domenica 25 maggio 2014

Europa: amore-odio, ma votiamo


Non si può escludere – è nella realtà delle cose per come si vedono e si sentono – che una consistente parte dell’elettorato non andrà a votare. Una parte di astensione è fisiologica. Al di sopra del 30 % incomincia ad essere patologica, perché vorrebbe dire che a votare sarà andato meno del 70 % degli aventi diritto, al di sotto del 65 % sarebbe gravemente patologica. A questi nostri concittadini delusi e impigriti, arrabbiati e stanchi, va rivolto un appello, va fatto un piccolo ragionamento; senza presunzione alcuna.
Prima di tutto va loro riconosciuta la legittimità dell’astensione. In fondo astenersi è un po’ come votare non votando, volendo significare il rifiuto totale, netto di una situazione che si ritiene insostenibile. Dunque, nessuna lezione di etica. Ma un invito a riflettere: ogni situazione può volgere al meglio o al peggio; e al peggio – si sa – non c’è mai un limite. Chi pensa di averlo raggiunto e si comporta secondo la logica perversa del tanto peggio tanto meglio si sbaglia.
La politica ha fatto errori imperdonabili, strumenti e forme di organizzazione politica non ci sono più, le fazioni si sono personalizzate, i protagonisti non sono più credibili e soprattutto non offrono garanzie. Mai visti in Italia leader così forti sul piano personale, così deboli sul piano politico come i tre che hanno tenuto la scena in questa campagna elettorale. Nessuno di essi è in grado di poter esercitare sul proprio seguito un potere decisionale sicuro e duraturo. Sembrano dar ragione al sociologo venezuelano Moisés Naím, il quale sostiene nel suo libro «La fine del potere» che il potere «una volta che lo si è conquistato è più difficile esercitarlo e [che] negli ultimi trent’anni le barriere del potere si sono indebolite molto rapidamente, [che] ora sono più facili da minare, travolgere e aggirare». Come dire: se è facile e rapido conquistare il potere, altrettanto facile e rapido è perderlo; difficile esercitarlo. Berlusconi, Grillo e Renzi, per rapidità di raggiungimento del potere, sembrano dare ragione a questa tesi; l’uno, l’altro e l’altro possono perdere le posizioni così rapidamente conquistate. Già Berlusconi ha iniziato il declino, potrebbero seguirlo gli altri due. Grillo, tra il comico e il serio, ha parlato di “lupara bianca” per spiegare la “scomparsa” di Enrico Letta, che sembrava l’astro nascente della politica italiana meno di tre mesi fa; e ha preconizzato a Renzi la stessa fine. Ma lui stesso non si salva da questa “coppola storta” che è ormai il potere. Potrebbe essere questo l’ultimo canto del Grillo.
Ma non andare a votare, quale che ne sia la motivazione, è rinunciare al minimo di contributo che si può dare per uscire da una situazione che potrebbe diventare drammatica. Gli scenari prospettati dalla disintegrazione dell’Europa, con l’uscita dall’Euro o addirittura con la rivendicazione delle rispettive sovranità nazionali, ottocentescamente intese, per quanto suggestive e forse anche per certi aspetti legittime, non promettono nulla di buono. Interrompere un processo politico in corso non significa ipso facto il ritorno al punto di partenza. Sarebbe come illudersi di restituire in vita una persona morta spostando all’indietro il calendario. Significa entrare nella zona del disordine generalizzato, nel regno dell’imprevisto. 
Bisogna allora votare, pur con riserve di scetticismo e di critica; anzi a maggior ragione euroscettici ed eurocritici devono andare a votare per farsi sentire nella sede opportuna, per cercare di migliorare o aggiustare certi percorsi che hanno fatto perdere fiducia nella politica italiana e nelle istituzioni europee, più appiattite su equilibri economici ed egemonie ideologiche che sulle questioni politiche e pragmatiche rispettose delle individualità nazionali.
E’ vero che noi italiani l’Europa l’abbiamo assunta come una bibita fresca, cui abbiamo dato nomi di propaganda, eurocomunismo alla Berlinguer, eurodestra alla Almirante, euroallegria alla Prodi, quando si poteva invece riflettere di più e incidere meglio, ma pensare di poter fare marcia indietro oggi è assurdo, è un rinnegare tante battaglie fatte.
Certo, non è questa l’Europa che i giovani di destra e di sinistra ipotizzavano, forse non è neppure quella pensata dai padri dell’Europa, dai De Gasperi, dagli Adenauer, dagli Schuman; ma bisogna considerare che nessun desiderio in politica si realizza completamente, tanto meno si realizza quando non ha i contorni ben precisi e si presenta come una bella infatuazione. Per anni si è gridato all’Europa, come ad un sogno; forse perché si pensava che non si sarebbe mai avverato e ci si poteva vestire di bello senza pagare un prezzo. Con l’Europa realizzata c’è stato il risveglio, cui è seguita la delusione e l’amarezza di un tradimento.

Ma votare oggi è importante. Gli italiani hanno un’ampia possibilità di scelta, tra opzioni che hanno tutte alla base l’imprescindibilità dall’Europa. Si voti per una di esse. Non votare significa voler ricadere nel sonno con la speranza di poter sognare un’altra Europa. L’opzione “non Europa”, oggi, non esiste. Buon voto a tutti!

domenica 18 maggio 2014

Se Berlusconi piange l'Italia non ride

Il caso è grave ma non eclatante. La gravità dei fatti in Italia si è sciolta come un Alka Selzer. 
Si digerisce tutto e in pochissimo tempo.
In un libro di memorie l’ex Segretario al Tesoro statunitense Thimoty Geithner ha scritto che il governo Berlusconi cadde nel novembre 2011 per un “complotto” ordito in Europa. Gli americani, invitati a prendervi parte, non ne vollero sapere. Si può considerare questa testimonianza una sorta di excusatio non petita, un mettere le mani avanti a future rivelazioni. Tutto è possibile in politica.
Questa testimonianza, al di là del suo valore in sé, vale soprattutto nel contesto, già abbondantemente noto di quanto accadde in Italia e in Europa nel fatidico 2011. Nel contesto trova formidabili riscontri. Le recenti rivelazioni di Alan Friedman col suo libro “Ammazziamo il gattopardo” non sono state smentite. E non si tratta di fesserie, ma di testimonianze, che pesano come macigni; non pettegolezzi di cameriere e autisti, ma dichiarazioni di personaggi come Carlo De Benedetti, Mario Monti, Romano Prodi.
Va da sé che qui non si sta parlando di una vittima innocente. Un re – disse Robespierre chiedendo la testa di Luigi XVI – non è mai innocente. Berlusconi non è un re, ma il capo di un governo che aveva le sue colpe e le sue pesanti responsabilità, che aveva soprattutto una debolezza sua strutturale, dopo la defezione di Fini e del suo seguito. In gioco c’era la salute del Paese, che rischiava un tracollo dalle conseguenze rovinose. Ma un complotto è sempre un complotto, indipendentemente se volto al bene; cosa peraltro sempre discutibile in politica. Se poi è ordito da soggetti stranieri, in concorso con elementi nazionali, è molto più grave. Si è in presenza della violazione della sovranità nazionale per un verso; del tradimento bell’e buono per un altro da parte di chi quella sovranità doveva difendere e tutelare, a prescindere.
Berlusconi può aver fatto – e li ha fatti – numerosi e gravi errori; può essersi macchiato di colpe assai brutte per un capo di governo; può aver dato coi suoi comportamenti esempi pessimi a italiani e stranieri; può aver irritato capi di stato e di governo con le sue chiassate e con gesti assolutamente inopportuni e ai limiti dell’offesa; ci sta pure che un personaggio come lui venga combattuto sul piano politico senza esclusione di colpi; ma non v’è dubbio alcuno che è stato massacrato da forze non sempre legittimamente ostili, direi anzi a volte pregiudizialmente ostili, nazionali e internazionali, in cui figurano protagonisti politici, intellettuali, magistrati, giornalisti, conduttori televisivi, personaggi dell’alta finanza; a volte loschi figuri, beneficiati, forse corrotti, poi rivoltatisi contro, perfino con autoaccuse. Cose mai viste in un paese come l’Italia in cui nel corso della sua storia millenaria è accaduto proprio di tutto.
La tesi del complotto perciò se non è vera è verosimile. In una recente intervista Tremonti, il Ministro dell’Economia di quel governo, è tornato sull’argomento: «Ci venne chiesto di partecipare al fondo salva-banche con il 18 % del totale. E cioè l’equivalente della nostra percentuale di Pil europeo. Sarei stato d’accordo se si fosse trattato del fondo salva-Stati, ma visto che le banche italiane erano esposte al massimo per il 5 %, ci opponemmo. A parti invertite Germania e Francia avrebbero fatto lo stesso. A quel punto Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, annunciò che la Banca europea non avrebbe più acquistato i titoli italiani, lo spread cominciò a volare e il governo Berlusconi si dovette dimettere» (“Sette” del 1° maggio 2014).
Stando a queste dichiarazioni, l’Italia di Berlusconi era contro la Francia di Sarkozy e la Germania della Merkel per una diversa valutazione su chi salvare: l’Italia voleva salvare gli Stati, la Francia e la Germania avevano interesse a salvare le Banche perché le loro erano più esposte. E sulle cause di dissidi tra l’Italia e questi due paesi si potrebbe cercare ancora in altri settori. In politica estera, per esempio. L’amicizia di Berlusconi col russo Putin non era ben vista dai partner europei e s’incominciava a temerla; gli screzi, che pure ci furono per l’aggressione disastrosa alla Libia, avevano fatto apparire Berlusconi una voce stonata nel coro europeo diretto dal duo Sarkozy-Merkel.
Sarà la storia, in tempi più distanti e sereni, a valutare le vicende del biennio 2010-2011, che portò alla crisi del governo Berlusconi e all’inizio di una stagione di anomalie democratiche. Ora prendiamo atto che se non ci fu proprio un complotto ci fu qualcosa che si somiglia. Parafrasando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa si può dire che diversi soggetti italiani ed europei sono colpevoli del reato di concorso esterno in associazione antiberlusconiana. Qualcuno può cambiare “colpevoli” in meritevoli? E’ comprensibile, purché non si neghino i fatti in quanto tali; purché nel valutare il famoso ventennio berlusconiano si tenga conto delle enormi difficoltà in cui Berlusconi ha dovuto governare; difficoltà non solo politiche ed economiche. 

Ma se Berlusconi piange, i giudici di Milano non ridono. E non ride Napolitano, che rischia di diventare sempre più il Presidente-smentita: non sa mai nulla. No, non ride neppure D’Alema, che,  per quanti sforzi abbia fatto in questi ultimi anni per darsi arie di grande politico planetario, è rimasto il comunistello che era. Sprezzantemente gaudioso quando deve registrare la disgrazia di un avversario. Se pure complotto internazionale contro Berlusconi c’è stato – dice – ringraziamo i complottisti che ce l’hanno tolto di torno. Quanta storia italiana c’è nelle sue parole di ultras ribaldo! Quasi quasi incomincia a diventarmi simpatico Renzi, che gli ha rifilato tante di quelle scoppole da farlo gareggiare con la torre di Pisa. E soprattutto non ride l’Italia, che nei suoi tentativi di rimettersi in cammino somiglia sempre più a quel famoso cormorano impantanato nel petrolio del Golfo ai tempi della prima guerra contro Saddam Hussein.

mercoledì 14 maggio 2014

Con dita intrise di sole - Poesie di Franco Ventura


Quante anime nel Salento! Quanta diversità! Uno pensa che il Salento sia Vanini, e si sbaglia; come si sbaglia se pensa che sia San Giuseppe da Copertino o Vittorio Bodini o d. Tonino Bello o Carmelo Bene. Il Salento è aperto a tutti i venti; ogni vento trasporta i suoi pollini. Ciò che nasce spesso è capriccio di incontri, di combinazioni imprevedibili; forse un minimo comun denominatore c’è, ma vallo a trovare!
Così pensavo trovandomi tra le mani il libretto di poesie di Franco Ventura, un pittore di Sannicola, che  a me ha sempre portato una ventata di leggerezza e di freschezza coi suoi pastelli, coi suoi santi “devozionali” e i suoi paesaggi dai colori vellutati, ingenui, sacrificali: a me che ho sempre l’animo in tumulto e quel che vedo e sento m’ispira asprezze di risposte, preferibilmente solitarie; e salgo sulla torre ad urlare alla luna con la speranza che da più vicino possa udirmi.
Ventura compie il miracolo di ammansire, come fa l’esperto coi cani ringhiosi. Che ce l’abbia il poeta il minimo comun denominatore? Bah! Beato lui, allora, che ha immagini e parole medicamentose!
Chiama a raccolta tutti Ventura in questo suo libro, fin dalla dedica: i genitori, i suoi cari, gli amici e lo fa con l’animo grato, perché sente di aver avuto qualcosa in dono dagli altri. Poeta è chi si sente sempre in debito. Gli altri sono una moltitudine. Lui li ha cercati e li ha trovati: Luigi Scorrano, che gli fa la prefazione, d. Luigi Ciotti che gli impreziosisce il libro con una nota, e poi tanti, tanti altri in elencazione dei nomi più significativi di cinquant’anni di arte e cultura salentina; tutti, che, per poco, o per molto hanno corrisposto alla sua amicizia. Un bel lavoro antologico, in chiusura, curato da Alessandro Errico.
Il titolo di questo suo ultimo libretto di poesie, Con dita intrise di sole (Tuglie, 5 emme, 2014) gli proviene sicuramente dal suo essere pittore. C’è un rapporto immediato tra colori e sole, gli uni dipendono dall’altro; e il pittore s’intride le dita negli uni e nell’altro.
La raccolta si divide in tre sezioni, non esplicitate ma evidenti; ognuna delle quali, infatti, si caratterizza per un diverso stato d’animo, introdotta da un pensiero tematico di un personaggio diverso: Langston Hughes, Papa Francesco e Don Tonino Bello; ed è illustrata da disegni dell’autore.
Nella prima sezione domina il dolore, a rischio di disperazione, di non credere più nei sogni. «Quando i sogni se ne vanno – dice il poeta citato in epigrafe – la vita è un campo arido gelato di neve» (L. Hughes).
I tempi sono amari e bisogna fare acrobazie per sperare. Acrobati della speranza, infatti, è il brano che apre questo primo mannello di versi. Un senso di diffusa sofferenza pervade la maggior parte delle tredici liriche. Immagini di disperazione: «la vita …si spegne in un involucro di stracci». Il poeta s’afferra «con la sola forza delle pupille / a quest’orlo di sogno / che …salva / dal risucchio dell’abisso»; il sole presto è adombrato dalle nubi; il «vento…scompiglia i … sogni / assiepati sulle rampe della notte». Parole che evocano immagini di tormento: «vomiti d’onde assassine…inghiottite urla… strazia i nostri risvegli»; le parole sono disancorate, strozzate in gola, corpi inabissati, sprofondati nei pantani; e su tutto il silenzio. Occorrono nuovi inni d’umiltà, che «il cuore potrà finalmente intonare / …/ con le sublimi armonie / delle sue pulsioni». Non v’è dubbio che la tragedia degli immigrati e il degrado sociale abbiano ispirato e influenzato il poeta e ferito il suo animo di credente e di cittadino.
E’ l’impegno civico di Ventura, che non dimentica l’Unità d’Italia, la memoria delle grandi tragedie dell’ultima guerra mondiale, l’impegno di farsi latore di sensibilità collettiva, prendendo in prestito le parole di Papa Francesco: «E’ la memoria dell’eredità ricevuta che dobbiamo, a nostra volta, trasmettere ai nostri figli», che fa tornare al poeta la positività della vita, un senso di ritrovato ottimismo. Ora il poeta «Spera che non sia pula…lo sciame dei suoi pensieri…Sogna che lasci / un pugno di brace viva / la fiammata della sua parola». Sembra che faccia il controcanto ai versi della prima sezione: tutto torna a brillare, purché si mettano da parte l’indifferenza, l’arroganza, la smemoratezza: «un sorriso mai scordato…il lieto ricordo di un evento…l’eco d’una voce cara…riporta / questo vento frizzante d’aprile».
Introdotta dalle parole di Don Tonino Bello la terza sezione sembra essere quasi il terzo tempo di una partita che il poeta gioca con se stesso e coi suoi lettori. «E’ la bellezza che salverà il mondo…Coltivate la bellezza». Al superbo rivolge l’invito a «fissa[re] lo sguardo al cielo», perché «Trivella di luce è la verità», a «Cerca[re] oltre le scaglie d’odio», ché «Se vuoi…Anche dalle più profonde feritoie / dei tuoi dubbi / germoglieranno primavere…» e «Avranno rami curvi / al peso di dolci primizie / quei germogli / che ora cercano aria / fra cumuli di trascuranza».

Probabilmente ridotta a pensieri la poesia perde fascino, suggestione e bellezza; ne guadagna in luce. Chi è aduso a cercare il senso delle parole non può accontentarsi che di questo.  

domenica 11 maggio 2014

Riuscirà il dittatore Renzi a salvare la Repubblica in pericolo?


La gloriosa Respublica Romana aveva una magistratura particolare per i tempi in cui versava in seri pericoli: la dittatura. Il Senato si sospendeva per il periodo necessario ad uscire dalla crisi dopo aver affidato tutto il potere ad un dittatore, il quale, a pericolo scampato, rimetteva la carica allo stesso Senato dal quale l’aveva ricevuta. Il più celebre di questi dittatori fu Cincinnato, il quale, richiamato “in servizio” preferì l’aratro alla spada; dittatore non si può essere che una volta.
Oggi in Italia viviamo qualcosa di simile, senza che nella Costituzione della Repubblica tanto fosse previsto e contemplato. Per una serie di congiunture economiche e politiche si è pensato di congelare la massima istituzione, quella del Presidente della Repubblica, che formalmente è stato rieletto a stragrande maggioranza di consensi. E, pur di fronte ad una sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato il Parlamento eletto con una legge incostituzionale, il Porcellum, si è andati avanti come se nulla fosse, fino a giungere all’affidamento del governo ad un signor “nessuno”. Matteo Renzi, infatti, è capo del governo con una investitura presidenziale che i costituzionalisti, non tutti e non in maniera esplicita, giudicano forzata o borderline. Per politically correct: bisogna capire.
Renzi, che nel volto e nella loquela ricorda qualche personaggio boccaccesco, si è circondato di comparse in gran parte femminili, le quali gli sono così devote che non oserebbero mai creargli dei problemi; della serie diversamente maschilista. Grillo a parte, che comunque non è configurabile come opposizione attendibile, non tanto nella qualità quanto nella quantità, non c’è opposizione. Quella di Forza Italia è, a volerla giudicare benevolmente, una mezza opposizione, dato che per le riforme appoggia il governo e si dice pronta ad appoggiarlo se il Paese dovesse trovarsi in ancor più serie difficoltà. Nel Pd nessuno osa più fiatare. Nessuno, neppure i rottamati, gli umiliati e offesi. Conviene a tutti che Renzi vada avanti, perché porta il pane a casa, fuor di metafora sembra che dal punto di vista elettorale funzioni.
Renzi, dunque, si trova ad esercitare il potere da solo; nella forma non lo è, ma in sostanza è così. Dice: in settanta giorni abbiamo iniziato le riforme e abbiamo dato ottanta euro a dieci milioni di italiani. Non è molto quanto è stato fatto, ma non è neanche poco, anche se la solita politica degli annunci, di cui fu maestro Berlusconi – ricordate lo spot televisivo con il timbro “fatto”? –, stia facendo capolino, pur nel rispettoso silenzio dei grandi elettori e dei media, tutti allineati e coperti. Ma prendiamo per credibile quanto dice il Capo e quanto subito dopo replica, con le stesse parole, il gineceo.
La situazione, tuttavia, non sfugge a nessuno: Renzi fa quello che vuole. Prende provvedimenti senza sentire le parti sociali; se qualche dissenso emerge nella sua stessa maggioranza pone il voto di fiducia e il suo provvedimento passa. Poi esce in televisione e con iattanza dice: la palude voleva fermarmi, ma non è riuscita. La palude sarebbe quella parte della sua stessa maggioranza che lo aveva costretto a porre il voto di fiducia.
In verità – bisogna sempre dire la verità! – sta crescendo una nuova idea di dirigenza politica a livello governativo, che va ben oltre i singoli provvedimenti. Non è tanto il decisionismo in sé quanto il decisionismo nella versione Renzi, qualcosa di più rapido, rude e veloce; tollerato e favorito. Renzi è riuscito a far passare l’idea che tutti, in presenza di una crisi così minacciosa come quella che stiamo vivendo, devono piegarsi a qualche sacrificio. Quando mai sarebbe stato possibile ridurre stipendi e pensioni di manager e magistrati? Che, scherziamo? Fosse stato non dico Berlusconi, ma chiunque altro in altro momento, sarebbe stato fatto fuori il giorno dopo, salvo che non fosse stato ricoverato in psichiatria il giorno prima. Renzi è riuscito.
Sta accadendo che anche per il reperimento di danaro per fare fronte ad alcune iniziative, come i dieci miliardi per gli ottanta euro in busta paga per dieci milioni di italiani, Renzi è riuscito a trovarli. Chi altri sarebbe riuscito? Nessuno. Ho sentito un esponente del Movimento 5 Stelle dire che quando certe proposte le facevano loro si rispondeva che non c’erano i soldi per farvi fronte; quando le ha fatte Renzi i soldi sono stati trovati.
Non ci si meraviglia. Accade tante volte anche in piccoli comuni che ad un sindaco gradito l’apparato dica sempre sì e rimuova gli ostacoli, ad un sindaco sgradito sempre no, e agli ostacoli veri ne aggiunge altri fittizi. Renzi, il “Sindaco d’Italia”, così lui ama definirsi, ha a disposizione quella burocrazia che in altra sede dice di voler combattere; ma intanto essa lo aiuta a fare quello che vuole. Per il bene del Paese, si capisce! La burocrazia è femmina. Che sia spaventata o conquistata da Renzi? Può essere una cosa e l’altra, entrambe sono condizioni femminili.
Dove si vuole arrivare con tutta questa premessa? Che se Renzi riuscirà nel suo intento, di trasformare questo Paese in qualcosa di moderno, di funzionale, di pulito, tanto sarà dovuto più che al suo genio politico a tutta una serie di circostanze. Voglio dire che è normale che riesca nel suo intento; non è normale che non riesca. Se tanto dovesse accadere, se, cioè, la sua dittatura non riuscisse a salvare la Repubblica dai barbari esterni e interni, vuol dire che non i mezzi gli sono mancati ma le capacità. Nessuno, infatti, ad eccezione di Mussolini, ha governato l’Italia in assenza di oppositori e con un’ampia convergenza di fattori favorevoli.

Ci sarebbe una terza spiegazione, disperante, come disperate erano le condizioni di quando Mussolini la enunciò: governare l’Italia non è né facile né difficile, è inutile. Speriamo che non sia sempre così. In fondo, ci vogliamo bene.

domenica 4 maggio 2014

Non si applaude la polizia che uccide, ma...


L’assemblea sindacale di polizia che riserva una standing ovation di cinque minuti all’ingresso di alcuni colleghi poliziotti processati e condannati per aver ucciso di botte un ragazzo a Ferrara qualche anno fa (caso Aldovrandi) è stata una dimostrazione di rivolta, un ammutinamento diversamente ambientato. Nella nave dello Stato una consistente parte dell’equipaggio si è ribellata contro i comandanti. Una cosa allarmante. Vergognosa, indegna non direi, perché nella circostanza queste parole non vogliono dire nulla. Ma le hanno dette in coro! E, allora? Nel coro si gracida come le rane nello stagno; fuori dal coro si ragiona. E qui occorre ragionare.
Vogliamo intanto chiederci per quale ragione un’assemblea di poliziotti si è comportata in questo modo. Ci rifiutiamo di pensare che in Italia la Polizia di Stato recluti delinquenti, irresponsabili, gentaglia che si diverte a menare le mani e all’occasione a uccidere ed altra che applaude.
Lo spettacolo offerto da quell’assemblea è sicuramente la spia di un malessere assai grave che va oltre l’episodio del giovane ucciso e dei poliziotti processati e condannati. Già qualche anno fa altri poliziotti avevano manifestato in difesa dei loro colleghi per lo stesso episodio proprio davanti alla casa dove abitava la famiglia di quel giovane. Qui siamo in presenza di una contrapposizione tra una parte della Polizia, che non si sente adeguatamente tutelata, e un’altra parte della società colpita dalle reazioni spesso spropositate e sproporzionate della Polizia. Una contrapposizione pericolosa che denota la situazione di crisi diffusa delle nostre istituzioni e della società nel suo complesso. Se il poliziotto è visto come un nemico da dileggiare e da colpire e se il poliziotto ritiene il cittadino che lo dileggia e lo colpisce un delinquente da eliminare sul campo vuol dire che lo Stato non è più in grado di imporre a nessuno il rispetto della legge e a garantire il mantenimento dell’ordine.  
Non è una novità che in Italia nei confronti di quanti operano nelle strutture dello Stato, dai poliziotti agli insegnanti, c’è una sorta di avversione; spesso i rappresentanti dello Stato sono considerati target sociali da colpire impunemente, nella convinzione diffusa che non possono e non devono difendersi. Un poliziotto nel migliore dei casi è considerato uno che ha il posto sicuro e che vive coi soldi della collettività senza nulla dare di produttivo; nel peggiore, uno che è servo del sistema, posto a difesa dei privilegi dei ricchi e degli sfruttatori. Una simile opinione non trova eguali in nessun paese moderno e democratico, dove il rappresentante dello Stato gode di un ben diverso rispetto ed è ben diversamente tutelato nell’esercizio delle sue delicate funzioni.    
E’ questa la ragione del ripetersi di casi in cui dei poliziotti eccedono contro dei cittadini colti in flagranza di reato; e per questo sono giustamente processati e condannati. I fatti del G8 di Genova con l’assalto alla Caserma Diaz e il pestaggio di quanti erano dentro costituiscono il punto più grave perché fu una sorta di spedizione punitiva pianificata, che è cosa inconcepibile per chi opera nei ranghi dello Stato e indossa una divisa che obbliga a comportamenti canonici.
Le regole d’ingaggio sono precise: i poliziotti sono mandati sulle piazze per proteggere certe zone o certi edifici, ma lo devono fare secondo regole che impediscono di battersi con gli assalitori alla pari; devono limitarsi a disperdere coi mezzi che sono loro in dotazione: lacrimogeni da lontano e manganelli da vicino. Dall’altra parte, invece, squadre di manifestanti con caschi e passamontagna, armati di tutto, non pongono limiti all’uso di armi, che vanno dalle bottiglie incendiarie, alle pietre, alle spranghe di ferro e ad ogni altro mezzo contundente. Lo scontro è sempre diseguale e asimmetrico. Chi ne paga le conseguenze maggiori sono i poliziotti e i cittadini che capitano in mezzo, i quali si vedono bruciare l’auto, distruggere il negozio, e spesso subire aggressioni personali.
Cosa fanno le istituzioni per tutelare sia i poliziotti, operativamente limitati nello scontro, sia i cittadini che subiscono danni? Nulla, non fanno nulla. Le manifestazioni di piazza sono contenitori di violenze impunibili. Se qualche manifestante viene preso, pur con prove inoppugnabili di aver compiuto reati contro persone e cose, viene immediatamente rilasciato e condannato a pene di nessuna entità persuadente a non commettere più quei reati o a convincere altri di astenersi dal commetterne.
E qui è il punto più importante. Si condanni pure il poliziotto che è passato materialmente sopra il corpo di una ragazza già stesa per terra, si condanni il poliziotto che ha dato qualche manganellata non proprio necessaria; ma condannate anche i delinquenti che si infiltrano in manifestazioni pacifiche per saccheggiare, distruggere e uccidere. Se lo Stato non vuole punire i delinquenti che attaccano i suoi rappresentanti e i cittadini inermi per non passare per Stato di polizia, allora non può uscirsene con un «vergognoso» o «indegno» se il sindacato di polizia lancia un messaggio di legittima protesta, sicuramente sbagliata nella forma ma efficace.
Il problema delle manifestazioni di piazza incomincia a diventare un problema serio non solo in Italia. Lasciar fare a degli scalmanati significa fare la fine dei regimi politici come quelli di Tunisia, Egitto, Libia. La Siria, per difendere lo Stato, ha scatenato una guerra civile. La Turchia ha usato le maniere forti per evitare il peggio. L’Ucraina si trova sull’orlo di un’altra assai più grave e coinvolgente guerra civile in seguito ai movimenti di piazza che qualche mese fa misero a ferro e a fuoco piazze ed edifici di Kiev costringendo il legittimo presidente a fuggire. Sulle piazze vanno delle minoranze, che, sebbene motivate da buoni e nobili propositi, possono solo rappresentare una parte della popolazione. Il che non significa che l’altra parte, la maggioranza moderata, sia d’accordo. Può essere – e il caso dell’Ucraina lo dimostra – che non lo sia affatto e che quando ritiene di non poterne più passi al contrattacco.

Lo Stato deve recuperare il senso di sé e difendere senza complessi di torto o di colpa le istituzioni e la gente. Se non lo fa, è il disordine generalizzato; è, come sta accadendo in Italia, la rivolta di chi è stanco di andare a difendere la legge e l’ordine da chi la legge e l’ordine li attacca impunemente. Se non si sana questa disparità è ridicolo, non vergognoso, strillare ogni qualvolta che la parte più colpita trovi il modo, sia come sia, di protestare.