domenica 4 maggio 2014

Non si applaude la polizia che uccide, ma...


L’assemblea sindacale di polizia che riserva una standing ovation di cinque minuti all’ingresso di alcuni colleghi poliziotti processati e condannati per aver ucciso di botte un ragazzo a Ferrara qualche anno fa (caso Aldovrandi) è stata una dimostrazione di rivolta, un ammutinamento diversamente ambientato. Nella nave dello Stato una consistente parte dell’equipaggio si è ribellata contro i comandanti. Una cosa allarmante. Vergognosa, indegna non direi, perché nella circostanza queste parole non vogliono dire nulla. Ma le hanno dette in coro! E, allora? Nel coro si gracida come le rane nello stagno; fuori dal coro si ragiona. E qui occorre ragionare.
Vogliamo intanto chiederci per quale ragione un’assemblea di poliziotti si è comportata in questo modo. Ci rifiutiamo di pensare che in Italia la Polizia di Stato recluti delinquenti, irresponsabili, gentaglia che si diverte a menare le mani e all’occasione a uccidere ed altra che applaude.
Lo spettacolo offerto da quell’assemblea è sicuramente la spia di un malessere assai grave che va oltre l’episodio del giovane ucciso e dei poliziotti processati e condannati. Già qualche anno fa altri poliziotti avevano manifestato in difesa dei loro colleghi per lo stesso episodio proprio davanti alla casa dove abitava la famiglia di quel giovane. Qui siamo in presenza di una contrapposizione tra una parte della Polizia, che non si sente adeguatamente tutelata, e un’altra parte della società colpita dalle reazioni spesso spropositate e sproporzionate della Polizia. Una contrapposizione pericolosa che denota la situazione di crisi diffusa delle nostre istituzioni e della società nel suo complesso. Se il poliziotto è visto come un nemico da dileggiare e da colpire e se il poliziotto ritiene il cittadino che lo dileggia e lo colpisce un delinquente da eliminare sul campo vuol dire che lo Stato non è più in grado di imporre a nessuno il rispetto della legge e a garantire il mantenimento dell’ordine.  
Non è una novità che in Italia nei confronti di quanti operano nelle strutture dello Stato, dai poliziotti agli insegnanti, c’è una sorta di avversione; spesso i rappresentanti dello Stato sono considerati target sociali da colpire impunemente, nella convinzione diffusa che non possono e non devono difendersi. Un poliziotto nel migliore dei casi è considerato uno che ha il posto sicuro e che vive coi soldi della collettività senza nulla dare di produttivo; nel peggiore, uno che è servo del sistema, posto a difesa dei privilegi dei ricchi e degli sfruttatori. Una simile opinione non trova eguali in nessun paese moderno e democratico, dove il rappresentante dello Stato gode di un ben diverso rispetto ed è ben diversamente tutelato nell’esercizio delle sue delicate funzioni.    
E’ questa la ragione del ripetersi di casi in cui dei poliziotti eccedono contro dei cittadini colti in flagranza di reato; e per questo sono giustamente processati e condannati. I fatti del G8 di Genova con l’assalto alla Caserma Diaz e il pestaggio di quanti erano dentro costituiscono il punto più grave perché fu una sorta di spedizione punitiva pianificata, che è cosa inconcepibile per chi opera nei ranghi dello Stato e indossa una divisa che obbliga a comportamenti canonici.
Le regole d’ingaggio sono precise: i poliziotti sono mandati sulle piazze per proteggere certe zone o certi edifici, ma lo devono fare secondo regole che impediscono di battersi con gli assalitori alla pari; devono limitarsi a disperdere coi mezzi che sono loro in dotazione: lacrimogeni da lontano e manganelli da vicino. Dall’altra parte, invece, squadre di manifestanti con caschi e passamontagna, armati di tutto, non pongono limiti all’uso di armi, che vanno dalle bottiglie incendiarie, alle pietre, alle spranghe di ferro e ad ogni altro mezzo contundente. Lo scontro è sempre diseguale e asimmetrico. Chi ne paga le conseguenze maggiori sono i poliziotti e i cittadini che capitano in mezzo, i quali si vedono bruciare l’auto, distruggere il negozio, e spesso subire aggressioni personali.
Cosa fanno le istituzioni per tutelare sia i poliziotti, operativamente limitati nello scontro, sia i cittadini che subiscono danni? Nulla, non fanno nulla. Le manifestazioni di piazza sono contenitori di violenze impunibili. Se qualche manifestante viene preso, pur con prove inoppugnabili di aver compiuto reati contro persone e cose, viene immediatamente rilasciato e condannato a pene di nessuna entità persuadente a non commettere più quei reati o a convincere altri di astenersi dal commetterne.
E qui è il punto più importante. Si condanni pure il poliziotto che è passato materialmente sopra il corpo di una ragazza già stesa per terra, si condanni il poliziotto che ha dato qualche manganellata non proprio necessaria; ma condannate anche i delinquenti che si infiltrano in manifestazioni pacifiche per saccheggiare, distruggere e uccidere. Se lo Stato non vuole punire i delinquenti che attaccano i suoi rappresentanti e i cittadini inermi per non passare per Stato di polizia, allora non può uscirsene con un «vergognoso» o «indegno» se il sindacato di polizia lancia un messaggio di legittima protesta, sicuramente sbagliata nella forma ma efficace.
Il problema delle manifestazioni di piazza incomincia a diventare un problema serio non solo in Italia. Lasciar fare a degli scalmanati significa fare la fine dei regimi politici come quelli di Tunisia, Egitto, Libia. La Siria, per difendere lo Stato, ha scatenato una guerra civile. La Turchia ha usato le maniere forti per evitare il peggio. L’Ucraina si trova sull’orlo di un’altra assai più grave e coinvolgente guerra civile in seguito ai movimenti di piazza che qualche mese fa misero a ferro e a fuoco piazze ed edifici di Kiev costringendo il legittimo presidente a fuggire. Sulle piazze vanno delle minoranze, che, sebbene motivate da buoni e nobili propositi, possono solo rappresentare una parte della popolazione. Il che non significa che l’altra parte, la maggioranza moderata, sia d’accordo. Può essere – e il caso dell’Ucraina lo dimostra – che non lo sia affatto e che quando ritiene di non poterne più passi al contrattacco.

Lo Stato deve recuperare il senso di sé e difendere senza complessi di torto o di colpa le istituzioni e la gente. Se non lo fa, è il disordine generalizzato; è, come sta accadendo in Italia, la rivolta di chi è stanco di andare a difendere la legge e l’ordine da chi la legge e l’ordine li attacca impunemente. Se non si sana questa disparità è ridicolo, non vergognoso, strillare ogni qualvolta che la parte più colpita trovi il modo, sia come sia, di protestare.

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