Charlie, ma in questa circostanza lo sono e lo grido. In questo momento è prioritario il pericolo che viene da un mondo che sembra non avere una patria fisica da colpire non solo per ritorsione ma anche per recidere i rapporti di rifornimento ideologico e materiale.
Hollande sa perfettamente che la situazione è grave ma non può dirlo; gli è più facile uscirsene con una menzogna, funzionale al momento. Gli altri capi di stato e di governo europei dicono la stessa cosa, consci anch’essi di dire una comoda bugia. Se dicessero la verità allora dovrebbero passare alla fase successiva, quella delle azioni, dei provvedimenti, che non sono solo di polizia, nemmeno se obbligano a mobilitare centomila agenti. Salvo che essi per realizzare la società multietnica, di cui si dicono entusiasti, non mettano in conto il sacrificio di vite umane, come quelle del 7 gennaio parigino.
La questione islamica è dannatamente seria, è frutto di decenni di errori, gravissimi singolarmente presi e nell’insieme considerati. La profezia di  Houellebecq non è frutto di islamofobia, come dicono i bugiardi minimalisti per screditare chi non la pensa come loro, ma qualcosa di fondato. E' la lettura critica di un processo reale in corso. Che l’intero mondo politico francese sarebbe più contento di avere un islamico alla presidenza della repubblica piuttosto che Le Pen, lo si vede già oggi. Nel 2022, quando secondo la profezia dovrebbe accadere, quanti elettori francesi islamici in più ci saranno e quanti francesi cristiani in meno? Si consideri che mentre i cristiani figli ne fanno pochi, gli islamici non si risparmiano. Di qui la profezia: islamici moderati + islamisti militanti e terroristi + cretinismo diffuso nei cristiani specialmente ai massimi livelli politici, ed ecco che l’apocalisse si compie.

domenica 4 gennaio 2015

Renzi balla coi lupi


Piuttosto che al monologo di Al Pacino nel film “Ogni maledetta domenica”, Matteo Renzi meglio avrebbe fatto a riferirsi all’Erwin Kostner di “Balla coi lupi”. In un passaggio di questo film, di fronte alla mancanza di piogge e al pericolo siccità, il protagonista suggerisce di ricorrere ad una danza propiziatoria. Noi meridionali le sappiamo queste cose. Non piove? Imploriamo il santo con una bella processione; e magari con la promessa di un ex voto. Le religioni, in fondo, si somigliano tutte.  
Or non è ancora un anno dal suo insediamento a Palazzo Chigi che Renzi ha già fatto ricorso più volte, in presenza di scandali romani tipo “mafia capitale” o assenteismo dell’ottantatré per cento dei vigili nella notte di capodanno, alle solite battute propiziatorie: “non deve accadere più”, “occorre cambiare il regolamento”. Brutto segno quando uno si ripete, ancor più brutto se si ripete continuamente. Vuol dire che ha ben poco da dire, ancor meno da fare. Se le sue parole fossero fondate, dovremmo dedurre che in Italia non ci sono leggi che combattano la corruzione, che contrastino l’assenteismo di “lavoratori” così importanti e strategici come sono i vigili urbani in una grande città, anzi nella città per eccellenza, l’Urbe, nella notte più importante dell’anno.
Non apparteniamo all’italica genìa di chi gode delle nefandezze pubbliche quando al governo c’è una forza politica avversaria. Tra Mussolini che voleva spezzare le reni alla Grecia e i tanti che ridono al fatto che non riuscì a farlo, noi stiamo sempre con Mussolini. Sicché ci dispiace che certe cose accadano, a prescindere da chi c’è al governo. Non diversamente sarebbe accaduto se ci fossero stati elementi di destra. Berlusconi, Alemanno, Polverini, se ci siete battete un colpo con una mano e con l’altra prendete un sasso e battetevi il petto.
Vero è che certi fenomeni di cialtronismo e di criminalità organizzata hanno avuto in Italia una lievitazione e proliferazione spaventose a partire dal secondo dopoguerra, in coincidenza della democrazia repubblicana, al punto che s’incomincia a dubitare se mai saremo in grado di recuperare una condizione da cristiani; nel senso di cittadini normali. La democrazia, che è una gran bella cosa, forse la migliore organizzazione politica di un paese, ha prodotto in Italia una serie di guasti, facendo perdere addirittura le coordinate della legalità, della correttezza, del senso del dovere, ad ogni livello, all’interno della famiglia, nell’ambito del lavoro, nella società, nella stessa chiesa. Tutti pretendono tutto, senza obbligo alcuno nei confronti di nessuno. A riflettere – e ogni tanto dovremmo farlo – c’è veramente da allarmarsi. Incomincia a venir meno perfino la fiducia in  noi stessi, pur critici arrabbiati di certi fenomeni.
Per tornare a Renzi, è di tutta evidenza ormai che le scoppole più forti non gli sono giunte finora dalle opposizioni politiche, da ridere sia quelle di destra che quelle di sinistra, ma dalla gente, appunto da quelli del “mondo di mezzo”, magnifica trovata per indicare quella terra di nessuno tra i poveracci (mondo di sotto) e i nababbi (mondo di sopra), conquistata da chi ha capito che in questo paese le leggi, l’etica, i sentimenti sono optional, che servono ad operare meglio per il male. Renzi non ha nulla da temere da Berlusconi, che finge di stare all’opposizione, nulla dai suoi alleati del Nuovo centro destra, che non stanno nella pelle per questa indiscussa loro posizione; nulla dai suoi rivali del Pd, dai Bersani, dai Cuperlo, dai Fassina, dai Civati, i quali da buoni cani che abbaiano, poi non mordono. E difatti ogni tanto sbraitano contro ma poi regolarmente votano la fiducia al governo di chi il giorno dopo si prende beffe di loro.
I veri lupi, coi quali Renzi deve ballare senza farsi divorare, sono gli italiani. Come quelli che popolano le selve del malaffare tinto di volontarismo filantropico, di buonismo sociale, di volontà rifondatrice dell’Italia. Come i vigili urbani di Roma ma non solo – magari si trattasse solo di Roma! – i quali, per protesta per essere stati trasferiti da un rione all’altro, o per cialtroneria congenita, mettono a rischio-disordine la capitale d’Italia. Come quelli che chiudono le rovine di Pompei alle migliaia di turisti accorsi da tutto il mondo per ammirarle. E si potrebbe continuare all’infinito.
Che devono pensare gli stranieri di questo nostro disgraziato paese? Dove neppure chi siede più in alto si accorge del degrado anche culturale in cui si è precipitati?
A giorni si apriranno le danze per la successione a Napolitano. Il quale, nel suo messaggio di Capodanno, si è detto soddisfatto perché la riforma delle istituzioni è stata avviata, alludendo alla riforma del Senato. Ma si è ben guardato dal dire che forse la più importante di tutte le riforme istituzionali è quella dell’elezione del Presidente della Repubblica, se non altro per evitare che accadano spettacoli indecorosi, come la sonora trombatura di Romano Prodi da parte di 101 parlamentari del Pd. Pubblica nefandezza che Renzi ha promesso che non accadrà più, della serie delle danze propiziatorie. Dimentico che quei 101 lupi che sbranarono il povero Prodi erano guidati da lui. Sì, proprio da lui!