Il referendum inglese del 23 giugno 2016 ha
decretato: il Regno Unito lascia l’Europa. Poco conta l’irrisorio scarto tra
favorevoli e contrari (51,9 a
48,1). Dispiace per i convinti europeisti, tra i quali ci siamo sempre
annoverati e ci annoveriamo, ma gli inglesi hanno avuto coraggio a dare un
messaggio forte ad un’Europa, che, al di là, di questioni bancarie e
finanziarie, di quote latte e di standardizzazioni di banane e cetrioli, non sa
affrontare nessun problema umano, popolare, culturale.
Non era e non è questa l’Europa
che volevamo; e neppure quella di De Gasperi, Adenauer e Schuman, che certo non
immaginavano tanta inconcludenza di fronte a tanto rischio.
Che volevamo? Volevamo l’Europa
dei popoli e non di un’ideologia unica e prevaricante. L’Europa che nasceva
dalla storia dei suoi popoli, delle sue genti, tutte parimenti rispettate e
aventi pari dignità. L’Europa del Benelux non è l’Europa vera. L’ideologia dei
diritti individuali a scapito dell’insieme, della società e della storia è
un’imposizione intollerabile, negatrice di ogni libertà, di ogni diversità, di
ogni diritto ad essere quel che la propria storia ha prodotto nei secoli. I
popoli sono come corsi d’acqua che si scavano il loro percorso nella roccia e
scorrendolo raggiungono il mare con la loro identità.
Per l’Europa così com’è vale il
tormento catulliano per la
sua Lesbia : ti odio e ti amo. Ti odio per i tuoi tradimenti e
per le tue stravaganze, ti amo per la tua bellezza e per il tuo affetto.
Ha pesato sul voto – inutile
negarlo – il fenomeno dell’immigrazione, nei confronti del quale l’Europa si
sta comportando né più né meno di come a giusta ragione predica il papa, che è
però politicamente irresponsabile: accoglienza senza limiti e confini. Di più.
Si vuole far credere che l’accoglienza sia un affare per l’Europa, con evidente
disprezzo dell’intelligenza dei cittadini, che sanno invece rendersi conto da
sé non solo della realtà delle cose ma anche di quanto i governi raccontino
bugie. Si dice che al regresso demografico degli europei si fa fronte con un
progresso demografico degli immigrati, solo preoccupandosi di produzione, consumismo e pensioni. Sicché, in
una cornice di arretramento generale della popolazione, mentre diminuiscono gli
europei aumentano africani e asiatici. Non ci vuole molto a capire dove porta
il trend: ancora poche altre generazioni e l’identità europea è fortemente
compromessa, con chissà quali drammatiche conseguenze. Altro che radici
cristiane! Qui ci dobbiamo preoccupare di conservare qualche cespuglio in una
foresta di simboli estranei.
Ecco perché salutiamo il no
dell’Inghilterra con preoccupazione, sapendo che ogni cambiamento produce
incertezza e imprevedibilità, ma anche con spirito positivo di recupero del
perduto nell’augurio che qualcosa sarà rivisto in questa Europa.
L’Inghilterra degli uomini e non
solo delle merci ha avuto ragione; ha detto basta. Un basta tanto più
importante quanto più mette a rischio gli interessi economici del Regno Unito,
che nell’ambito europeo godeva di particolari trattamenti, di veri e propri
privilegi. Gli inglesi avevano tutto da guadagnare a rimanere in Europa; e
invece hanno voluto liberarsene. Evidentemente essi credono ancora in altri
valori, in altri interessi, hanno altre aspettative di vita. Sono patetici i rappresentanti
della nostra intellighentia democratica quando si appellano all’ignoranza del
popolo inglese che non sa votare per cose così importanti. E ancor più lo sono
quando distinguono il voto delle province e delle periferie da quello delle
grandi città, dei giovani da quello degli anziani, per esprimere la loro condanna. Un popolo è tale quando vive
nell’armonia di tutte le sue componenti. E’ un bene che gli Icari convivano con
i Dedali.
La prima spallata all’Europa,
dunque, l’ha data un paese che forse aveva ragione meno di altri a darla; che
rispetto agli altri, però, ha dimostrato ancora una volta di essere il più
determinato. Dovevamo essere noi italiani a rivendicare per primi un’Europa
diversa, più rispettosa dei popoli e della loro storia, della loro cultura e
della loro tradizione. Siamo il più violentato paese del contesto europeo, e
invece di rivendicare il diritto ad essere noi stessi, quali siamo stati in
secoli e secoli di civiltà, non solo rimaniamo in silenzio, ma ci pieghiamo
continuamente a filosofie di vita a noi estranee, che irridono ai nostri
valori. Un Buttiglione messo alla porta perché cattolico e contrario
all’omosessualità è uno schiaffo che ancora brucia. Una Merkel che impone
Juncker alla presidenza della Commissione contro il parere di Cameron, che
minaccia reazioni importanti – vedere i giornali del 2014 – appare oggi come
una sfida che gli inglesi non hanno dimenticato di vincere. Un Sarkozy che
manda subito i bombardieri in Libia per imporre il suo primato in Europa è un
altro segno incancellabile degli egoismi e dei nazionalismi mascherati. E si
potrebbe continuare all’infinito con episodi di questo genere fino alle
intromissioni in Italia contro Berlusconi e le sanzioni contro la Russia per la
vicenda ucraina, quando è lampante la responsabilità europea nella crisi tra i
due paesi ed altrettanto lampante è la perdita economica delle aziende europee
in un quadro di perdurante crisi economica globale.
Guardiamo agli inglesi con
rispetto perché hanno dimostrato di avere personalità di popolo coraggioso e volitivo.
Preoccupiamoci, invece, di noi stessi che continuiamo a coltivare assurdi sensi
di colpa e complessi d’inferiorità e ci teniamo quel che che ci passa il
convento di Bruxelles.
Ora i perdenti, nostrani
soprattutto, piangono come tante prefiche, denunciando l’azzardo di Cameron
nell’avviare il referendum e pregustando il disgregarsi del Regno Unito.
Piangono un morto, che invece è vivo, e non si accorgono che i vivi che hanno
in casa sono invece morti.
I vincenti, invece, alcuni leader
di destra di Francia e Olanda in primis, hanno annunciato referendum nei loro
paesi in emulazione di quello inglese; ma non si rendono conto che le loro
situazioni sono diverse da quella britannica.
Ma, al di là degli umori
contrastanti, lo scenario che si presenta oggi in Europa non è per niente
chiaro e l’immagine di un’Europa colpita fa pensare più che alle rovine che
ancora non ci sono, ad un palazzo sicuramente lesionato, di fronte al quale si pensa o di abbatterlo o di ripararlo.
Nell’uno come nell’altro caso la situazione ci suggerisce che più di qualcosa
che ci riguarda è cambiato.
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