Quante anime nel Salento! Quanta
diversità! Uno pensa che il Salento sia Vanini, e si sbaglia; come si sbaglia
se pensa che sia San Giuseppe da Copertino o Vittorio Bodini o d. Tonino Bello
o Carmelo Bene. Il Salento è aperto a tutti i venti; ogni vento trasporta i
suoi pollini. Ciò che nasce spesso è capriccio di incontri, di combinazioni
imprevedibili; forse un minimo comun denominatore c’è, ma vallo a trovare!
Così pensavo trovandomi tra le
mani il libretto di poesie di Franco Ventura, un pittore di Sannicola, che a me ha sempre portato una ventata di leggerezza
e di freschezza coi suoi pastelli, coi suoi santi “devozionali” e i suoi
paesaggi dai colori vellutati, ingenui, sacrificali: a me che ho sempre l’animo
in tumulto e quel che vedo e sento m’ispira asprezze di risposte,
preferibilmente solitarie; e salgo sulla torre ad urlare alla luna con la
speranza che da più vicino possa udirmi.
Ventura compie il miracolo di
ammansire, come fa l’esperto coi cani ringhiosi. Che ce l’abbia il poeta il
minimo comun denominatore? Bah! Beato lui, allora, che ha immagini e parole
medicamentose!
Chiama a raccolta tutti Ventura in
questo suo libro, fin dalla dedica: i genitori, i suoi cari, gli amici e lo fa
con l’animo grato, perché sente di aver avuto qualcosa in dono dagli altri. Poeta
è chi si sente sempre in debito. Gli altri sono una moltitudine. Lui li ha
cercati e li ha trovati: Luigi Scorrano, che gli fa la prefazione, d. Luigi
Ciotti che gli impreziosisce il libro con una nota, e poi tanti, tanti altri in
elencazione dei nomi più significativi di cinquant’anni di arte e cultura
salentina; tutti, che, per poco, o per molto hanno corrisposto alla sua
amicizia. Un bel lavoro antologico, in chiusura, curato da Alessandro Errico.
Il titolo di questo suo ultimo
libretto di poesie, Con dita intrise di
sole (Tuglie, 5 emme, 2014) gli proviene sicuramente dal suo essere
pittore. C’è un rapporto immediato tra colori e sole, gli uni dipendono
dall’altro; e il pittore s’intride le dita negli uni e nell’altro.
La raccolta si divide in tre
sezioni, non esplicitate ma evidenti; ognuna delle quali, infatti, si
caratterizza per un diverso stato d’animo, introdotta da un pensiero tematico di
un personaggio diverso: Langston Hughes, Papa Francesco e Don Tonino Bello; ed
è illustrata da disegni dell’autore.
Nella prima sezione domina il
dolore, a rischio di disperazione, di non credere più nei sogni. «Quando i sogni se ne vanno – dice il
poeta citato in epigrafe – la vita è un
campo arido gelato di neve» (L. Hughes).
I tempi sono amari e bisogna fare
acrobazie per sperare. Acrobati della
speranza, infatti, è il brano che apre questo primo mannello di versi. Un
senso di diffusa sofferenza pervade la maggior parte delle tredici liriche.
Immagini di disperazione: «la vita …si spegne in un involucro di stracci». Il
poeta s’afferra «con la sola forza delle pupille / a quest’orlo di sogno / che
…salva / dal risucchio dell’abisso»; il sole presto è adombrato dalle nubi; il
«vento…scompiglia i … sogni / assiepati sulle rampe della notte». Parole che
evocano immagini di tormento: «vomiti d’onde assassine…inghiottite urla…
strazia i nostri risvegli»; le parole sono disancorate, strozzate in gola,
corpi inabissati, sprofondati nei pantani; e su tutto il silenzio. Occorrono
nuovi inni d’umiltà, che «il cuore potrà finalmente intonare / …/ con le
sublimi armonie / delle sue pulsioni». Non v’è dubbio che la tragedia degli
immigrati e il degrado sociale abbiano ispirato e influenzato il poeta e ferito
il suo animo di credente e di cittadino.
E’ l’impegno civico di Ventura,
che non dimentica l’Unità d’Italia, la memoria delle grandi tragedie
dell’ultima guerra mondiale, l’impegno di farsi latore di sensibilità
collettiva, prendendo in prestito le parole di Papa Francesco: «E’ la memoria dell’eredità ricevuta che
dobbiamo, a nostra volta, trasmettere ai nostri figli», che fa tornare al
poeta la positività della vita, un senso di ritrovato ottimismo. Ora il poeta
«Spera che non sia pula…lo sciame dei suoi pensieri…Sogna che lasci / un pugno
di brace viva / la fiammata della sua parola». Sembra che faccia il controcanto
ai versi della prima sezione: tutto torna a brillare, purché si mettano da
parte l’indifferenza, l’arroganza, la smemoratezza: «un sorriso mai scordato…il
lieto ricordo di un evento…l’eco d’una voce cara…riporta / questo vento
frizzante d’aprile».
Introdotta dalle parole di Don
Tonino Bello la terza sezione sembra essere quasi il terzo tempo di una partita
che il poeta gioca con se stesso e coi suoi lettori. «E’ la bellezza che salverà il mondo…Coltivate la bellezza». Al
superbo rivolge l’invito a «fissa[re] lo sguardo al cielo», perché «Trivella di
luce è la verità», a «Cerca[re] oltre le scaglie d’odio», ché «Se vuoi…Anche
dalle più profonde feritoie / dei tuoi dubbi / germoglieranno primavere…» e
«Avranno rami curvi / al peso di dolci primizie / quei germogli / che ora
cercano aria / fra cumuli di trascuranza».
Probabilmente ridotta a pensieri
la poesia perde fascino, suggestione e bellezza; ne guadagna in luce. Chi è
aduso a cercare il senso delle parole non può accontentarsi che di questo.
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