Io credo che pochi regimi da un
secolo a questa parte abbiano presentato caratteri di ideologia così marcati e invasivi
come quello odierno, che si sta delineando come il “regime della democrazia o
delle libertà individuali”. Lo so, lo so; a dire certe cose si corre il rischio
di passare per reazionari e forse per malvagi da chiudere o per pazzi da
legare. Ma i rischi son fatti per essere corsi.
Per capire. In certi romanzi
ambientati in periodi dittatoriali si colgono delle verità che in nessun libro
di storia sono altrettanto bene evidenziate. Trovi, per esempio, che ad un
certo punto la gente non ha più riferimenti per poter valutare una persona, un
fatto o un comportamento e giudica in base al pensiero dominante. E’ quella che
si suol chiamare entropia valutativa. In un simile tipo di società chi ha il
coraggio o l’imprudenza – qualcuno dice l’impudenza – di dissentire è
considerato pazzo, se non peggio.
Ecco, noi oggi viviamo in una
sorta di entropia. Quando si assiste periodicamente ad eccidi di donne, di mogli,
di figli, di fidanzate, che i media impegnati nella battaglia per i diritti
individuali propagano con dovizie di commenti incanalati verso obiettivi
ideologici a schiaccia piede, ti viene di riflettere in che morta gora ormai ci troviamo. Tanto più
in un momento in cui in altri settori, quello politico per esempio, si
ravvisano derive autoritarie perfino in una riforma, sbagliata o giusta che
sia, di un ramo del parlamento.
La questione dei cosiddetti
femminicidi ormai dura da qualche anno, con cifre oscillanti, ma sempre gravi. Peraltro
non è questione di cifre. Uccidere è sempre
barbaro in sé!
Quel che fa riflettere è
l’approccio decisamente ideologico e truffaldino al tema da parte della classe
politica, degli intellettuali e dei media. Leggi che “gli uomini continuano a
scatenare la loro violenza contro le donne” (Paolo Di Stefano, Corsera dell’11
giugno); e ti chiedi: gli uomini tutti, senza distinzione? E ancora: “la ferocia demente ha un terreno
fertile ovunque: nelle famiglie, nella scuola, nel mondo del lavoro, nella
società, nelle mille piccole e grandi discriminazioni di cui sono vittime le
donne, troppo spesso valutate ancora per le loro qualità di mogli fedeli, madri
devote, compagne, vallette, modelle” (Ivi). Di fronte a simili affermazioni ti
vengono i brividi, corri allo specchio e dici: io sono un “feroce demente” per
il solo fatto che sono un maschio.
A parte l’errato miscuglio di “mogli-madri-vallette-modelle”,
sono forse diventati disvalori quelli inerenti il rapporto di un individuo col suo
insieme? Una moglie fedele è una donna discriminata? Una madre devota è una
coatta?
Nelle prose giornalistiche, nei
telegiornali, quando si parla di uomini che uccidono le loro donne, non si fa
mai riferimento alla problematicità del fenomeno; tutto si esaurisce in una
visione unilaterale, apocalittica, di sdegno e di condanna. Motivi? Questioni?
Zero!
Allora uno, fesso-fesso, come il
regime ci vorrebbe tutti, pensa: ma questi uomini non hanno niente di meglio da
fare che ammazzare le proprie donne e qualche volta i loro figli e qualche
volta ancora se stessi? E magari: beh, questa sera non ho proprio nulla da
fare, sapete che faccio?, uccido mia moglie. Come diceva Giorgio Gaber in una
sua celebre canzone: “quasi quasi mi faccio uno shampoo”. Ma vi sembra logica,
normale, plausibile, una cosa del genere?
Ora, è di tutta evidenza che la
società, la famiglia, l’individuo stanno attraversando una crisi di portata
epocale, che non si può né definire né risolvere con le sparate a zero
dell’intellighenzia asservita. Lasciarsi tra marito e moglie, specialmente
quando di mezzo ci sono figli, o tra fidanzati o compagni, non è mai cosa da
niente, come la si vuol far passare. Ognuno ha il diritto di progettare la sua
vita, sua evidentemente anche di marito e di padre, di moglie e di madre. Gli esseri umani sono i pilastri delle strutture sociali, se si muovono a
piacimento, se si spostano di qua e di là, crolla tutto.
Il problema vero, che purtroppo
si tace, è che i cambiamenti sociali e di costume di questi ultimi anni,
soprattutto nel campo delle libertà individuali, sempre in favore risarcitorio
delle donne, dalla famiglia alla politica, dal lavoro alla giustizia, hanno
creato scompensi, di fronte ai quali le figure penalizzate, in questo caso taluni
uomini per contrappasso, reagiscono con ferocia, disperazione, sofferenza.
C’è da inorridire quando si
sostiene che è cosa normalissima che una donna, la sera, al rientro a casa del
marito, gli dica: senti caro, io non ti amo più, ho deciso di lasciarti. E, di
concerto, si ritiene altrettanto normale che quello le risponda: ma cara, qual
è il problema, prego decidi quando andartene o quando vuoi che me ne vada io.
Se, invece accade che di lì si sviluppi un diverbio, come è umano che sia, la
cosa non è più normale. Quell’uomo è un feroce demente e come lui tutti quelli
che in qualche modo cercano di capirlo.
E’ possibile che non si voglia
capire che l’essere umano non è mai un individuo assoluto (ai signori
democratici ricordo che il teorico dell’individuo assoluto era un certo Julius Evola!),
ma è sempre in rapporto ad altri, con cui si realizza come cittadino, come
figlio, come padre, come professionista, come contribuente, come soldato?
Ormai è provato: questa grande,
forse troppa libertà concessa a tutti, produce effetti disastrosi sotto il
profilo sociale e umano. Ogni libertà che si concede è una lesione ad un’altra
libertà: è sempre questione di scelta. S’illude chi pensa che l’individuo è uno
che cresce in progress di libertà senza perdere mai niente. Non c’è libertà che
non ne scacci un’altra.
Se si vuole – come si spera che
si voglia – risolvere il problema dei femminicidi, occorre ripensare certe
sconsiderate concessioni ad libitum.
Si obietta: ma così si frena il processo di liberazione della donna. Ammettiamo;
ma nel caso contrario, si accelera il processo di disgregazione e di
disfacimento non dell’uomo ma della civiltà umana.
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