domenica 26 dicembre 2021

Elezione del Presidente della Repubblica: il popolo escluso

Fra un mese circa – mentre scriviamo siamo alla fine dell’anno – si apriranno le danze per l’elezione del Presidente della Repubblica. Più di mille rappresentanti del popolo si daranno appuntamento per cercare di individuare chi eleggere per i prossimi sette anni. Sono i grandi elettori. Da questa importante kermesse il popolo italiano è escluso. Resta incerto e dubbioso per tutta la durata, ad assistere a improbabili combinazioni parlamentari, tese a far convergere su un nominativo la maggioranza dei voti. Al massimo si appassiona tifando, temendo, auspicando. Nel frattempo – e il frattempo inizia almeno tre-quattro mesi prima – vengono “bruciati” uno dopo l’altro illustri e meno illustri supposti candidati. E accade perfino che qualche “bruciato” venga recuperato al rinverdimento dell’elezione, così come un foglio di giornale fatto a pezzi e poi ricomposto in un sim sala bim nelle mani del prestigiatore di turno. Per Mattarella fu Renzi. Si capisce da queste considerazioni, che vengono universalmente accettate e ripetute, basta leggere le cronache che le riguardano, che il garbuglio è grande. E aggiungo: grave. Perché il Presidente della Repubblica non può essere il risultato di alchimie politiche, incomprensibili perfino agli stessi protagonisti, figurarsi al popolo. In una democrazia il popolo è sovrano. Lo dice la Costituzione all’art. 1. Ma “forme e limiti” dell’esercizio di questa sovranità, costituzionali anch’essi, fanno sì che di fatto il popolo italiano riceva ogni volta il Presidente della Repubblica con una formula tanto astrusa nel suo farsi azione quanto messianica nel risultato. L’operazione che porta all’elezione del Presidente è delicata, ne va delle scelte politiche degli anni successivi. Per questo le forze politiche cercano di accaparrarsi una copertura importante per i loro giochi di potere, per i loro obiettivi di governo. Avere al Quirinale un presidente amicus, una specie di lord protettore, può essere determinante, soprattutto in occasione delle crisi di governo quando è facoltà del Presidente sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, così avvantaggiando o danneggiando uno schieramento o l’altro. Fino al momento in cui questa convergenza non è trovata il Presidente della Repubblica è un signore sconosciuto, un qualunque fra almeno una dozzina di altri qualunqui. Dopo l’elezione diventa, come per incanto, il salvatore della patria, appunto come si diceva, il messia. Così è successo per i precedenti presidenti. E va bene che fra un Pertini e un Cossiga, uno Scalfaro e un Ciampi, un Leone e un Napolitano, le differenze, non solo caratteriali, erano tante e assai marcate. “Forme e limiti”, dunque, dell’elezione appaiono discutibili, per quanto assolutamente costituzionali. Si veda il Titolo II (artt. 83-91). Fatta questa dovuta premessa, oggi ci troviamo, come si diceva in apertura, a dover eleggere il successore di Sergio Mattarella. Costituzione alla mano, Mattarella potrebbe pure essere rieletto. Lui dice di non essere disponibile e più volte ha detto che, a suo modo di vedere, il Presidente della Repubblica non dovrebbe essere rieleggibile, come prima di lui hanno detto i presidenti Antonio Segni e Giovanni Leone. Ed auspica una correzione della Costituzione in questo senso. Tuttavia oggi le cose stanno diversamente e, come già è accaduto col suo predecessore Giorgio Napolitano, Mattarella potrebbe essere rieletto e facilitare lo snodo politico che si è andato determinando. La sua rielezione appare oltre che legittima sul piano formale anche opportuna sul piano politico. Centrale è la presenza-disponibilità di Mario Draghi di poter restare alla Presidenza del Consiglio. Da tutto il mondo, interno ed esterno, si riconosce che in un anno al governo Draghi è riuscito a trovare più di una quadra (pandemia, Pnrr) e che perciò appare più che opportuno che resti al suo posto fino alle nuove elezioni, nel 2023. Questo semplifica – ma si fa per dire – l’elezione del Presidente della Repubblica, che, se dovesse persistere la confusione nell’individuare la persona giusta da eleggere, potrebbe pure essere lo stesso Mattarella. Un po’ come accadde con Napolitano dopo la clamorosa trombata di Prodi. Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi sembrano fatti per stare insieme, ciascuno al suo posto. Non si dimentichi che Draghi a Palazzo Chigi lo ha voluto Mattarella. Questa soluzione, che sembra quasi a portata di mano, trova ostacoli soprattutto nel centrodestra, che ad un nuovo Presidente della Repubblica mira per rompere la lunga serie di presidenti espressi dal centrosinistra. Va da sé che l’optimum sarebbe una riforma della Costituzione in senso presidenzialista, con l’elezione diretta del Presidente. I cittadini conoscerebbero per tempo i candidati e potrebbero orientarsi a ragion veduta. Non ci sarebbe più la fiera parlamentare che c’è stata dal 1948 ad oggi, ma una competizione elettorale vera, così come avviene in tante democrazie nel mondo.

sabato 27 marzo 2021

Intorno al totem Draghi passi di danza politica

 

Ad eccezione del M5S, che non riesce nemmeno a trovare più la via di casa, tanto è smarrito, gli altri partiti, di destra e di sinistra, hanno inscenato intorno al totem Draghi una sorta di danza per propiziare per alcuni, per scongiurare per altri. Da una parte il Pd e la Lega, che cercano di sembrare più draghiani di Draghi; dall’altra Leu e Fratelli d’Italia che rimarcano le distanze e accusano Draghi di essere un governo secondo Leu orientato a destra, secondo FdI orientato a sinistra, comunque nel solco del precedente. A latere i nostalgici del Conte 2, i quali non risparmiano battute ironiche sul governo dei migliori.

Ad attrarre l’attenzione, per ovvi motivi, sono i due partiti guida dei due schieramenti. Sia Enrico Letta che Matteo Salvini lanciano segnali a Draghi, in attesa che in qualche modo il Presidente del consiglio risponda dando loro l’opportunità di dire: siamo noi i più vicini al governo, siamo noi che comandiamo. Letta, per esempio, ha tirato fuori lo Jus soli. Immediatamente Salvini ha ribattuto che proporlo in questo momento vorrebbe dire far cadere il governo. Draghi si è guardato bene dal rispondere. Il che ha fatto pensare che il governo è più d’accordo con Salvini. Avete visto? Comandiamo noi. Ma quando poi il leader della Lega ha detto che non è pensabile chiudere il Paese per tutto il mese di aprile come Draghi aveva disposto per contenere la pandemia e quando questi ha risposto che a stabilire se il Paese va chiuso o meno sono i dati epidemiologici, ecco che a strumentalizzare le parole di Draghi è stato Letta, secondo cui il Presidente del Consiglio ha voluto dare una bacchettata a Salvini. Insomma si va avanti così, non con la politica ma con la sua messa in scena.

Sul versante degli oppositori sia la Meloni che i dissidenti di Leu continuano ad accusare il governo Draghi di non essere diverso dal precedente governo, sbilanciato a sinistra secondo Meloni; di essere ostaggio della destra di Salvini secondo il dissidente di Leu Nicola Fratoianni. Dove, chiaramente, le esagerazioni da una parte e dall’altra sono funzionali alla motivazione politica di opposizione. Se no, perché opporsi?

In realtà il governo Draghi ha messo in mora la politica ed essa si è impoverita. Non ha usato parole brutali, non è nel suo stile, ma quando ha raccomandato a tutti i ministri e sottosegretari di non parlare se non per annunciare cose fatte, ha voluto far capire che “qui, d’ora in poi, non si parla di politica, ma si lavora”. Alla base, dunque, di questo non esaltante passaggio della nostra storia, non c’è un dibattito vivo e motivato da forti contrapposizioni. Vale il qui ed ora dei vari provvedimenti, mentre non mancano le ambiguità di prospettiva.

Sul versante sinistro non si capisce bene a cosa mirino i due partiti, Pd e M5S, che fino alla vigilia della chiamata di Draghi al governo erano fortemente intenzionati a dar vita ad un solo soggetto, che guardava a Giuseppe Conte come al punto di equilibrio. Cosa che è costata la segreteria a Luca Zingaretti, accusato di essere troppo accondiscendente verso i grillini e di aver svenduto il partito. Oggi il M5S tace, mentre il Pd, per bocca di Enrico Letta, parla di un’intesa fra i due partiti con il Pd nel ruolo di guida, ovvero in rapporto rovesciato rispetto a prima. Nasce da qui il rinnovato attivismo del Pd, dopo aver trovato in Letta un leader indiscusso, mentre l’altro, il M5S, per ora è silente e confuso, imbrigliato in una serie di questioni interne che hanno anche poco a che fare con programmi, linee e prospettive, come il contenzioso con la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio.

A destra la situazione è ancora più ambigua. Fratelli d’Italia, che non ha voluto entrare nel governo Draghi e ha scelto di stare all’opposizione, mentre non risparmia attacchi al governo, di cui fanno parte i suoi “alleati”, Lega e Forza Italia, continua a dire che in prospettiva non cambia niente nello schieramento di centrodestra, oggi divisi domani insieme, essendo le tre componenti, Lega, FdI e Forza Italia, unite verso la meta, tese cioè a conquistare la maggioranza parlamentare alle prossime elezioni e a fare finalmente insieme il governo di centrodestra organico.

Se consideriamo che prima del rinnovo del Parlamento c’è l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica capiamo come di questa situazione così povera e avvilente ne avremo ancora per un bel po’. Nel frattempo a farla da padrona c’è l’epidemia, che per ora continua ad imperversare, mentre la vaccinazione di massa, molto annunciata, stenta a decollare.

sabato 20 marzo 2021

Così parlo Draghi

 

Stava incominciando a farsi strada la narrazione di un Draghi silente, con commenti da parte di chi non ha condiviso la nascita del suo governo piuttosto acidi e beffardi. E, invece, nel giro di pochi giorni Draghi ha parlato. Lo ha fatto il 12 marzo al centro vaccinale di Fiumicino, il 18 marzo al cimitero di Bergamo per commemorare le vittime da Covid e nella conferenza stampa di venerdì sera, 19 marzo. Nelle tre circostanze ha confermato il suo stile, sobrio ed essenziale, le sue vedute di sostanziale pragmatismo. Ha mantenuto la promessa: prima fare e poi parlare. Un modo, questo, rivoluzionario in un ambiente solitamente fatto di annunci, di slogan e di propaganda, come è quello italiano.

Il suo linguaggio è stato schietto e aderente alle cose indicate, cioè ha chiamato le cose col loro nome, dando l’impressione quasi di incapacità di parlare obliquamente. A proposito delle cartelle esattoriali ha detto che si tratta di condono, parola in genere tabù per i politici italiani, ma ha anche aggiunto che si è fatto ciò che si poteva fare per il bene dei cittadini interessati e del Paese, mediando con quanti, Lega e Forza Italia, avrebbero preteso che l’abbattimento fosse più generalizzato ed esteso. E a chi gli chiedeva delle impuntature di Salvini, l’ex Presidente della Bce rispondeva con una lezione di galateo politico. Quando si è in una coalizione di diversi ognuno deve saper rinunciare con buon senso ad una porzione delle proprie convinzioni di bandiera. Gli otto anni passati alla Banca centrale europea gli hanno sicuramente affinato l’abilità di mediare fra spinte e interessi diversi, per trovare l’interesse dell’istituzione, ovvero di tutti.

Sul più spinoso problema del vaccino AstraZeneca, sospeso per tre giorni in seguito ad alcune morti per trombosi e poi riammesso, ha sostenuto le ragioni della sospensione, ma non, come vogliono certe accuse, per accodarsi agli interessi della Germania bensì per opportunità dopo quanto era successo. La stessa Germania, che è stata la prima a chiedere agli altri governi europei la sospensione, ha agito secondo Draghi nell’interesse della popolazione e non per reconditi motivi. Cosa si poteva fare a quel punto? Spesso lamentiamo la mancanza in Europa di una visione comune delle cose, ma quando qualche volta ce l’abbiamo, ecco che ci dimostriamo nostalgici dell’essere divisi. Draghi ha rassicurato gli italiani che lui stesso si farà il vaccino AstraZeneca come già se l’è fatto suo figlio in Inghilterra, per confermarne la sicurezza e l’efficacia.

Forse sulla vicenda AstraZeneca è stato, però, meno convincente. La sospensione, infatti, se pure non è partita per interessi tedeschi, ma su questo permangono legittimi sospetti, è stata un errore, non dell’Italia ma dell’Europa. Che poteva mai rispondere l’Ema (Agenzia europea del farmaco), se non di ribadire quanto già si sapeva del vaccino? Dunque si è perso solo tempo e si è rafforzato nei cittadini il sospetto che questo vaccino è di serie b e che comunque comporta dei rischi. L’Ema, infatti, è stata esplicita: i benefici superano i rischi. Dunque i rischi ci sono. Dire che ogni farmaco procura effetti collaterali e ha controindicazioni non convince del tutto, perché un conto è assumere un medicinale quando se ne ha bisogno in presenza di una malattia conclamata un altro è assumerlo per prevenirne una, che può giungere e può anche non giungere. Ma è importante che i cittadini si facciano il vaccino anche per spirito di solidarietà di “gregge” perché non solo si premuniscono singolarmente dal virus ma contribuiscono a creare le condizioni per sconfiggerlo nel Paese. La vaccinazione di massa a questo mira.

Queste sortite di Draghi con i primi provvedimenti governativi (nuovo Comitato tecnico scientifico, decreto sostegni) provano con sufficiente visibilità che c’è stata quella tanto invocata discontinuità rispetto al governo precedente. Non è solo questione d’immagine. Draghi si è dimostrato risoluto e risolutivo, come lo ebbe a definire Mario Monti, quando ha stoppato l’esportazione di vaccini all’Australia e ha detto che se con l’Europa le cose non dovessero procedere bene nell’acquisizione dei vaccini provvederemo da soli aprendo anche al russo Sputnik. Inequivocabile è stato nel liquidare il Mes, che tanto ha fatto parlare nei mesi passati; e quando ha ribadito, a proposito dello scontro Usa-Russia, la nostra appartenenza all’europeismo e all’atlantismo.

Poi, anche lui si è fatto sedurre dagli annunci: ad aprile 500mila vaccinazioni al giorno e le scuole saranno le prime a riaprire. Vedremo!  

sabato 13 marzo 2021

Draghi, Letta e il momento degli indiscutibili

 

La chiamata di Enrico Letta al capezzale del moribondo Pd somiglia alla chiamata di Mario Draghi al capezzale della moribonda Italia: due autorevoli indiscutibili. Entrambi chiamati per mettere fine al caos delle contrapposizioni e dei reciproci sospetti dei protagonisti del dibattito politico-governativo. Mario Draghi ha messo d’accordo i partiti, ad eccezione di Fratelli d’Italia, che è rimasto fuori del concerto; Enrico Letta dovrebbe mettere d’accordo le correnti interne del Pd. Due uomini d’ordine, insomma. La forza di entrambi sta nell’essere indiscutibili, almeno in apparenza e all’inizio, nell’essere cioè accettati da tutti come arbitri sovrani, e soprattutto nella considerazione che lo stato attuale delle cose, la pandemia per l’Italia e la crisi del Pd, impone il sacrificio per un po’ di tempo del dibattito politico. Dopo, si vedrà.

Una cosa va detta subito per entrambi: nessuno dei due ha poteri taumaturgici. I cambiamenti che ci saranno appariranno lenti e quasi impercettibili. E difatti Giorgia Meloni e la stampa avversa a Draghi nostalgica di Giuseppe Conte (Il fatto quotidiano) sottolineano che finora non c’è stato nessun cambio di passo e che è solo cambiato il direttore d’orchestra mentre lo spartito e parte dei musicanti sono gli stessi. Enrico Letta ha richiamato l’attenzione dell’assemblea Pd di domenica 14 marzo sulle sue parole, su ciò che dirà, e ha suggerito di non coltivare franche ed esagerate aspettative. L’uno e l’altro invitano a tenere i piedi per terra.

Il dato più rilevante sotto l’aspetto politico è che da un po’ di anni in Italia per sbrogliare momenti difficili si ricorre all’eroe, al salvatore della patria, all’uomo della provvidenza, all’indiscutibile, al demiurgo. Questo si giustifica col fallimento della politica che sembra essersi incartata dopo la tormenta di Tangentopoli e i vari tentativi di trovare il bandolo della nuova matassa, che si può sintetizzare nell’idea berlusconiana del Popolo delle Libertà e in quella prodiana dell’Ulivo, due formazioni composite, la prima di centrodestra, la seconda di centrosinistra. Entrambe nate dalla crisi dei partiti tradizionali.

Il compito di Draghi per l’Italia sembra più facile di quello di Letta per il Pd benché incomparabili per importanza siano i due “assistiti”. Se, come si spera, si riuscirà entro l’estate a vaccinare una parte sufficiente degli italiani al punto da far raggiungere loro l’immunità di gregge, si può dire che la battaglia di Draghi è vinta. Questo obiettivo è più appariscente, meno manipolabile come risultato. Gli altri obiettivi, Recovery Plan e riforme, sono alla portata e più stemperabili; comunque secondari in ossequio al detto latino primum vivere deinde philosophari. Se Draghi riuscirà nel primo intento, cioè di vivere, ancor meglio dovrebbe riuscire nel secondo e nel terzo, cioè nel philosophari. Anche se col passare del tempo potrebbe affievolirsi la carica iniziale e potrebbero maturare nuovi scontri e intolleranze fra partiti da mettere in crisi la pax voluta da Mattarella. Due grandi eventi attendono il futuro di Draghi: l’elezione del Presidente della Repubblica e le probabili elezioni anticipate. Due eventi carichi di incognite.

Più o meno, ma su scala ridotta, è la situazione di Letta, il quale dovrà far decantare il partito, fargli raggiungere una certa normalità dialettica in vista del congresso che si annuncia per il 2023, quando le parti avranno raggiunto una certa serenità e dato alcune risposte, fra cui, la più importante, il rapporto col M5S. L’accusa che è stata fatta a Zingaretti, non del tutto destituita di fondamento, è di non aver avuto mai l’iniziativa, di essersi sempre accodato alle scelte di altri e di aver quasi subordinato il Pd al M5S. Letta perciò dovrà prima di tutto recuperare la centralità nel rapporto con l’alleato e la capacità di indicare una direzione seguita poi dagli altri. Molto del risultato della sua credibilità dipenderà da questo. Va detto che il compito non è facile stante la frammentarietà del partito che presenta più capi che sèguiti. Una situazione davvero paradossale se si pensa che l’uscita di Bersani (Leu, corrente di sinistra), e poi quella di Renzi (Italia Viva, corrente per così dire di destra), avevano lasciato più compatto quello che doveva essere il nucleo centrale del partito, non più frazionabile. Si consideri tuttavia che ormai Pd e M5S hanno intrapreso un cammino insieme e che i loro destini ormai si incrociano. Il Pd non dispera di fagocitare il M5S, magari giungendo ad una nuova formazione che li comprendesse entrambi. Da parte sua Beppe Grillo, che aveva capito dove si sarebbe potuti andare a parare, provocatoriamente, ma non troppo, aveva suggerito, prima della scelta di Letta, di essere lui il segretario del Pd. Evidente l’intento da parte di entrambi, Pd e M5S, di fare di questi due partiti una sola cosa.  

Anche per questo il compito di Letta, di salvare il Pd, è più proibitivo di quello di Draghi, di salvare l’Italia: il Pd ci può essere e non ci può essere e comunque si può discutere, l’Italia no, l’Italia è il principio e il fine di tutto.      

sabato 6 marzo 2021

Il Movimento 5 Stelle e la politica del tutto si tiene

La delusione è forte. Quella provata dai Cinquestelle per la svolta “moderata e liberale”, come l’ha definita Luigi Di Maio. Come è noto, il Movimento ha risposto positivamente all’appello del Presidente della Repubblica Mattarella e si è intruppato nella compagine governativa di Mario Draghi, il “banchiere” draculesco verbalmente giocando, insieme a Berlusconi, Salvini e il reprobo Renzi. La gran parte l’ha assorbita, se n’è fatta una ragione, anzi l’ha definita una tappa di maturità, quasi una cosa non imposta dagli eventi ma attentamente perseguita. Un’altra, di gran lunga minoritaria, no, non è proprio riuscita. E si è ribellata, votando contro le decisioni della maggioranza, verificata anche dal voto sulla piattaforma Rousseau. Non stiamo parlando degli elettori grillini, ma degli eletti e dei quadri dirigenti, per i quali vale la distinzione politologica di “credenti” e “carrieristi”.

Bisogna partire da lontano, non da molto lontano, ma se consideriamo l’età del Movimento, meno di dodici anni, sembra che sia passato un secolo. Ma “un secolo fa” grillino era di totale opposizione a tutto ciò che sapeva di establishment, a suon di vaffa, di ingiurie, insulti e anatemi tra i più volgari che mai linguaggio politico abbia conosciuto qui in Italia. Molti dei grillini erano figli di missini sfegatati (vedi Di Battista, vedi Di Maio), dei fascisti irriducibili, erano contro il sistema; e, come i loro padri, non intendevano piegarsi alle sirene del potere condiviso. Con la differenza che i missini erano esclusi, i grillini si autoescludevano e si mettevano come D’Artagnan, uno contro tutti, un po’ come la Meloni oggi. Nel 2013 rifiutarono di entrare in un governo col Pd, allora guidato da Luigi Bersani.

Ora essi, non è che non abbiano ragione, ne hanno da vendere, solo che la loro è una merce senza mercato. Nel giro di pochi anni si ritrovano in uno stesso governo con gli odiati nemici. Non nemici qualsiasi, ma nemici strutturali. Il Movimento era nato contro di loro, si giustificava contro di loro e si finalizzava annientandoli. Con Berlusconi nemmeno un saluto da lontano. Ce lo ricordiamo tutti lo psiconano! Accettare ora che stiano insieme, tutti appassionatamente, è da folli. Addirittura un tradimento colossale il doversi piegare alla “maturità” del Movimento. Come a dire: ora che si è tutti insieme il Movimento dimostra di essere finalmente maturo, moderato e liberale. Ma le ragioni dei “dissidenti” finiscono qui, con le loro ragioni in bacheca, come trofei di cui inorgoglirsi.

Quello che essi non capiscono – non si tratta che non vogliano capire, che è cosa diversa! – è che tutto ciò che si pianta nel terreno politico finisce per tralignare in qualcos’altro. È inevitabile. In meno di una legislatura il Movimento ha conosciuto le giravolte più acrobatiche. Dall’alleanza con la Lega (2018-2019) a quella con Pd, Italia Viva e Leu (2019-2020), ossia dalla destra più estrema alla sinistra edulcorata, fino all’odierno assemblearismo mattarelliano.

Nel frattempo si erano aperte crepe nel Movimento. Non sempre per nobili motivi. Alcuni non hanno inteso versare le quote mensili e per questo sono stati espulsi, andando ad ingrossare i gruppi misti di Camera e Senato, qualcuno è approdato ad altri lidi. La tanto decantata democrazia diretta, attraverso Rousseau, si è rivelata in tutta la sua inconsistenza, per l’esiguità dei votanti. Una sproporzione enorme se si considera che i gruppi parlamentari del Movimento sono ancora di gran lunga maggioritari in entrambi i rami del Parlamento. Altra cosa sono gli espulsi per disobbedienza politica.

I dissidenti vogliono organizzarsi in gruppi con tanto di nome. Hanno creato “l’alternativa c’è”, che è come un volersi radicare alle ragioni primigenie e compiacersi di un’opposizione fine a se stessa, senza sbocchi, fuori dai giochi politici che movimentano le dinamiche democratiche. In realtà in politica chi non accetta i mutamenti, può avere anche ragione sul piano etico e ricevere tutta la simpatia di questo mondo, ma dimostra di avere la sindrome di Peter Pan, ossia quella patologia secondo la quale non si vuole crescere ma piuttosto rimanere fanciulli, com’era appunto il personaggio di James M. Barrie.

Anche in questo il Movimento, almeno la componente ribelle, che non ha votato Draghi e rifiuta il moderatismo e il liberalismo di Di Maio, ricorda l’altro Movimento, il Sociale Italiano, che, in quanto reduce del fascismo, si compiaceva di stare all’opposizione in una sorta di mistica della sconfitta. Anche nel Movimento Sociale non ci volle molto per far cambiare idea a moltissimi, i quali finirono per apprezzare l’ingresso al potere nella prima metà degli anni Novanta (Fini, Berlusconi, Bossi). “Che ne abbiamo avuto – dicevano – per tanti anni all’opposizione? Ci guardavamo allo specchio e ci dicevamo: ma come siamo onesti e puliti!, mentre gli altri s’ingozzavano e si sbrodolavano”.

Ora qui non si vuol dire che la politica in Italia è solo gozzoviglio diffuso. Ci mancherebbe altro! Ma i missini di ieri e i grillini di oggi, limitatamente ai loro periodi di opposizione netta e radicale, hanno offerto un servizio al Paese e alla Politica, sì quella con la P maiuscola. Perché sarà pure vero che i missini si compiacevano dell’opposizione e i grillini della loro diversità, ma è anche vero che essi hanno dimostrato che si può fare politica con nobili intenti. Nessuna opposizione è sterile ed ogni opposizione in politica svolge un ruolo fondamentale. La realtà, purtroppo, finisce sempre per premiare i più spregiudicati, i più rotti a qualsiasi compromesso. I quali, tuttavia, non bisogna mai dimenticarlo, costituiscono la parte più pragmatica e realistica della politica e con la loro spregiudicatezza ma anche col loro impegno si fanno carico dei problemi del Paese. La politica è estrema bellezza ed estrema bruttezza. Entrambe indispensabili.          

 

mercoledì 17 febbraio 2021

Draghi, dopo l'euforia le insidie

 

L’operazione compiuta da Mattarella per il varo del governo Draghi era la migliore e forse l’unica cosa che c’era da fare, ove si escluda il voto anticipato, che però era rischioso stante l’emergenza Covid. L’operazione, però, è avvenuta in un clima politico esageratamente euforico e quasi unanimistico. Il che procura un cauto allarme. Si son visti partiti che hanno cambiato posizione non dall’oggi al domani e neppure dalla mattina alla sera ma nel volgere di poche ore. Sono caduti tutti i veti che reciprocamente si scambiavano da anni, accuse di fuoco, ingiurie personali. A rendere particolarmente incredibile quanto è avvenuto concorrono in particolare le presenze nella nuova maggioranza – sarebbe improprio parlare di coalizione – della Lega di Matteo Salvini e di Forza Italia di Silvio Berlusconi. Presenze accettate obtorto collo dal Pd ma sdegnosamente respinte dai più intransigenti del M5S e di Leu, ossia dai grillini e dai postcomunisti di Liberi e Uguali, partiti che pure compongono la maggioranza che sostiene Draghi. A destra ad opporsi sono stati i Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni, che però ha garantito un’opposizione “patriottica”.

In uno sguardo d’insieme questa legislatura mostra, con le sue tre maggioranze, diversissime, di essere stata la più schizofrenica della storia repubblicana. I vari partiti si sono combinati e scombinati in maniera incredibile come dadi nel bussolotto. Alla base di questo tourbillon c’è stata la natura parlamentare della nostra democrazia, la quale vuole che finché in Parlamento è possibile formare una maggioranza, quale che sia, non si va a nuove elezioni. Per questa ragione non fu sciolto il Parlamento nell’estate del 2019, quando la maggioranza giallo-verde entrò in crisi. Perché non si procedette a nuove elezioni, stante anche l’accesa conflittualità dei vari partiti? M5S soprattutto contro Pd, l’uno e l’altro si giuravano odio eterno neppure Annibale contro Roma. Perché si era convinti che le nuove elezioni le avrebbe vinte a mani basse la Lega di Salvini. E probabilmente sarebbe stato così. Per evitare le nuove elezioni, che erano la cosa più normale da fare in quel momento, si formò l’incredibile maggioranza giallo-rossa, M5S e Pd-Leu, sollecitata da Matteo Renzi, il quale, usciva subito dopo dal Pd, con la sua Italia Viva, e si ritagliava uno spazio di manovra tutto suo. Foriero di chissà quali manovre. Il resto lo conosciamo. Al momento opportuno Renzi ha fatto cadere il Conte 2, il giallo-rosso.

Il tentativo di trovare nel Parlamento i voti per tenere in piedi Conte, vero e proprio accanimento terapeutico, si sapeva che non sarebbe riuscito. Mattarella aveva però bisogno di questo passaggio, costituzionale, per poter dare inizio all’operazione Draghi. Intendiamoci, anche questa volta si poteva scegliere un’altra strada, quella di un governo che portasse ad elezioni anticipate. Ma non era consigliabile per i tanti e gravi problemi in essere, emergenza sanitaria, vaccinazione e Recovery plan in primis.

Nei confronti di Draghi si sono sprecate lodi come forse mai in precedenza per altri. Quasi urla di “arrivano i nostri”, in questo caso il “nostro”. A ragione, occorre dire, dato che Draghi è oggi l’italiano più noto e apprezzato nel mondo. Di lui si è detto perfino che il suo governo durerà fino alla sua elezione a Presidente della Repubblica, quando scadrà il mandato di Mattarella, ossia agli inizi del 2022, ritenendo che nessuno in Italia più e meglio di lui può ricoprire l’altissimo incarico. Sarà proprio così?

Intanto incominciamo col dire che dopo l’iniziale adesione di tutti i partiti al progetto Draghi, ad eccezione come si è detto di Fratelli d’Italia, hanno incominciato a prendere le distanze frange estremistiche all’interno di alcuni di essi. E’ accaduto nel M5S e in Leu. Non sono dissensi da poco, anche se nel M5S è difficile raccapezzarsi sull’entità dei ribelli. In Leu a prendere le distanze, fra gli altri, è il suo segretario Fratoianni, non uno qualsiasi. Insomma si stanno pericolosamente sbattendo i tappeti per far uscire tutta la polvere raccolta, operazione contraria a quella di chi pensava di nasconderla la polvere sotto di essi. La maggioranza tuttavia è così ampia che Draghi non corre nessun rischio. Ma la condizione di conflittualità alimentata da motivi forti e pregressi è un fatto che potrebbe di qui a non molto avere effetti destabilizzanti.

C’è inoltre un dato che non va sottovalutato. Draghi, a cui si riconosce anche abilità politica, ha già mostrato qualche eccentricità sul piano della comunicazione. Egli ha raccomandato a tutti di essere sobri nel parlare e di preferire il silenzio al clamore dei social. Si deve comunicare il già fatto, l’opposto degli annunci, cui in genere sono abituati i politici. Ma un conto è gestire Bankitalia o la Bce, avendo a che fare con soggetti tutti abituati alla discrezione e all’essenziale, un altro dei politici che sono invece adusi a parlare e a straparlare, cui si aggiunge la stampa che giustamente rivendica il diritto di sapere e di informare. La politica si nutre di informazione e di dibattito. Con Draghi si vorrebbe quasi sospendere la politica a beneficio dell’amministrazione e dei provvedimenti. Ma se questo si giustifica in un momento in cui c’è l’esigenza dell’operare senza i fastidiosi rumors tipici di una politica a tutto spiano, mal si concilia con le esigenze della cultura politica e con la creazione di un feeling col Paese. Questo potrebbe determinare intorno a Draghi una sorta di incomprensione, come nei confronti di un commissario straordinario dello Stato che a lungo potrebbe rivelarsi un fattore negativo. Tutto potrebbe passare se si vedessero da subito gli effetti positivi della sua opera. Ma se i risultati dovessero tardare ad arrivare o a non essere quelli delle aspettative allora l’eccessiva euforia per Draghi potrebbe tradursi in delusione. Tracciare il percorso di Draghi come scontato di qui alla sua elezione a Presidente della Repubblica potrebbe essere un azzardo.   

sabato 30 gennaio 2021

Conte si è dimesso per colpa di se stesso e di Zingaretti

E’ strano questo nostro paese. L’Italia dico. Da tempo si sapeva che il governo Conte era lento, sonnacchioso, che tirava a campare. Se n’erano accorti i partiti che lo sostenevano, i quali continuamente cercavano di dargli una scossa. Ma niente. Per giunta Conte avocava a sé la gestione del Recovery fund (209 miliardi di Euro) e non voleva mollare la delega ai Servizi. Il più accanito pungolatore era Matteo Renzi, che continuamente minacciava di togliere il sostegno facendo sfilare la sua rappresentanza dall’esecutivo. E intanto Zingaretti, segretario del Pd, la più forte componente del governo Conte dopo i Cinquestelle, che faceva? Niente! Una beata minchia. Finalmente, tira e tira, la corda si è spezzata. Renzi ha tolto il sostegno e il governo Conte è caduto. E la colpa a chi credete che sia stata data? A Renzi ovviamente. Il quale avrebbe dovuto continuare ad assistere fermo ad un governo che si caratterizzava sempre più per l’immobilità dell’azione e per la personalizzazione del potere.

E, invece, la colpa va data prima di tutto a Conte che avrebbe dovuto cambiare passo, darsi da fare di più, cedere qualcosa del suo troppo potere e per la gestione dei fondi europei rispettare non solo i suoi sostenitori di governo ma anche le opposizioni. Lui ha pensato, invece, i meriti dei fondi europei sono miei e dunque sono io a doverne beneficiare.

Ma la colpa è anche di Zingaretti, che ha dimostrato di valere nulla, di non avere un minimo di ascendente sugli alleati. Non è di adesso questa sua povertà di credito. Già il governo Conte bis fu fatto contro la sua iniziale opposizione. E’ uno che finisce sempre per accodarsi alle iniziative degli altri. Sarebbe dovuto essere lui a mettersi fra Conte e Renzi per cercare di giungere ad una soluzione dei problemi. E, invece, lui che ha fatto? In privato dava ragione a Renzi fino a quando questo non si è deciso a compiere il gesto estremo di togliere l’appoggio al governo; e nei confronti di Conte si limitava a fare dichiarazioni di nessun peso e di nessuna credibilità.

Ma neppure dopo, a governo caduto, Zingaretti ha tentato di prendere in mano la situazione. Anzi, se n’è uscito con dichiarazioni isteriche: con Renzi mai più. Senza rendersi conto di quel che diceva e soprattutto della realtà in cui si trovava. Se con Renzi mai più, allora con chi? Coi responsabili! Uno spettacolo tanto indecoroso quanto improbabile per mancanza di un numero sufficiente di volenterosi costruttori come sono stati nobilmente chiamati questi peripatetici. Cerca e ricerca, ne hanno trovati talmente pochi da aggravare la situazione; ora si ritrovano con un quinto partner al tavolo delle spartizioni. E va bene che si chiamano Europeisti! Ma cosa portano in termini di voti e di contenuti ad una ipotetica riedizione di un Conte ter questi Ciampolilli? Niente.

Al momento in cui scriviamo il Presidente della Camera Fico, su mandato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sta cercando di verificare se effettivamente si può riproporre un governo nel perimetro di quello precedente, ossia con M5S, Pd, Italia viva e Leu, più, a questo punto, gli Europeisti. Questo sarebbe maturato nelle 32 ore di colloqui tenuti dal Presidente Mattarella con i rappresentanti delle massime istituzioni e dei partiti politici.

Impossibile prevedere esiti. Renzi resta enigmatico e inattendibile. Dice continuamente cose apparentemente simili ma diverse. Non ha detto no a Conte, ma no a veti, dunque né sì né no. Dice che vuole partire anzitutto dalle componenti del governo e poi dalle cose da fare. In altri termini vuole che venga riconosciuta la legittimità della sua presenza nella coalizione di governo, e poi parlare delle cose da fare e in ultima analisi del nome del premier incaricato.

Ma se tutto dovesse concludersi con una conferma di Conte, come a questo punto sembrerebbe piegarsi la situazione, dovrebbero spiegare a che cosa è servito tutto questo ambaradam della crisi e della caduta del governo. Soprattutto in che cosa questo Conte ter sarebbe diverso dal Conte bis? Che cosa avrebbe ceduto Conte a Renzi o agli altri?

Intanto nel M5S è cresciuto il dissenso dopo le dichiarazioni del reggente Crimi di apertura di credito a Renzi. Alcuni, e tra questi Di Battista e il Presidente della Commissione Antimafia Morra, hanno dichiarato apertamente di essere contrari ad un nuovo governo con Italia viva. Dopo le sparate antirenziane di tutto il Movimento dei giorni scorsi, la virata grillina comunicata al Quirinale ha creato giusto sconcerto. Ma in politica il concetto di giusto non è di casa.

 

sabato 23 gennaio 2021

Che cosa non si fa per il bene del Paese!

La sera di martedì, 19 gennaio, resterà memorabile nella storia parlamentare dell’Italia. Uno spettacolo inverecondo. Una verifica di democrazia, la sua prova del nove. Non si dica che la democrazia è un’altra cosa. La democrazia è quella che è. Il vero democratico perciò è chi riesce a digerire simili brodaglie. Un governo, che non ha la maggioranza assoluta nel Senato, punta a prendere almeno la migliore maggioranza relativa, pur di non doversi mettere la coda fra le gambe e andare a cuccia. E fin qui nulla di eccezionale. Se ne sono viste tante. Vale lo specifico.

I numeri parlano chiaro. Occorrono 161 sì per avere la maggioranza assoluta, ma se si arriva ad una maggioranza relativa, pure di 155 sì, è sufficiente per proseguire nell’azione di governo. La maggioranza è a quota 149, considerati i presenti e gli astenuti. Dunque la caccia ai sì è asfissiante, spietata e nello stesso tempo subdola. Ogni sì è grasso che cola. Non è neppure negata. È la piazza in un giorno di mercato. C’è chi si diverte. Si scomodano metafore volgari: mercato delle vacche. Due di Forza Italia dichiarano il loro sì. Si tratta della senatrice Mariarosaria Rossi, ex “badante” di Silvio Berlusconi, e del senatore Andrea Causin. È soprattutto la prima che sconcerta per essere stata fino all’ultimo di parere diverso oltre al fatto di essere stata per anni la persona più vicina al capo di Forza Italia. Sospettare che ci sia stato lo zampino di Berlusconi è semplicemente obligé, anche se il Cavaliere assicura di non aver avuto contatti con lei da qualche tempo. Altri tre sì sono assicurati da tre senatori a vita. Altri sì vengono da provenienze diverse, dal gruppo misto. Votano per il sì Pier Ferdinando Casini, l’ex grillino Gregorio De Falco, la moglie di Mastella Sandra Lonardo. Ma, nonostante questi aiuti che si aggiungono ai voti dei partiti di maggioranza, esclusi quelli di Italia Viva che si astengono, la fiducia arriva a 154 sì, pochi perché il governo possa continuare come se nulla fosse. A questo punto accade il colpo di scena. Due senatori, che non avevano risposto né alla prima né alla seconda chiama, intendono votare dopo che la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha chiuso la votazione. Sono due senatori potenzialmente ostili al governo. Uno, il socialista Riccardo Nencini, aveva dichiarato di astenersi, l’altro un grillino espulso, Lello Ciampolillo, votano e votano sì. La fiducia raggiunge 156 voti. Non è un gran risultato, ma in tempi di magra può bastare. Il governo non è umiliato, il Senato sì.   

Quali le ragioni che hanno spinto tanti “volenterosi” ad accorrere in aiuto di un governo che di fatto non ha la maggioranza per poter continuare a governare? Se pure avesse raggiunto la maggioranza assoluta di 161 voti, la situazione che c’è nelle commissioni impedisce un regolare svolgimento dell’azione governativa. La spiegazione è sempre la stessa: dare solidità al governo, conferirgli mandato per allargare la maggioranza in senso liberale ed europeista, tenere in piedi il governo in una situazione di grave crisi sanitaria nel Paese, per senso di responsabilità nazionale insomma.

In realtà il motivo vero, grande quanto un macigno, è che nessuno vuole interrompere la legislatura con nuove votazioni. Gran parte dei senatori e dei deputati, stante anche la riduzione dei parlamentari, si rende conto di non avere alcuna possibilità di fare ritorno in Parlamento e dunque ognuno cerca di tirarla quanto più a lungo possibile. Non è un caso che proprio la componente grillina, che ha il più nutrito numero di parlamentari, è stata silente nello spettacolo del voto di fiducia. Che dovevano dire i grillini? Sono usciti in campo i Mastella, i Tabacci e i vecchi volponi della più sputtanata classe politica ex-democristiana, zoccole conclamate. Sono stati loro a tenere il campo nella circostanza, dandosi da fare a chiamare, a cercare di convincere, a portare acqua al mulino sgangherato di Conte.

Ma lo spettacolo sul versante del centrodestra non è migliore. In buona sostanza le tre componenti, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, non sono d’accordo, nonostante ostentino compattezza. La Lega vorrebbe avere la possibilità di tentare a trovare una maggioranza diversa all’interno di questo Parlamento, assumendosi la parte dei cercatori di responsabili-volenterosi-costruttori-trasformisti, che ora è del centrosinistra, un mercato delle vacche a conduzione alterna. Fratelli d’Italia vorrebbe andare a nuove elezioni. Forza Italia…non si sa in buona sostanza con chi stia, dato che è Berlusconi che più di altri parla di responsabilità nazionale, di spirito liberale ed europeista, lo stesso invocato dai contiani.

Dalla crisi, determinata dall’uscita di Italia Viva dalla compagine governativa, non ha tratto beneficio neppure Matteo Renzi, che è stato costretto a mutare atteggiamento dalla mattina alla sera, passando da una netta opposizione al governo Conte ad una disponibilità a nuovi incontri…sempre per il bene del Paese!

 

domenica 17 gennaio 2021

Crisi di governo o crisi di sistema?

 

Tanto tuonò che piovve. Questa volta è andata così. Non se ne era certi. I protagonisti della politica italiana sono in-credibili, nel senso che non sono credibili. Questa volta non si capisce davvero perché Matteo Renzi abbia voluto sfilarsi dal governo, al di là di alcune ragioni nell’immediato comprensibili e più o meno condivisibili. All’interno di una coalizione è normale fare dei rilievi, sollevare delle questioni, avanzare delle proposte. Tutto questo è nell’ordine delle cose democratiche. Ma quando si toglie l’appoggio ad una maggioranza governativa allo scopo di far cadere il governo di cui si fa parte, peraltro nel pieno di una crisi sanitaria senza precedenti da un secolo a questa parte, come è la pandemia da Covid, allora non si capisce.

Allora, per capire qualcosa, occorre cambiare il registro: lasciare quello della razionalità e del buonsenso e adottare quello dell’isterismo, del calcolo personale, del machiavellismo, quello dei personalismi, sempre narcisistici.

Ad una prima lettura, conosciuti anche gli scambi di improperi fra i protagonisti – “Conte tornerà a fare il professore” e di rimando “noi Renzi lo asfaltiamo” – la questione si presenta assurda. Mettiamoci dalla parte di Renzi. Lui dice che non preclude a nessuno di guidare un nuovo governo e lascia intendere che è pronto a riprendere la partita. Ma un altro governo, guidato o meno da Conte, stanti le parti in causa che ci sono, che garanzia dà di solidità, di sveltezza, di efficienza, tutte qualità che Renzi continua ad invocare? Nessuna, in realtà. Non è possibile che un asino da un giorno all’altro si metta a volare. Ma, intanto, Renzi è fermamente convinto che un governo con questo Parlamento è ancora possibile, meglio, peggio o uguale a quello di prima non ha importanza.

Non resta che considerare la sortita di Renzi come un tentativo di guadagnare la centralità della scena nell’ipotesi di sommovimenti nello scenario politico. Il suo partito, Italia viva, doveva raggiungere una dimensione importante, una percentuale a doppia cifra, naviga invece su un 2-3 % dell’elettorato secondo i sondaggi. Le cose – pensa – non potrebbero mai andare peggio di così, facciamo perciò un po’ di scompiglio, qualche cosa succederà.

Quel che lui non vuole di certo è il ritorno alle urne. E non vuole che si voti anzitempo perché è convinto che in quel caso la destra vincerebbe le elezioni. Lo pensa e lo dice, come se fosse una cosa normale. Stando ai sondaggi, infatti, la coalizione di centrodestra è maggioritaria nel paese. Allora c’è da porsi una domanda, molto semplice e ingenua. Un vero democratico, quale Renzi si professa, e non solo lui in verità, nel momento in cui si accorge che la maggioranza nel paese non è più quella parlamentare, non dovrebbre essere il primo a dire: signori, la volontà del Paese è mutata, è giusto, è democratico, che le si dia la possibilità di assumersi l’onore del governo del Paese. Invece no. Invece Renzi e tutti gli altri, chi esplicitamente come fa lui e chi più tacitamente, non vogliono che si voti perché non si realizzi il più democratico degli eventi: un cambio di maggioranza per volontà diretta dell’elettorato. E tutto questo come si concilia con lo spiruito democratico? Non si concilia! In politica ci sono leggi universali, democrazia o non democrazia, una è che chi ha il potere non vuole cederlo e chi non ce l’ha lo vuole conquistare. Allora la chiave non è la democrazia, ma il potere.

A fronte di quanto sta accadendo – scriviamo sabato 16 gennaio – gli scenari che si aprono non promettono nulla di buono. Già si parla di una specie di partito dei “responsabili” o, come li si è voluti nobilitare, dei “costruttori”, in una parola dei voltagabbana, dei trasformisti, degli emarginati chi per un motivo chi per un altro, chi per sua libera volontà e chi per condanna essendo stato espulso dal suo partito. Un governo del genere, se fosse possibile, sarebbe peggio di quello di prima. Renzi lo sa e difatti sta cercando di riconciliarsi, sia pure in maniera generica e confusa, andando a sbattere contro il diniego di Pd e M5S, offesissimi dall’iniziativa renziana.

Il Pd, che pure aveva avanzato critiche sull’immobilismo del governo, è più preoccupato di prima. Un governo Conte ter sostenuto dai responsabili-costruttori-trasformisti sarebbe assai peggiore di quello di prima e sta cercando di introdurre nel dibattito qualche improbabile garanzia di discontinuità. Da parte sua il partito dei responsabili-costruttori-trasformisti incomincia a puntare i piedi e a rivendicare tutta l’importanza della sua azione sostenitrice. Ha detto Clemente Mastella, il nocchiero di fatto di questo partito: attenzione, “noi siamo responsabili, ma non fessi”, temendo di essere raggirati dalla coalizione governativa. Questo pseudopartito, “suggerito” da un’espressione del Presidente Mattarella, avente tutt’altra valenza e significato, pretende di essere considerato nella dinamica governativa una componente vera e propria. Ergo, per farla a spiccioli, pretende delle poltrone. Niente per niente, nessuno fa niente. E i “responsabili”, appunto, non sono fessi!

sabato 9 gennaio 2021

Se tuona non è detto che piova

I nostri politici ci hanno abituati a tutto, ma proprio a tutto. Tanto che non solo ormai non crediamo se non vediamo ma neppure se tocchiamo. Siamo più scettici di San Tommaso, l’apostolo. Renzi sembrava Giove che con le saette in mano minacciava di sotterrare l’Olimpo. Sembrava, per tornare alla metafora della pioggia, che stesse per precipitare un acquazzone devastante, tanti erano i tuoni contro il governo Conte. E gli altri a dirgli: ma che vuoi un'altra poltrona al governo?, te la diamo, anzi, te ne diamo due, basta che la smetti di far casini. E quello: a me poltrone!, ma se io rinuncio pure a quelle che ho già! E così per settimane. Probabilmente Renzi mira a far cadere il governo Conte ma non allo scioglimento delle camere. Mira ad un governo in cui la parte del leone la farebbe lui, sia per i meriti di aver fatto cadere Conte e sia per le prospettive, che non sarebbe del tutto peregrino identificare in ritorni a ricongiungimenti in un Pd diversamente chiamato o, come direbbero i critici letterari, desemantizzato.  

Al momento in cui scriviamo [h. 15,30 del 9 gennaio] sappiamo che ieri notte c’è stato un confronto nella maggioranza ai limiti della rottura, intendiamoci non delle nostre scatole, già abbondantemente rotte, ma fra la maggioranza e l’opposizione interna, nel senso che stavano per separarsi. Non è facile indovinare che cosa accadrà. Renzi se ne sogna una al minuto secondo. Come Conte sta per accondiscendere alle sue richieste ecco che quello se ne sogna un’altra. L’ultima è il ponte sullo Stretto di Messina. E ti pareva che non sarebbe balzato fuori dal cilindro renziano anche il ponte sullo stretto! Ma questo, a dire il vero, non comporta grandi impegni, basta dire sì, poi saprà Dio a chi dare i guai. Del ponte sullo stretto si parla dai tempi di Mussolini e forse anche da prima. Sembrava quasi fatto con Berlusconi. Ora Renzi sulla scìa dei grandi italiani che prima dicono e poi rinunciano al ponte si è infilato pure lui. Il ponte sullo stretto politicamente non costa nulla, basta dire di volerlo. Non per caso Beppe Grillo, praticone come è, lo volle attraversare a nuoto lo stretto di Messina, quasi a dire: se non lo si attraversa così…campa ponte, come campa cavallo che l’erba cresce.

A questo punto sarebbe meglio per tutti, quanto meno più decoroso, che si andasse a nuove elezioni a giugno, tempo limite prima che inizi il semestre bianco, quando le camere non si possono sciogliere più.

Secondo alcuni osservatori politici, poco disinteressati a dire il vero, non sarebbe male se si votasse, perché la situazione di oggi porterebbe ad un confronto fra due schieramenti: uno di centrosinistra, compreso il Movimento Cinque Stelle, e uno di centrodestra. E non sarebbe tanto scontato il confronto (Paolo Mieli sul “Corriere della Sera del 9 gennaio). Si sarebbe riproposto, seguendo un percorso del tutto imprevisto fino a poco tempo fa, il bipolarismo dei tempi di Prodi-Berlusconi. Sì, ma dopo perché i centrosinistri dovrebbero trovare l’accordo che ora non riescono a trovare? Posto che vincessero le elezioni! E il centrodestra sarebbe veramente così coeso da garantire un governo coerente stanti differenze notevoli fra la cosiddetta destra moderna ed europea di Berlusconi e la destra sovranista di Salvini-Meloni?

Il fatto è che la crisi che stiamo attraversando è di sistema; è crisi politica. Non si può più sperare di risolverla con improbabili alchimie. Se consideriamo il centrosinistra non tardiamo ad accorgerci che le differenze fra le sue varie componenti sono quasi impercettibili, più che altro a distinguere il Pd dal Leu sarebbero solo questioni di mentalità, di carattere, e ovviamente di poltrone. Del resto prima erano insieme, come insieme era pure Renzi e la sua Italia, detta “viva” ma di fatto nata e rimasta rachitica. Più marcate le differenze fra i centrodestri, che neppure stando all’opposizione sono d’accordo tutti i giorni. Berlusconi ha già ampiamente dimostrato che quando si chiede “responsabilità” lui è il primo sia a chiederla che ad offrirla. 

I giorni o forse le ore che seguiranno ci diranno se il tanto tuonò che piovve è smentito dai comportamenti dei nostri politici, i quali ormai non li trovi mai dove li lasci. L’altra sera stavano per rompere? Nulla vieta che avessero trovato l’Attak giusto per tirare avanti alla meno peggio. Del resto fra un’ipotesi di rottura ed elezioni anticipate e una di tirare a campare, andreottianamente, potrebbe spuntarla quest’ultima.