domenica 19 giugno 2016

Femminicidi e ideologie insensate


Io credo che pochi regimi da un secolo a questa parte abbiano presentato caratteri di ideologia così marcati e invasivi come quello odierno, che si sta delineando come il “regime della democrazia o delle libertà individuali”. Lo so, lo so; a dire certe cose si corre il rischio di passare per reazionari e forse per malvagi da chiudere o per pazzi da legare. Ma i rischi son fatti per essere corsi.
Per capire. In certi romanzi ambientati in periodi dittatoriali si colgono delle verità che in nessun libro di storia sono altrettanto bene evidenziate. Trovi, per esempio, che ad un certo punto la gente non ha più riferimenti per poter valutare una persona, un fatto o un comportamento e giudica in base al pensiero dominante. E’ quella che si suol chiamare entropia valutativa. In un simile tipo di società chi ha il coraggio o l’imprudenza – qualcuno dice l’impudenza – di dissentire è considerato pazzo, se non peggio.
Ecco, noi oggi viviamo in una sorta di entropia. Quando si assiste periodicamente ad eccidi di donne, di mogli, di figli, di fidanzate, che i media impegnati nella battaglia per i diritti individuali propagano con dovizie di commenti incanalati verso obiettivi ideologici a schiaccia piede, ti viene di riflettere in che morta gora ormai ci troviamo. Tanto più in un momento in cui in altri settori, quello politico per esempio, si ravvisano derive autoritarie perfino in una riforma, sbagliata o giusta che sia, di un ramo del parlamento.
La questione dei cosiddetti femminicidi ormai dura da qualche anno, con cifre oscillanti, ma sempre gravi. Peraltro non  è questione di cifre. Uccidere è sempre barbaro in sé!
Quel che fa riflettere è l’approccio decisamente ideologico e truffaldino al tema da parte della classe politica, degli intellettuali e dei media. Leggi che “gli uomini continuano a scatenare la loro violenza contro le donne” (Paolo Di Stefano, Corsera dell’11 giugno); e ti chiedi: gli uomini tutti, senza distinzione?  E ancora: “la ferocia demente ha un terreno fertile ovunque: nelle famiglie, nella scuola, nel mondo del lavoro, nella società, nelle mille piccole e grandi discriminazioni di cui sono vittime le donne, troppo spesso valutate ancora per le loro qualità di mogli fedeli, madri devote, compagne, vallette, modelle” (Ivi). Di fronte a simili affermazioni ti vengono i brividi, corri allo specchio e dici: io sono un “feroce demente” per il solo fatto che sono un maschio.
A parte l’errato miscuglio di “mogli-madri-vallette-modelle”, sono forse diventati disvalori quelli inerenti il rapporto di un individuo col suo insieme? Una moglie fedele è una donna discriminata? Una madre devota è una coatta?
Nelle prose giornalistiche, nei telegiornali, quando si parla di uomini che uccidono le loro donne, non si fa mai riferimento alla problematicità del fenomeno; tutto si esaurisce in una visione unilaterale, apocalittica, di sdegno e di condanna. Motivi? Questioni? Zero!  
Allora uno, fesso-fesso, come il regime ci vorrebbe tutti, pensa: ma questi uomini non hanno niente di meglio da fare che ammazzare le proprie donne e qualche volta i loro figli e qualche volta ancora se stessi? E magari: beh, questa sera non ho proprio nulla da fare, sapete che faccio?, uccido mia moglie. Come diceva Giorgio Gaber in una sua celebre canzone: “quasi quasi mi faccio uno shampoo”. Ma vi sembra logica, normale, plausibile, una cosa del genere?
Ora, è di tutta evidenza che la società, la famiglia, l’individuo stanno attraversando una crisi di portata epocale, che non si può né definire né risolvere con le sparate a zero dell’intellighenzia asservita. Lasciarsi tra marito e moglie, specialmente quando di mezzo ci sono figli, o tra fidanzati o compagni, non è mai cosa da niente, come la si vuol far passare. Ognuno ha il diritto di progettare la sua vita, sua evidentemente anche di marito e di padre, di moglie e di madre. Gli esseri umani sono i pilastri delle strutture sociali, se si muovono a piacimento, se si spostano di qua e di là, crolla tutto.
Il problema vero, che purtroppo si tace, è che i cambiamenti sociali e di costume di questi ultimi anni, soprattutto nel campo delle libertà individuali, sempre in favore risarcitorio delle donne, dalla famiglia alla politica, dal lavoro alla giustizia, hanno creato scompensi, di fronte ai quali le figure penalizzate, in questo caso taluni uomini per contrappasso, reagiscono con ferocia, disperazione, sofferenza.
C’è da inorridire quando si sostiene che è cosa normalissima che una donna, la sera, al rientro a casa del marito, gli dica: senti caro, io non ti amo più, ho deciso di lasciarti. E, di concerto, si ritiene altrettanto normale che quello le risponda: ma cara, qual è il problema, prego decidi quando andartene o quando vuoi che me ne vada io. Se, invece accade che di lì si sviluppi un diverbio, come è umano che sia, la cosa non è più normale. Quell’uomo è un feroce demente e come lui tutti quelli che in qualche modo cercano di capirlo.
E’ possibile che non si voglia capire che l’essere umano non è mai un individuo assoluto (ai signori democratici ricordo che il teorico dell’individuo assoluto era un certo Julius Evola!), ma è sempre in rapporto ad altri, con cui si realizza come cittadino, come figlio, come padre, come professionista, come contribuente, come soldato?
Ormai è provato: questa grande, forse troppa libertà concessa a tutti, produce effetti disastrosi sotto il profilo sociale e umano. Ogni libertà che si concede è una lesione ad un’altra libertà: è sempre questione di scelta. S’illude chi pensa che l’individuo è uno che cresce in progress di libertà senza perdere mai niente. Non c’è libertà che non ne scacci un’altra.

Se si vuole – come si spera che si voglia – risolvere il problema dei femminicidi, occorre ripensare certe sconsiderate concessioni ad libitum. Si obietta: ma così si frena il processo di liberazione della donna. Ammettiamo; ma nel caso contrario, si accelera il processo di disgregazione e di disfacimento non dell’uomo ma della civiltà umana. 

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