lunedì 27 giugno 2016

Renzi e la fine d'un idillio


Renzi ha riconosciuto di essere stato battuto nelle elezioni amministrative di domenica, 19 giugno.  Non è sufficiente a capire cosa sta succedendo in questo paese, dove ormai ogni elezione, anche quella per eleggere l’amministratore di un condominio, è un voto politico pro o contro Renzi. Vuol dire che votare per il sindaco di Taurisano equivale a votare per il presidente del consiglio? 
Il caso Torino è emblematico. Piero Fassino, sindaco uscente, ha governato bene una delle più importanti città d’Italia, per quasi unanime riconoscimento; ma, dopo aver vinto al primo turno, è stato battuto al secondo dalla grillina Chiara Appendino.
“L’alternativa è Chiara” era lo slogan dei suoi sostenitori, giocando sulla duplice categoria grammaticale di nome-aggettivo di chiara. Banale e da quotidiano sportivo, come quello della romana Virginia Raggi, altra grillina che ha vinto nella capitale con lo slogan “Su Roma Raggi di luce”.
Sia! ormai la politica è ridotta a battute, più o meno felici e più o meno efficaci. E’ la realtà; ma è una realtà che non rassicura. Il Movimento di Grillo è un salto nel vuoto.
Ma quando lo si capisce in questo cazzo di paese? 
I grillini si autoproclamano onesti. Ma fino a prova contraria tutti lo sono. E, posto che lo siano davvero, basta per governare?
Lo squallore del momento lo colpisci come una sagoma da tiro a segno.
Cosa accadrà adesso, nelle città ingrillettate e nel governo centrale? I sindaci avranno i loro problemi concreti e presto si accorgeranno che non è per niente facile governare il popolo italiano, a nessun livello. Senza esperienza, poi! Con un’azienda alle spalle – la Casaleggio Associati – che sembra una fornitrice di servizi statistici e mediatici a banche e ad industrie più che un esperimento politico.
A sentirli i grillini, tutti, nessuno escluso, a qualsiasi domanda venga loro rivolta rispondono con una lunga sequela di accuse alle vecchie classi dirigenti, nazionali e periferiche, come un disco, nella più bella tradizione di chi in Italia sta all’opposizione, e ricordano certo massimalismo e catastrofismo di comunisti e missini del lungo dopoguerra italiano.
Beati gli immemori, che campano meglio!
Ma, quanto a proposte, a parte il famoso reddito di cittadinanza, non sanno dire altro. Zero assoluto su immigrazione, su modernizzazione dello Stato, su politiche ambientali, su scuola e cultura, su politica estera, su problematiche economiche. Il loro, quando non è silenzio, è uno sfarfallare oggi in una direzione domani in un’altra. 
Davide Casaleggio, figlio del de cuius, assicura che non si candiderà mai e che il suo sogno è di realizzare la democrazia diretta con la rete (Corsera del 21 giugno). E vorrei vedere! Nella sua prospettiva terrebbe sotto controllo tutta la partecipazione politica.
Sarà che appartengo ad altra epoca e non capisco l’attuale, ma se la sua non è un’onesta utopia, e sarebbe meno peggio, è un modo consapevole per sottrarre ai cittadini i buoni e semplici metodi di controllo del potere attraverso il voto. Casaleggio dice: ogni cittadino è in rete e può esprimere il proprio parere in tempo reale su ogni cosa che riguarda il pubblico governo. Già il presupposto è discutibile, è come tornare all’Ottocento quando avevano diritto al voto solo gli alfabetizzati. La rete come la firma. Ma vorrebbe dire che alla fine, senza nessuna possibilità di verifica e senza nessun dibattito fisicamente partecipato, ci si può ritrovare con scelte volute da una sorta di oracolo, l’oracolo di Casaleggio. L’oracolo, presso greci e romani, era il responso profetico degli dei, ma in realtà a “parlare” era il re che in quel momento aveva in pugno il potere e poteva interpretare a suo piacimento la risposta ambigua che gli dei “davano”.
Figurarsi, gli dei!
In realtà il Movimento di Grillo sta rivelando tutta la dabbenaggine della gente, tanto più grave oggi quanto meno essa è veramente acculturata. Alfabetizzato è altra cosa da acculturato. La gente che vota sull’onda dell’emozione mette in crisi la forza della democrazia. La gente che vota con la pancia mette al pari in crisi la forza della democrazia. Quando essa non si basa sulla ragione porta di filato verso esiti che finiscono per negarla. La storia non insegna niente, ma qualche volta può essere letta come un diario dell’umanità o di un paese. 
Quanto al governo centrale, non v’è dubbio alcuno che ora Renzi sia giunto alla resa dei conti coi suoi avversari interni. Dovrà lasciare la segreteria del partito? Se perderà il Referendum sulla riforma costituzionale dovrà lasciare anche la presidenza del consiglio? Vedremo. Intanto tutti gli danno addosso, come fecero gli achei al troiano Ettore ucciso sotto le mura di Troia “Né vi fu chi di fargli una ferita / Non si godesse…”. Leggere Omero.
Nel suo partito, il Pd, la vecchia guardia (Bersani, D’Alema), la sola componente che ancora ragiona, insiste per rivedere un po’ di cose, sia nell’organizzazione del partito, sia nelle strategie politiche e sia nell’immediato nella cosiddetta riforma elettorale (Italicum) e costituzionale. Si è ormai in stato d’allerta. La piena – aggiungasi di grillini – è ormai arrivata al livello di guardia. Se non si interviene subito sull’Italicum e sulla riforma costituzionale si consegna il paese al Movimento di Grillo, il Movimento – non si dimentichi – nato da infiniti e strombazzati “Vaffanculo”, ripresi e propagati dalla televisione, il più potente, idiota e micidiale mezzo di distrazione di massa. Il combinato disposto dell’una e dell’altra cosa doveva servire a consolidare il potere di Renzi, ma per come le cose si sono messe potrebbe produrre l’esatto contrario. E hai voglia poi a ripetere: te l’avevamo detto noi! L’apprendista stregone si brucia la faccia.

La resistenza a Renzi ha imboccato la strada giusta. Per due anni ha morso ferro, ha inghiottito rospi; ora può passare al contrattacco. Gli assennati si conteranno nel seguito. 

domenica 26 giugno 2016

Europa, odi et amo


Il referendum inglese del 23 giugno 2016 ha decretato: il Regno Unito lascia l’Europa. Poco conta l’irrisorio scarto tra favorevoli e contrari (51,9 a 48,1). Dispiace per i convinti europeisti, tra i quali ci siamo sempre annoverati e ci annoveriamo, ma gli inglesi hanno avuto coraggio a dare un messaggio forte ad un’Europa, che, al di là, di questioni bancarie e finanziarie, di quote latte e di standardizzazioni di banane e cetrioli, non sa affrontare nessun problema umano, popolare, culturale.
Non era e non è questa l’Europa che volevamo; e neppure quella di De Gasperi, Adenauer e Schuman, che certo non immaginavano tanta inconcludenza di fronte a tanto rischio.
Che volevamo? Volevamo l’Europa dei popoli e non di un’ideologia unica e prevaricante. L’Europa che nasceva dalla storia dei suoi popoli, delle sue genti, tutte parimenti rispettate e aventi pari dignità. L’Europa del Benelux non è l’Europa vera. L’ideologia dei diritti individuali a scapito dell’insieme, della società e della storia è un’imposizione intollerabile, negatrice di ogni libertà, di ogni diversità, di ogni diritto ad essere quel che la propria storia ha prodotto nei secoli. I popoli sono come corsi d’acqua che si scavano il loro percorso nella roccia e scorrendolo raggiungono il mare con la loro identità.
Per l’Europa così com’è vale il tormento catulliano per la sua Lesbia: ti odio e ti amo. Ti odio per i tuoi tradimenti e per le tue stravaganze, ti amo per la tua bellezza e per il tuo affetto.    
Ha pesato sul voto – inutile negarlo – il fenomeno dell’immigrazione, nei confronti del quale l’Europa si sta comportando né più né meno di come a giusta ragione predica il papa, che è però politicamente irresponsabile: accoglienza senza limiti e confini. Di più. Si vuole far credere che l’accoglienza sia un affare per l’Europa, con evidente disprezzo dell’intelligenza dei cittadini, che sanno invece rendersi conto da sé non solo della realtà delle cose ma anche di quanto i governi raccontino bugie. Si dice che al regresso demografico degli europei si fa fronte con un progresso demografico degli immigrati, solo preoccupandosi di  produzione, consumismo e pensioni. Sicché, in una cornice di arretramento generale della popolazione, mentre diminuiscono gli europei aumentano africani e asiatici. Non ci vuole molto a capire dove porta il trend: ancora poche altre generazioni e l’identità europea è fortemente compromessa, con chissà quali drammatiche conseguenze. Altro che radici cristiane! Qui ci dobbiamo preoccupare di conservare qualche cespuglio in una foresta di simboli estranei.
Ecco perché salutiamo il no dell’Inghilterra con preoccupazione, sapendo che ogni cambiamento produce incertezza e imprevedibilità, ma anche con spirito positivo di recupero del perduto nell’augurio che qualcosa sarà rivisto in questa Europa.
L’Inghilterra degli uomini e non solo delle merci ha avuto ragione; ha detto basta. Un basta tanto più importante quanto più mette a rischio gli interessi economici del Regno Unito, che nell’ambito europeo godeva di particolari trattamenti, di veri e propri privilegi. Gli inglesi avevano tutto da guadagnare a rimanere in Europa; e invece hanno voluto liberarsene. Evidentemente essi credono ancora in altri valori, in altri interessi, hanno altre aspettative di vita. Sono patetici i rappresentanti della nostra intellighentia democratica quando si appellano all’ignoranza del popolo inglese che non sa votare per cose così importanti. E ancor più lo sono quando distinguono il voto delle province e delle periferie da quello delle grandi città, dei giovani da quello degli anziani, per esprimere la loro condanna. Un popolo è tale quando vive nell’armonia di tutte le sue componenti. E’ un bene che gli Icari convivano con i Dedali.
La prima spallata all’Europa, dunque, l’ha data un paese che forse aveva ragione meno di altri a darla; che rispetto agli altri, però, ha dimostrato ancora una volta di essere il più determinato. Dovevamo essere noi italiani a rivendicare per primi un’Europa diversa, più rispettosa dei popoli e della loro storia, della loro cultura e della loro tradizione. Siamo il più violentato paese del contesto europeo, e invece di rivendicare il diritto ad essere noi stessi, quali siamo stati in secoli e secoli di civiltà, non solo rimaniamo in silenzio, ma ci pieghiamo continuamente a filosofie di vita a noi estranee, che irridono ai nostri valori. Un Buttiglione messo alla porta perché cattolico e contrario all’omosessualità è uno schiaffo che ancora brucia. Una Merkel che impone Juncker alla presidenza della Commissione contro il parere di Cameron, che minaccia reazioni importanti – vedere i giornali del 2014 – appare oggi come una sfida che gli inglesi non hanno dimenticato di vincere. Un Sarkozy che manda subito i bombardieri in Libia per imporre il suo primato in Europa è un altro segno incancellabile degli egoismi e dei nazionalismi mascherati. E si potrebbe continuare all’infinito con episodi di questo genere fino alle intromissioni in Italia contro Berlusconi e le sanzioni contro la Russia per la vicenda ucraina, quando è lampante la responsabilità europea nella crisi tra i due paesi ed altrettanto lampante è la perdita economica delle aziende europee in un quadro di perdurante crisi economica globale.
Guardiamo agli inglesi con rispetto perché hanno dimostrato di avere personalità di popolo coraggioso e volitivo. Preoccupiamoci, invece, di noi stessi che continuiamo a coltivare assurdi sensi di colpa e complessi d’inferiorità e ci teniamo quel che che ci passa il convento di Bruxelles.  
Ora i perdenti, nostrani soprattutto, piangono come tante prefiche, denunciando l’azzardo di Cameron nell’avviare il referendum e pregustando il disgregarsi del Regno Unito. Piangono un morto, che invece è vivo, e non si accorgono che i vivi che hanno in casa sono invece morti.  
I vincenti, invece, alcuni leader di destra di Francia e Olanda in primis, hanno annunciato referendum nei loro paesi in emulazione di quello inglese; ma non si rendono conto che le loro situazioni sono diverse da quella britannica.

Ma, al di là degli umori contrastanti, lo scenario che si presenta oggi in Europa non è per niente chiaro e l’immagine di un’Europa colpita fa pensare più che alle rovine che ancora non ci sono, ad un palazzo sicuramente lesionato, di fronte al quale si pensa o di abbatterlo o di ripararlo. Nell’uno come nell’altro caso la situazione ci suggerisce che più di qualcosa che ci riguarda è cambiato.   

domenica 19 giugno 2016

Femminicidi e ideologie insensate


Io credo che pochi regimi da un secolo a questa parte abbiano presentato caratteri di ideologia così marcati e invasivi come quello odierno, che si sta delineando come il “regime della democrazia o delle libertà individuali”. Lo so, lo so; a dire certe cose si corre il rischio di passare per reazionari e forse per malvagi da chiudere o per pazzi da legare. Ma i rischi son fatti per essere corsi.
Per capire. In certi romanzi ambientati in periodi dittatoriali si colgono delle verità che in nessun libro di storia sono altrettanto bene evidenziate. Trovi, per esempio, che ad un certo punto la gente non ha più riferimenti per poter valutare una persona, un fatto o un comportamento e giudica in base al pensiero dominante. E’ quella che si suol chiamare entropia valutativa. In un simile tipo di società chi ha il coraggio o l’imprudenza – qualcuno dice l’impudenza – di dissentire è considerato pazzo, se non peggio.
Ecco, noi oggi viviamo in una sorta di entropia. Quando si assiste periodicamente ad eccidi di donne, di mogli, di figli, di fidanzate, che i media impegnati nella battaglia per i diritti individuali propagano con dovizie di commenti incanalati verso obiettivi ideologici a schiaccia piede, ti viene di riflettere in che morta gora ormai ci troviamo. Tanto più in un momento in cui in altri settori, quello politico per esempio, si ravvisano derive autoritarie perfino in una riforma, sbagliata o giusta che sia, di un ramo del parlamento.
La questione dei cosiddetti femminicidi ormai dura da qualche anno, con cifre oscillanti, ma sempre gravi. Peraltro non  è questione di cifre. Uccidere è sempre barbaro in sé!
Quel che fa riflettere è l’approccio decisamente ideologico e truffaldino al tema da parte della classe politica, degli intellettuali e dei media. Leggi che “gli uomini continuano a scatenare la loro violenza contro le donne” (Paolo Di Stefano, Corsera dell’11 giugno); e ti chiedi: gli uomini tutti, senza distinzione?  E ancora: “la ferocia demente ha un terreno fertile ovunque: nelle famiglie, nella scuola, nel mondo del lavoro, nella società, nelle mille piccole e grandi discriminazioni di cui sono vittime le donne, troppo spesso valutate ancora per le loro qualità di mogli fedeli, madri devote, compagne, vallette, modelle” (Ivi). Di fronte a simili affermazioni ti vengono i brividi, corri allo specchio e dici: io sono un “feroce demente” per il solo fatto che sono un maschio.
A parte l’errato miscuglio di “mogli-madri-vallette-modelle”, sono forse diventati disvalori quelli inerenti il rapporto di un individuo col suo insieme? Una moglie fedele è una donna discriminata? Una madre devota è una coatta?
Nelle prose giornalistiche, nei telegiornali, quando si parla di uomini che uccidono le loro donne, non si fa mai riferimento alla problematicità del fenomeno; tutto si esaurisce in una visione unilaterale, apocalittica, di sdegno e di condanna. Motivi? Questioni? Zero!  
Allora uno, fesso-fesso, come il regime ci vorrebbe tutti, pensa: ma questi uomini non hanno niente di meglio da fare che ammazzare le proprie donne e qualche volta i loro figli e qualche volta ancora se stessi? E magari: beh, questa sera non ho proprio nulla da fare, sapete che faccio?, uccido mia moglie. Come diceva Giorgio Gaber in una sua celebre canzone: “quasi quasi mi faccio uno shampoo”. Ma vi sembra logica, normale, plausibile, una cosa del genere?
Ora, è di tutta evidenza che la società, la famiglia, l’individuo stanno attraversando una crisi di portata epocale, che non si può né definire né risolvere con le sparate a zero dell’intellighenzia asservita. Lasciarsi tra marito e moglie, specialmente quando di mezzo ci sono figli, o tra fidanzati o compagni, non è mai cosa da niente, come la si vuol far passare. Ognuno ha il diritto di progettare la sua vita, sua evidentemente anche di marito e di padre, di moglie e di madre. Gli esseri umani sono i pilastri delle strutture sociali, se si muovono a piacimento, se si spostano di qua e di là, crolla tutto.
Il problema vero, che purtroppo si tace, è che i cambiamenti sociali e di costume di questi ultimi anni, soprattutto nel campo delle libertà individuali, sempre in favore risarcitorio delle donne, dalla famiglia alla politica, dal lavoro alla giustizia, hanno creato scompensi, di fronte ai quali le figure penalizzate, in questo caso taluni uomini per contrappasso, reagiscono con ferocia, disperazione, sofferenza.
C’è da inorridire quando si sostiene che è cosa normalissima che una donna, la sera, al rientro a casa del marito, gli dica: senti caro, io non ti amo più, ho deciso di lasciarti. E, di concerto, si ritiene altrettanto normale che quello le risponda: ma cara, qual è il problema, prego decidi quando andartene o quando vuoi che me ne vada io. Se, invece accade che di lì si sviluppi un diverbio, come è umano che sia, la cosa non è più normale. Quell’uomo è un feroce demente e come lui tutti quelli che in qualche modo cercano di capirlo.
E’ possibile che non si voglia capire che l’essere umano non è mai un individuo assoluto (ai signori democratici ricordo che il teorico dell’individuo assoluto era un certo Julius Evola!), ma è sempre in rapporto ad altri, con cui si realizza come cittadino, come figlio, come padre, come professionista, come contribuente, come soldato?
Ormai è provato: questa grande, forse troppa libertà concessa a tutti, produce effetti disastrosi sotto il profilo sociale e umano. Ogni libertà che si concede è una lesione ad un’altra libertà: è sempre questione di scelta. S’illude chi pensa che l’individuo è uno che cresce in progress di libertà senza perdere mai niente. Non c’è libertà che non ne scacci un’altra.

Se si vuole – come si spera che si voglia – risolvere il problema dei femminicidi, occorre ripensare certe sconsiderate concessioni ad libitum. Si obietta: ma così si frena il processo di liberazione della donna. Ammettiamo; ma nel caso contrario, si accelera il processo di disgregazione e di disfacimento non dell’uomo ma della civiltà umana. 

domenica 12 giugno 2016

Renzi tra fischi e fiaschi


Matteo Renzi dà l’impressione di non preoccuparsi dei fischi, che sempre più spesso riceve dal pubblico di una sala-conferenze o dalla gente in piazza o per strada, meno ancora dei fiaschi. Dà ad intendere che i fischi per un politico sono la quotidianità, perché, come dice un proverbio, chi ne fa ne sbaglia. Quanto ai fiaschi, è abile per nasconderli. Certo, lui non ammette di sbagliare; e finge di rispettare la percezione dei cittadini, sui quali evidentemente ricadono le conseguenze degli errori di chi governa.
Ma le cose stanno un po’ diversamente da come le pensa e le presenta lui. I fischi ricevuti per il Jobs act o per la riforma scolastica erano di persone interessate che non condividevano i due provvedimenti. I fischi, che sta ricevendo da qualche tempo, sono più di massa, indistinti, provenienti da un pubblico meno settoriale. Sono fischi che fanno male, perché nascono da fiaschi veri e diffusi e lo colpiscono su quella faccia che lui ci mette da sempre.
Come reagisce Lorenzi il Magnifico? Lamenta che i suoi oppositori interni, per intenderci la sinistra del suo partito, lo contrasta a prescindere e lo evidenzia sottolineandone le contraddizioni e a volte le incongruenze. Ha buon gioco a dire: prima votate una legge e poi siete contro; non volete che le feste dell’Unità siano feste del governo, ma poi pretendete che lo siano di una corrente del Pd; prima mi accusate di aver personalizzato delle riforme importanti e strutturali, di ricaduta nazionale, e poi siete voi che personalizzate i risultati elettorali di elezioni locali; mi rimproverate i voti di Verdini, ma Verdini vota con noi da sempre, perché le elezioni del 2013 non le abbiamo vinte e abbiamo bisogno di “integratori”. Integratori lo dico io.
Insomma, Renzi si rivela, come al solito, molto abile nel districarsi polemicamente tra attacchi esterni e sgambetti interni, che sono, secondo tradizione italica, i più pericolosi. Ma la scaltrezza dialettica, basata nel rilevare le contraddizioni degli altri, rivela anche la pochezza delle proprie posizioni. Come la lezione evangelica: la pagliuzza nell’occhio mio non è un male dato che a dirmelo che ce l’ho sei tu che hai una trave nel tuo. No, Renzi dovrebbe spiegare piuttosto che è un male avere la pagliuzza nell’occhio, e basta.
In realtà Renzi gode di una serie di circostanze fortunose, la prima delle quali è che i suoi avversari, tutti, interni ed esterni, non hanno mai un’alternativa seria da proporre. Essi sono la sommatoria di debolezze e di incertezze. Le debolezze, sommandosi, non fanno una fortezza; idem per le incertezze.
In una situazione del genere uno come lui, scaltro nella parlantina, salvo qualche periodica caduta di stile, imperdonabile ad altri, ma non a lui riesce sempre a cavarsela alla grande, al punto che alla fine chi lo aveva fischiato gli stringe la mano e lo abbraccia. Ma l’attaccare i contrari all’abolizione del Senato, per esempio, con la battuta dell’eliminazione di un politico su tre, “uno, due, muori; uno due, muori”, è francamente infelice. Sembrava avesse un mitra in mano ed un berretto col teschio in mezzo sulla visiera.
Parole e parole a parte, due sono le realtà indiscutibili. La prima è che i suoi avversari, non avendo alternative serie da proporre per la loro debolezza, finiscono per piegarsi "felicemente" ai suoi diktat, vedi i tanto vituperati voti di fiducia, che fanno salvare la faccia a tutti. La seconda è che, nonostante la propaganda da regime, la situazione in Italia è negativa e che le tanto osannate riforme non hanno prodotto nulla di veramente importante, compresi i famosi ottanta euro per i percettori di redditi inferiori ai millecinquecento euro mensili.
Al confronto appare sempre più chiaro che l’esperienza di Monti, pur con tutte le sue “imposizioni”, è stata più decisiva nel far uscire l’Italia da una situazione nella quale si era ritrovata per non mai chiarite situazioni nazionali ed europee. Il sorrisetto d’intesa o di complicità tra il francese Sarkozy e la tedesca Merkel resta l’icona più significativa di quel periodo.
Il vero guaio di Renzi incomincia a delinearsi ed è quello proveniente dalla gente, non dagli oppositori della “casta”. Se ne rende conto. La faccia è molto più sensibile delle spalle; e Renzi uomo di faccia è.
L’immigrazione non è un’invasione - dice - l’Italia è presente in tutto il mondo in missioni politiche di pace, le tasse scendono; ma intanto la gente non può non collegare i tanti tagli a servizi essenziali (ospedali, treni, tribunali, scuole, pubblici servizi) all’enormità di spese che l’Italia sopporta quotidianamente per raccogliere emigranti in mare, per sistemarli, anche se in maniera vergognosa e barbara, per tenere in giro nel mondo tanti nostri militari. Siamo il secondo paese dopo gli Stati Uniti d’America a tenere tanti militari in missione fuori dal territorio nazionale.
Il Jobs act non ha ancora prodotto effetti rassicuranti, un giorno si parla di effetti miracolosi e un altro del contrario, mentre i nostri giovani stanno svuotando il paese per sistemarsi altrove. Quanto alla diminuzione delle tasse, è una vera presa per quella neonobilitata parte anatomica che non decet nominare: per ogni tassa diminuita o eliminata dal governo, altre la compensano con imposizioni comunali e regionali. Sicché, nel dare e avere del cittadino, è sempre di più il dare che l’avere.

Matteo Renzi può dire quello che vuole – con quella faccia! – ma la realtà è che l’Italia è un paese con due valvole: una di entrata, che fa aumentare il numero degli stranieri, fino a raggiungere il preoccuante numero di sei milioni (10%); e l’altra di uscita, dalla quale partono le nostre risorse umane più importanti; giovani laureati brillanti in ogni settore della scienza e della tecnologia. Se il trend non cambia, tra una decina d’anni o due, l’Italia sarà un’altra cosa rispetto a quella che abbiamo conosciuto. Beati allora coloro che non l’hanno conosciuta! Non si guasteranno il fegato.     

domenica 5 giugno 2016

Il vuoto di potere produce cambiamenti di costume


Ho sentito non ricordo più su quale canale Rai, credo “Rai Due”, sabato 4 giugno, un esperto affermare, in seguito all’episodio di quel genitore che a Cuneo ha teso un agguato al fidanzato del figlio omosessuale e lo ha riempito di botte, che l’omofobia è una malattia. Tralasciando ogni altro aspetto dell’inquietante episodio, ho colto un dato straordinariamente interessante: la trasformazione antropologica dell’italiano, realizzatasi in pochi anni; direi in meno di dieci anni, gli ultimi. Ciò che non era accaduto nei secoli precedenti, quando era l’omosessualità una malattia, è accaduto da poco, col ribaltamento delle posizioni: malato non è più l’omosessuale ma l’omofobo, cioè il suo esatto contrario.
Francamente era impensabile solo pochi anni fa che ciò potesse accadere. Ma, mentre prima si era propensi a rispettare gli omosessuali perché in fondo – si diceva – non avevano colpa alcuna del loro stato, perché appunto erano malati, oggi, a quanto pare, per i nuovi malati, ovvero per gli omofobi, non c’è comprensione alcuna. Sono malati e vanno puniti!
Non è difficile scorgere in questa nuova visione delle cose un profilo politico decisamente antidemocratico, tipico di un regime. Qui non siamo in presenza di una posizione diversa, che ha diritto di esistere, purché non rechi danno al prossimo, ma in una condizione giudicata ontologicamente patologica e criminale. L’omofobo, per il fatto di essere tale, non lo può neppure dire; se lo dice commette un reato. Se, poi, addirittura mette in pratica un gesto da omofobo, va incontro a pesanti condanne giudiziarie e alla gogna sociale.
L’aspetto che più stupisce è che in questi anni di trasformazione antropologica e sociale non c’è stato un potere forte ad imporre la trasformazione; anzi, direi che non c’è stato potere. Napolitano, con la sua doppia elezione presidenziale, è la prova lampante della latitanza del potere politico. Se ci fosse stata una classe politica di rispetto, sarebbe stato un altro il presidente della repubblica. Rieleggendolo, la politica ha sancito la sua debolezza.
L’altra prova della latitanza del potere politico è la surrogazione della magistratura. I giudici che possono stabilire l’adozione del figlio del compagno o della compagna, per le unioni civili, mette con le spalle al muro un parlamento che non è capace di elaborare e approvare una legge specifica.
Sicché viene di pensare che le grandi trasformazioni antropologiche e sociali non avvengono durante i regimi forti, ma paradossalmente nel vuoto di potere, quando l’individuo in sé e la società si abbandonano al vento della liceità diffusa e senza limiti, tipica dei periodi di sbandamento e di confusione.
Con l’avanzare dell’omosessualità e di tutte le sue connessioni, matrimoni adozioni gravidanze, è avanzato il transgender, che ha messo in discussione l’anagrafe. Non parliamo della chiesa, che oggi non sa più a quale…santo votarsi per far raccapezzare i fedeli tra una religione millenaria e uno stato che va giù a rotta di collo. Il Papa si è laicizzato, il più delle volte fa il magistrato (contro la corruzione), il sindacalista (contro lo sfruttamento dei lavoratori), il politico (accogliere ii rifugiati), rinunciando ad essere guida spirituale. Non è solo questione di assecondare una tendenza, che è quella dei diritti individuali anche in conflitto con quelli spirituali predicati da secoli e secoli dalla chiesa, ma anche di poter conservare un minimo di potere in una società che cerca di sfuggire a qualsiasi potere.
Il sospetto, però, che si tratti di un successo del cambiamento di superficie, come dire, per usare un proverbio popolare, quando il gatto non c’è il topo balla, è forte. Se immaginiamo dove possa portare questa tumultuosa caduta, accelerata anche da leggi morali europee, dai socials e da altri mezzi della più moderna tecnologia della comunicazione, non solo non riusciamo a vedere il punto d’approdo, ma non riusciamo neppure ad ipotizzarne uno. Solo la peste ha un effetto più devastante per la società dell'anarchia, quando essa si pone non come il raggiungimento di qualcosa ma come un porsi in continuo fieri.
La storia ha registrato già altre volte periodi di crisi dei valori e dei poteri, ma ha anche registrato la reconquista, quando gli effetti della trasformazione si sono rivelati dannosi non solo agli individui, presi per sé, ma anche alla società. 
Un altro effetto tra i più disastrosi di questa trasformazione, per le sue ricadute immediate e in prospettiva, è quello del diritto individuale della donna di poter prendere e lasciare un uomo come prende e lascia una borsetta. Un diritto rivendicato con iattanza come una conquista. L’effetto è, come purtroppo vediamo, il proliferare di femminicidi efferati, che turbano la coscienza personale e civile.

Anche a voler considerare queste povere donne, a volte accompagnate nella morte dai figlioletti, come le vittime sacrificali del progresso, è inaccettabile che si debba assistere a simili sacrifici per una scelta di fanatismo ideologico. Il femminismo fanatico che è per la libertà senza limiti e confini della donna, che fa considerare l’amore come una batteria che si può buttare quando esausta, obbedisce ad una ideologia che si scontra con la realtà. L’individuo, maschio o femmina che sia, non è mai solo sulla terra. Ogni sua forma di promessa con un altro non può essere unilateralmente sciolta in nome di una libertà individuale che per forza di cose produce del male o del danno all’altro. Non si discute il voler lasciare il partner per una ragione importante – e ci sono migliaia e migliaia di casi – si discute di poterlo lasciare per niente, così per aver conosciuto un altro più bello, più simpatico, più piacente o più facoltoso; e ovvio altrettanto vale se a lasciare la partner è lui. Dire: la donna è libera di lasciare a suo libero piacimento l’uomo, con o senza motivo, è tipico di una visione della vita che sta prendendo sempre più consistenza nel gravissimo vuoto di potere in cui ci troviamo.