domenica 29 agosto 2010

Fini e l'equivoco dei rautiani

Si chiama “Futuro e Libertà” il gruppo parlamentare creato da Gianfranco Fini, tornato leader di partito e “incompatibilmente” presidente della Camera. A settembre – dicono – si ufficializzerà la nascita del partito con questo nome. E’ soprattutto la parola “Futuro” che ha fatto rievocare un linguaggio politico già noto negli ambienti della destra; ma più che quello marinettiano, precisamente quello rautiano.
Pino Rauti, nel 1976, per fronteggiare il moderatismo retro di larga parte del partito che spingeva ad inserimenti nel sistema, che avrebbe portato di lì a poco alla scissione di Democrazia Nazionale, e per arrestare il lento declino del Msi-Dn (nelle elezioni del 1976 era sceso dall’8,68 al 6,12), fondò una corrente che chiamò “Linea Futura”. Lo fece con un documento molto articolato dallo stesso titolo, che presentò in Comitato Centrale, con chiare intenzioni di rilanciare il partito su basi politiche nuove. Un paio d’anni più tardi la corrente assunse il titolo “Andare oltre” e nel marzo 1979 Rauti fondò “Linea”, il quindicinale che avrebbe dibattuto e veicolato i nuovi contenuti.
Quali le novità di Rauti? Anzitutto va detto che il Msi, fin dalla sua nascita, dicembre 1946, si era occupato di grandi problemi social-nazionali (politica estera, sicurezza, sanità, previdenza sociale, lavoro, forze armate, scuola e soprattutto storia in chiave di difesa del fascismo). Dei problemi sociali più diffusi e minuti, direi frammentati e individuali, quelli, per intenderci, di ogni giorno e della nuova cultura (politiche giovanili, comunicazione, ambiente, tempo libero, ecologia, spettacolo, arte, cinema, musica, intrattenimento, narrativa, fumetti, poesia, teatro ecc. ecc.) nemmeno a parlarne, quasi fossero frivolezze e distrazioni dalle quali tenersi lontani. Si correva il rischio che gli anziani ti accusassero di debosciamento, di esserti appiattito su posizioni borghesi o peggio ancora di sinistra. In quegli anni, per intenderci, un Luigi Tenco o un Bruno Lauzi, due cantautori notoriamente di destra, non trovavano nel partito né attenzione né protezione. Non così per quelli di sinistra, che nel partito e dal partito traevano successo e guadagni.
Rauti, che pure aveva dedicato diversi anni della sua vita ed importanti iniziative di studio alla grande storia, alla grande politica, ai grandi ideali dello spirito, con “Linea Futura” volle iniziare un percorso nuovo. Quello dei problemi della gente e soprattutto dei giovani per contendere palmo a palmo il terreno alla sinistra, che delle riferite problematiche per anni aveva avuto il monopolio. L’approccio doveva essere metodologico prima di tutto. Bisognava creare strutture parallele, formalmente staccate dal partito, sostanzialmente però ad esso funzionali ed organiche. Questo non solo perché nel partito, fortemente ancorato alla grande politica d’ispirazione almirantiana, simili iniziative non trovavano sostegno, ma perché in questo modo era più facile l’azione di conquista di spazi sociali nuovi. Queste strutture dovevano appunto occuparsi dell’universo politico giovanile e dimostrare che c’era una destra che non parlava soltanto di Stato e di Nazione, di storia e di fascismo, di Gentile e di Evola, ma anche di musica, di ambiente, di comunicazione, di disagio e via di seguito. Come Gramsci, Rauti riteneva che il potere politico si conquista dopo aver conquistato quello culturale. E’ per questo, più che per altri aspetti, che Rauti è passato nel linguaggio giornalistico, sempre ad effetto ed esemplificativo, come il “Gramsci nero”. In buona sostanza, se Almirante contendeva il terreno politico alla Democrazia cristiana, con la sua politica moderata e rassicurante, nei palazzi della nobiltà romana e nelle piazze del popolo, Rauti quel terreno lo voleva contendere al Partito comunista nei luoghi della società minuta. A sinistra si accorsero della minaccia e Giorgio Galli su “la Repubblica” del 16 gennaio 1979 parlò di “Fascisti in camicia rossa”. Sicché nel primo numero di “Linea” Rauti gli rispose con un lungo articolo: “Non ci mettiamo in camicia rossa, ci riprendiamo quello che è nostro” (1° marzo 1979); in cui indicava, esemplificando, il “popolo”, ma alludendo chiaramente a quelle aspettative popolari che già il fascismo aveva saputo soddisfare e che il comunismo non era più in grado di farlo.
Chi furono i rautiani? Occorre riflettere prima di concludere, come oggi con leggerezza si tende a fare, che i finiani di oggi sono i rautiani di ieri solo perché con Fini, dopo l’espulsione dal Popolo della Libertà, si sono schierati alcuni che allora fecero la scelta di Rauti. In Fini e “amici” deve regnare la confusione totale se “Generazione Italia”, che è un po’ l’organizzazione sul territorio del loro costituendo partito, ha preso come simbolo quello di “Democrazia Nazionale”, di quel partito cioè che nel dicembre 1979 fece la scissione proprio perché non sopportava il radicalismo di Rauti.
A “Linea Futura” e successivamente ad “Andare oltre” aderirono soprattutto giovani. Alcuni in maniera acritica, suggestionati dalla novità e dal fascino che esercitava allora Pino Rauti, politico “immeritatamente” coinvolto nel terrorismo nero, reduce di Salò, ma soprattutto intellettuale sottile, moderno e quadrato. Aderirono quelli che solitamente cercano spazio politico ed opportunità di carriera politica. Questi, a rigore non potevano dirsi rautiani, come poi dimostrarono approdando altrove. Altri furono rautiani veri. Ma anche qui va fatta una distinzione, fra quelli che si limitarono al rautismo tattico (occuparsi di problematiche sociali e attuali) per conquistare gli spazi lasciati vuoti dalla sinistra in crisi, e quelli che rautiani lo furono fino in fondo, anche a livello strategico. Mi spiego: occuparsi di ambiente o di cinema non era di per sé rautismo; era rautismo se a simili problematiche si dava il taglio indicato dalla linea rautiana, che gli osservatori politici hanno sempre rubricato come radicalismo di destra.
Rautiani veri o integrali – per capirci – non ce ne sono più in circolazione, spazzati via dalle variabili della politica che hanno trasformato soggetti e strumenti di questi ultimi vent’anni, compresa la destra, ex missina ed ex aennina. Mentre ci sono alcuni che rautiani lo furono solo per tattica. Essi, come Adolfo Urso, Silvano Moffa, la Flavia Perina, stanno con “Futuro e Libertà” ovvero con Fini. L’essere stati rautiani ieri e finiani oggi induce a pensare che rautiani e finiani siano la stessa cosa. Nulla di più approssimativo. E’ completamente cambiato il teatro politico, la società, le aspettative della gente, se non vogliamo proprio dire che essi stanno con Fini, nella convinzione di avere un futuro che nel Popolo della Libertà pensano di non poter avere. La Perina, poi, direttore de “Il Secolo d’Italia”, non può mettersi contro il suo editore.
Quanto a Fini, a parte ogni specifica considerazione, che sarebbe di cattivo gusto, è l’esatto contrario di Rauti. Rauti cercava di conquistare spazi politici contendendoli alla sinistra; Fini cerca di conquistare la sinistra per sottrarre spazi alla destra e a chi oggi, degnamente o indegnamente, la rappresenta. Rauti non cercava di conquistare spazi politici semplicemente sostituendosi agli altri, ma scacciando le idee degli altri con le proprie. E’ di tutta evidenza che il caso Fini attiene a quel profilo della politica che si esaurisce nella conquista del potere personale, che è il profilo più feroce, irrazionale e fanatico. Ma la politica, per fortuna, nonostante i cambiamenti e le variabili, ha altri profili, che si esprimono e si esercitano sempre in senso plurale e sociale.
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domenica 22 agosto 2010

Salento, terra d'impazzimento

Ai tempi di “Voce del Sud”, il settimanale leccese degli Alvino, riempivo il vuoto editoriale della pausa agostana buttando giù noterelle quotidiane, che pubblicavo poi come diario, alla ripresa settembrina, col titolo “agostità”. Non c’era giorno – ricordo – che in Italia e nel mondo non accadessero delle cose inusuali, curiose, stravaganti; quelle cose, insomma, che fanno la gioia dei corsivisti. Poche righe, per accennare al fatto come a telegramma, e poi fulminante la battuta finale. Così per diversi anni, al punto che m’ero convinto che agosto è un mese particolare, che produce una ricca varietà di “minchiate” – salentine, da non confondere con le fiorentine, che sono altra cosa – al pari di fichi e fichidindia, che maturano nello stesso mese.
A distanza di qualche anno le “minchiate” agostane si sono espanse, moltiplicate ed istituzionalizzate, perché nel mondo sempre più occidentalizzato la stravaganza ormai è norma. Il centro è “La notte della taranta”, che ha figliato edizioni locali nei vari paesi intorno alla “capitale” Melpignano, luogo una volta di preghiera e di riflessione. Dappertutto è oggi un fiorire di sagre e di feste, dove si balla immancabilmente la pizzica, con animatori a pagamento. Persone di tutte le età si agitano come pupi siciliani animati da fili. Ad onta del mos maiorum, mamme e papà, nonni e nonne, senza pudore alcuno, fanno la parodia di quei poveri disgraziati che una volta erano davvero “tarantati” e avevano bisogno di San Paolo più che dell’animatore.
A Ruffano, in occasione della Madonna dell’Assunta, si sono inventati di sana pianta, in quest’anno domini 2010, una sfilata storica di cavalieri in costume. Ma quando mai! Inventarsi una tradizione è un ossimoro, un assurdo assoluto. A Torrepaduli, che è ad un tiro di schioppo da Ruffano, hanno trasformato le esibizioni tradizionali di quattro ubriachi, che nella notte di San Rocco mimavano duelli rusticani, i cui protagonisti finivano immancabilmente per suonarsele davvero, in danza delle spade. Che cosa non si fa per il turismo e per i…soldi!
Le antiche masserie, dove i nostri antenati sboccavano il sangue a lavorare e produrre, da sole a sole, per riempire i magazzini, le cantine, gli stipi e le scansìe di roba per l’inverno, sono state trasformate in mangiatoie, dove agli abbuffamenti animaleschi si aggiungono spesso orge altrettanto bestiali. Si dice, per festeggiare l’addio al celibato, con tanto di puttane pagate e svergognati depressi in improbabili verifiche di virilità.
Perfino vecchi opifici, dove si lavoravano i prodotti della terra, sono stati trasformati in ristoranti, locali di divertimento e bagordi. Mi dicono sempre affollatissimi. Si fa la fila per un tavolo. Qualche volta si litiga e ci si picchia. La gente non arriva alla fine del mese con lo stipendio, con la pensione, col salario; ma essa evidentemente ha imparato a procedere come i canguri, a salti: marsupio vuoto e pancia piena.
La portentosa metamorfosi del Salento da terra di lavoro, di sofferenze e di malattie sociali, a terra te paccìe è accompagnata da un’opinione pubblica invasata. I giornali si adeguano: parata di giovani morti ammazzati sulle strade in prima pagina e parata di culi all’interno, rigorosamente anonimi. La colpa delle stragi è delle strade, che sarebbero inadeguate; quella dei culi… bah, lasciamo stare. Qui i giornali probabilmente risparmiano. Chi può riconoscere un culo d’annata? Si rinnovi almeno il parco iconografico! Qualcuno se la prende con le auto e con le moto, troppo veloci. Insomma, la colpa è delle cose e non invece di chi le usa, a capriccio; e, dotato di libero arbitrio o piuttosto incapace di arbitrio, potrebbe correre o non correre, uccidersi o non uccidersi. Pietas a parte, quei giovani andrebbero segnalati a Dominedio per un periodo di giusta attesa, prima che fossero accolti in paradiso, come i morti insepolti della tradizione pagana nei campi elisi.
Noi, nel Salento, abbiamo una delle più ricche e comode reti viarie d’Italia; eppure se ne vogliono costruire altre, a sfregio del paesaggio, naturale e storico. Ciononostante non passa giorno che non ci siano dei morti in incidenti stradali. Del resto anche nelle strade interne dei paesi si circola alla cazzo di cane e ogni volta che riesci a tornare a casa senza conseguenze devi ringraziare Dio per come ti è andata.
Lo so, lo so. Non è meglio oggi – dirà qualcuno – di quando si moriva di fame o in guerra? Non lo so, onestamente, se è meglio; conosco tanta storia per dubitarne. Ma ammettiamo pure che lo sia. Il punto è un altro: perché porre la questione in termini così radicali, o morire di fame o di soffocamento di sangue; o morire nel deserto per i pozzi di Ual Ual o per strada per impazzimento da droga o da alcool? Non c’è proprio niente in mezzo a questi due estremi?
I segni – signori – i segni! Non ci vuole una grande preparazione in semiotica per capire che se si trasformano delle vecchie strutture di lavoro in strutture di svago, senza costruirne di nuove, seguirà un processo d’impoverimento economico, mascherato dall’effimero divertimento. Una volta chi bruciava un vecchio giogo di buoi per riscaldarsi faticava ad esalare l’anima, no nne ssìa l'anima, prolungando l'agonia. Così si diceva. Un simbolo di fatica va sempre e comunque rispettato. Una volta dalle tradizioni si ricavavano insegnamenti; oggi si ricavano puttanamenti e scialo.
Ma il Salento che si diverte, che balla, che mangia, che beve e che si propone come una sorta di Sodoma dilatata, è una regione che dipende sempre più da quelle che producono; perciò è destinata, dopo la breve cicalata, ad entrare nel vortice di una crisi ancor più brutta di quelle che noi abbiamo avuto la fortuna di non vivere ma che ricordiamo per testimonianza ricevuta.
Ora si è tornati a proporre l’autonomia regionale, una sorta di Salentilandia per godimenti vari. Sinite gaudentes venire in Salentum, va bene; ma se i gaudentes ad un certo punto non hanno più la possibilità di gaudere, noi che faremo? Saremo costretti a tornare alle cicurine e agli zanguni e forse anche alle tarantate vere. Che Dio non ascolti!
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domenica 15 agosto 2010

Regione Salento, un'altra volta!

L’ultima volta in cui si parlò della Regione Salento fu una decina di anni fa. Non portò bene ad alcuni dei suoi promotori, che tanto si diedero da fare per un po’ di mesi, con la “guida” speciale di Ennio Bonea, che ne parlò diffusamente e dettagliatamente sulle pagine di “Espresso Sud” dell’amico Nicola Apollonio (Anno XXIII-2000, nn. 2/3/4). Fra di essi il commercialista Granfranco Napolitano e soprattutto il senatore Emanuele Filograna, l’uomo del “Postal Market”, che presentò un disegno di legge, l’uno e l’altro finiti in un mare di guai. Non certo a causa dell’ipotetica regione, s’intende!
Bonea fece, allora, un excursus storico e insieme politico della Regione Salento, partendo dalla Costituente del 1946, dalla proposta sulla sua “Tribuna” nel 1969 e dall’inchiesta nel 1996 del “Quotidiano di Lecce”, con i vari passaggi, i punti di vista, le posizioni di politici e intellettuali. Ma soprattutto mise in evidenza le approssimazioni, le contraddizioni e le insidie, che la nuova proposta avrebbe comportato.
Altri personaggi importanti che aderirono più o meno entusiasticamente furono Lorenzo Ria, allora presidente della Provincia e dell’Upi (Unione province italiane), e il prof. Carmelo Pasimeni dell’Università di Lecce. Molti politici, come spesso fanno da un po’ di anni a questa parte, si buttarono sopra per tema di arrivare in ritardo. Roberto Tundo di An, allora consigliere regionale, dalla sua “Contea” la sponsorizzò subito con tanto di logo.
Ne parlarono per un anno tutti i giornali. Anche “Presenza” ospitò degli interventi. In favore dell’iniziativa si dichiararono argomentando l’avv. leccese Cesare Taurino (La Regione Salento è una necessità, gennaio-febbraio 2010) e Roberto Tundo (Il Salento deve essere Regione, marzo 2010). Ma già a dicembre, il sottoscritto, direttore di “Presenza”, che pure aveva inviato una lettera di adesione al documento fondativo “Carta 14 giugno”, peraltro senza mai avere una risposta, l’iniziativa si era sgonfiata e si era rivelata per la solita strumentalizzazione di qualche politico rampante e faccendiere, nel nostro caso Emanuele Filograna (Regione Salento. Toh, se ne riparla!, dicembre 2010).
Ci si era quasi dimenticati, in presenza anche di una crisi finanziaria che consiglierebbe oggi di contenere la spesa pubblica. Ma soprattutto perché in Italia quando si parla d’introdurre una qualche riforma, scattano tutti gli impedimenti possibili e immaginabili. Si pensi che nel programma elettorale del centrodestra per le elezioni del 2008 si incluse l’abolizione delle province; poi si corresse il tiro: abolizione delle province troppo piccole, inutili e superflue; alla fine, quando si è cercato di mettere mano all’abolizione di qualche insubre provinciucola, è stata minacciata la guerra civile. Nel segno della saggezza latina: quieta non movere! Non per nulla la civiltà latina è sorta in Italia. E al Nord, altro che celti!
E’ bastato, però, che il noto vignettista Giorgio Forattini venisse nel Salento in occasione del Premio “L’olio della poesia 2010” e spendesse qualche bel complimento per la nostra terra, così bella e così diversa dal resto della Puglia, perché si tornasse alla carica.
“Ma perché non rivendicate la creazione di una vostra Regione? – ha detto Forattini a chi lo intervistava – Voi non c’entrate proprio col resto della Puglia. Siete un’altra cosa”. E a chi un po’ banalmente gli chiedeva da che cosa si sarebbe accorto che il Salento è altro dalla Puglia, la matita più celebre d’Italia ha risposto quasi meravigliato: “Io viaggio per tutto il mondo, ho l’occhio allenato ad accorgermi. Vi dico che il Salento è una realtà a sé”. Ipse dixit.
La macchina politico-mediatica si è subito messa in moto. Personalità del mondo della politica, dei media, dell’arte, dell’economia si sono già dichiarate in favore. I sindaci delle tre province interessate, Lecce-Brindisi-Taranto, presto porteranno la cosa ai Consigli comunali. Si stanno nuovamente scomodando i lavori della Costituente, quando il salentino Codacci Pisanelli era riuscito ad inserire il Salento fra le regioni da approvare e il barese Aldo Moro brigò per farla escludere.
Ma si farà? Ne dubitiamo. Non si vedono, in verità, ragioni forti per procedere ad un’operazione che oggi più di ieri è hors de saison. Intendiamoci, i motivi di lamentela non mancano: linee ferroviarie importanti che non vanno oltre Bari, capitale troppo decentrata per una regione lunga, importanti infrastrutture che escludono la penisola salentina, servizi di risulta, spartizione di fondi ingiusta e barionnivora e via di questo passo. Tutte ragioni valide, ben al di là della storica rivalità Bari-Lecce, che dal 1970 ad oggi ha visto alternarsi alla presidenza della regione ora un barese ora un leccese, con la sempre più striminzita compagine salentina di assessori.
La nuova regione suscita qualche perplessità proprio sulla sua presunta compattezza. Non dimentichiamo che appena qualche mese fa la provincia di Taranto per bocca del suo presidente prese le distanze dal Grande Salento, rivendicando lo specifico della sua jonicità. Non è che alla fine, posto che si riconosca l’opportunità di fare una regione per conto nostro, ci scanniamo poi con tarantini e brindisini su quale città deve essere la capitale e finiamo come è finita la sesta provincia pugliese che non si capisce come si chiami e che cosa sia? Non è che alla rivalità con Bari noi leccesi aggiungiamo le meno esaltanti rivalità con Taranto e Brindisi? Riflettiamo, gente; riflettiamo!
Piuttosto che fare come tante coppie di coniugi che alle prime difficoltà ricorrono a separazioni legali e divorzi, perché i nostri rappresentanti istituzionali non s’impegnano a tutti i livelli perché la Puglia non si fermi a Bari? Francamente non credo che noi salentini possiamo dire di non essere pugliesi. Saremmo più poveri se perdessimo la comune appartenenza ad una regione, che è tale, pur nella diversità. Eravamo le Puglie. Ci ricordiamo? Il Salento, olim Terra d’Otranto, è una delle tre, con Capitanata e Terra di Bari. Dovremmo semplicemente cercare le ragioni dello stare insieme e rafforzarle. Perfino nella nostra tradizionale rivalità dovremmo augurarci che essa sia più sana, che si fondi su fatti più produttivi; non certo che scompaia per essere diventati nel frattempo dei “forestieri”. Occorre continuare ad essere orgogliosi di essere salentini proprio perché pugliesi e che i pugliesi tutti siano orgogliosi di comprendere anche i salentini.
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domenica 8 agosto 2010

Ma dietro a Fini chi c'è?

Berlusconi può piacere anche per l’insistente e ottusa persecuzione, cui è sottoposto da tanti anni e da tanta gente, anche – a dire il vero – rispettabile, uomini d’onore per dirla col Marco Antonio del “Giulio Cesare” scespiriano. Nei giorni in cui si consumava il divorzio con Fini, Giovanni Sartori – e dite voi se Sartori non è un uomo d’onore! – scrisse sul “Corriere della Sera” che sarebbe iniziato lo shopping di Berlusconi per accaparrarsi quanti più deputati possibile. A quanto pare, non solo non c’è stato shopping da parte sua, ma addirittura lo shopping lui l’avrebbe subito.
L’ultima ad involarsi per altri lidi, non si sa come e non si sa perché, è stata Chiara Moroni, trentaquattresimo parlamentare finiano. Poteva dire la Moroni: signori, amici, onorevoli colleghi, il discorso che fa oggi Fini mi persuade di più, me ne vado con lui. Nessuno avrebbe avuto da obiettare. Invece ha cercato di nobilitare una patacca con un’argomentazione, che, oltre ad essere di cattivo gusto – non è mai una bella cosa servirsi dei morti, neppure quando sono i tuoi – non sta né in cielo né in terra. “Per mio padre – ha detto non ci furono garanzie di sorta; per Caliendo tante, mi astengo e me ne vado”. In buona sostanza questa la sua giustificazione. E che c’entra? Proprio perché non si ripetessero tragedie simili a quella di suo padre, il PdL si è schierato a difesa di un uomo che al momento ha solo ricevuto un avviso di garanzia. La Moroni, proprio per questo, avrebbe dovuto votare in favore di Caliendo, sapendo di votare in favore di suo padre e onorarne la memoria.
Ma il caso Moroni è di quelle lampadine che illuminandosi permettono di vedere anche in quelle zone d’ombra dove prima non si riusciva a vedere. Intanto nessuno ha dato atto a Berlusconi che non ha fatto shopping, nessuno gli ha chiesto scusa per l’ingiusto sospetto, ed anzi si sono tutti compiaciuti che il furbastro, questa volta, è stato ingannato dai suoi servetti, i quali fanno come i cortigiani ricordati dall’Ariosto, pronti a dirgli che ha ragione “se ben dicesse c’ha veduto il giorno / pieno di stelle e a mezzanotte il sole”. Essi gli avevano assicurato che con Fini c’erano soltanto quattro gatti.
Dunque, niente scuse. Berlusconi è uno di quei personaggi che giustificano qualsiasi cosa gli venga detta o fatta contro, tutto e più di tutto l’odio infinito, immotivato, senza se e senza ma, come direbbe l’on. Casini dopo aver premesso che lui è una “persona seria”. Ingannato Berlusconi? Che goduria e ben gli sta!
Ma è stato davvero ingannato Berlusconi? Non pare. Quattro gatti erano i finiani, ed erano anche troppi, perché dirsi finiano non è un bell’affare, è come dirsi seguace del nulla, una sorta di nichilista taroccato in Cina. Se è arrivato a contare ben trentaquattro deputati e dieci senatori – 44 gatti in fila per sei col resto di due… sfotticchiava qualche giorno fa Gian Antonio Stella sul “Corsera” – è perché c’è qualcun altro che ha fatto shopping per lui. Proprio l’immotivata scelta della Moroni fa pensare che dietro questo andare dietro al nuovo pifferaio ci sono le pressioni, le lusinghe, le promesse di chi sa chi e chissà perché. I tempi che verranno non saranno lontani e soprattutto non saranno avari di informazioni o di rivelazioni.
Fini dice di avere le idee molto chiare. Può essere che lo dica per farsi coraggio, come quando si canta al buio per darsi un tono. Lui lo fa spesso, ora toccandosi il bordo della giacca o la cravatta, ora guardando il cellulare, ora stringendo la bocca in un gesto di contegno psicologico. E’ la sindrome di chi sa di trovarsi in un posto sproporzionato alle sue capacità. E’ una storia vecchia. Certe situazioni si ripetono. Fu Almirante a metterlo in un posto immeritato. E’ stato successivamente Berlusconi. In crescendo, chi vorrebbe oggi metterlo in un posto che certamente, come i precedenti, è regalato? Penserei a Benedetto XVI se Fini fosse un ecclesiastico; ma non lo è…ancora! Può essere perciò che lui sia al centro di una macchinazione politica, di quelle molto importanti che in genere si mettono in essere per impedire che accada qualcosa o per farne accadere un’altra altrettanto importante, una macchinazione alla grande.
Su Berlusconi grava oggi qualche Catone importante, a parte le caterve di figuranti che si agitano e si contorcono nell’opposizione, il quale non ha il coraggio o forse non può esordire in Senato: Berlusconus delendus est.
Facciamo un’ipotesi. E se si volesse fermare un processo che sta portando pericolosamente il Paese verso la divisione proprio nell’anno del 150° anniversario dell’Unità? Non è tanto il federalismo, che, se applicato nella condivisione e nel rispetto di tutti, potrebbe anche sortire effetti positivi; è il clima che è stato creato nel Paese di feroce – vorremmo dire antipatica, ma forse il termine sarebbe inadeguato – contrapposizione tra il Nord della Lega, che Berlusconi cavalca per ragioni di stabilità governativa, e il Sud di quasi un nuovo ciellenismo, in cui ci sono proprio tutti. Al centro di questa operazione, che è assai più arrischiata di quella che potrebbe scaturire da un normale lasciar fare verso un esito federalistico perseguito da anni, potrebbe esserci lui, il Fini. Se così fosse – e per la verità stento a crederci – lui avrebbe l’opportunità di diventare nientepopodimeno un padre della patria. Dite voi, vi sembra possibile? No, dico: un Fini, padre della patria? E che patria sarebbe mai?
Torno in me e mi dico: forse hai passato gli anni della tua formazione a mitizzare anche le mediocrità. Non sarà che ora gli anni e le cose che hai visto ti portino a dissacrare anche le divinità? Non lo so. Ma uno che, per aver perso il ruolo di “successore di Cesare”, si scopre l’alfiere della questione morale mentre, per sé, ha comportamenti immorali – e non penso solo alla casa di Montecarlo – è credibile? No. Ma se c’è ancora chi crede in lui, vuol dire che qualcosa si muove nell’ombra. Dove è arrivata la luce della lampadina accesa involontariamente dalla Moroni, che, per onorare suo padre, avrebbe voluto vedere il sottosegretario Caliendo appeso ad una corda, morto suicida per la disperazione. No, non è possibile!
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domenica 1 agosto 2010

Fini verso l'ultima camicia

E’ davvero strano che si continui ad accreditare Gianfranco Fini come uno che ha una precisa idea di democrazia e che per questa idea, assolutamente diversa da quella di Berlusconi, ha tanto fatto che alla fine è riuscito a rompere il capolavoro politico che lui stesso aveva contribuito a creare.
Di quale idea si tratti non è dato saperlo. Se lo chiedono, incerti, politologi e osservatori vari. Una democrazia parlamentare, dice qualcuno, in opposizione alla democrazia plebiscitaria di Berlusconi (Michele Ainis, La Stampa del 31 luglio). Ma non convince, è una risposta che sta più nell’astratto di un’ipotesi di favore che nella realtà della storia di questi ultimi vent’anni.
La verità è che nessuno sembra più ricordare la vicenda politica di Fini e tirare il filo della matassa. Non si tratta di amnesia spontanea; è che nessuno, magari anche per non mortificare quello che oggi sembra il più forte antagonista dell’onnipotente, vuole far passare il Presidente della Camera per quello che è: un opportunista che non indugia minimamente a cambiare, rinnegare e tradire, pur di fare un passo avanti verso le “magnifiche sorti e progressive” del suo io politico. Le idee politiche per lui sono camicie che cambia come l’occasione suggerisce. Uno, che mentre accusa Berlusconi di cacciare dal partito chi dissente, ai suoi dice: se qualcuno di voi dirà una parola fuori posto lo caccio via. Che sembra una barzelletta. Uno che, eletto da una maggioranza politica alla Presidenza della Camera, non avverte il dovere morale e politico di dimettersi quando quella maggioranza lo ha sfiduciato, in quanto non più al di sopra delle parti, ma pars in partibus.
Perché, allora, ha cambiato l’ultima camicia? Semplice: pensava due anni fa che la successione a Berlusconi nel partito unico e nel governo fosse scontata, commettendo un errore di valutazione incredibile, perché poi,  attribuisce a se stesso meriti che il più delle volte sono frutto di fortunate coincidenze. Un buco nella cuffia per uscirsene lo trova sempre. Le cose, in realtà, non si sono messe come lui pensava. La Lega ha fatto man bassa dei voti di An, dopo che questo partito era stato sciolto nell’acido del PdL, e addirittura del Pd; ha conquistato posizioni nel Parlamento e perciò nel governo. L’uomo forte e in predicato di succedere a Berlusconi è Tremonti, l’indiscusso ministro dell’economia, competente e capace, apprezzato in tutto il mondo, blindato dalla Lega, una risorsa del Paese, del governo e dello stesso Berlusconi. Fini si è visto chiuso in una istituzione dorata, politicamente fuori gioco, e ha incominciato così a menare calci. Ha riscoperto la questione morale, si è ricordato di essere stato missino e giustizialista, ha sfruttato ogni occasione per assumere posizioni contrarie al partito di appartenenza; ha rivendicato visibilità politica; ha sparlato di Berlusconi e poi dei berlusconiani, per mettere in difficoltà la maggioranza. Ha creato, insomma, una situazione dalla quale non si poteva uscire se non con una rottura. E rottura è stata, nella logica del tanto peggio tanto meglio.
Mi piacerebbe pensare, con quel vizio tutto italico di fare analisi dietrologiche, che l’operazione di Fini venga da più lontane e nobili motivazioni. Penso a chi vorrebbe frenare la corsa della Lega verso un federalismo pericoloso per la tenuta dello Stato unitario, proprio nell’anno in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Penso a chi vorrebbe travolgere Berlusconi con un'onda anomale, per fargli chiudere una volta per tutte la sua esperienza politica. Mi piacerebbe che fosse così. Magari così potrebbe anche risolversi se dovesse cadere il governo o se si dovessero determinare eventi che oggi è impossibile prevedere. Ma mi è difficile crederci davvero, aderente come sono e come bisogna essere a quel che è stato e a quel che è, senza supposizioni e senza fughe in avanti.
Quest’ultima impresa di Fini probabilmente si spiega in un contesto politico di disordine, in cui in difetto di idee e di programmi, prevalgono logiche di capi e capetti, che organizzano autentiche bande in attesa di entrare in qualche transitoria coalizione. Come spiegare l’esistenza dell’Udc, quell’organizzazione politica guidata da quella “persona seria” di Casini? E l’esistenza dell’Api di Rutelli? Ed oggi l’esistenza di “Futuro e Libertà”, che sembra pari pari l’opposto della storia politica dalla quale proviene Fini “Passato e Dittatura”? Nessuno vuole essere secondo e perciò si crea una sua piccola banda.
C’è, tuttavia, un’ipotesi da tenere in considerazione, a voler essere buoni, che in qualche modo corregge l’ipotesi negativa di un opportunista voltagabbana. Si dice che quella di Fini sia una destra moderna ed europea. Diamogli pure credito. Ma in che cosa questa destra si differenzierebbe dalla sinistra altrettanto moderna ed europea? Se andiamo a vedere, al di là del profilo di potere in cui sembrano sciogliersi i contrasti, i grandi dibattiti che sono sorti in questi ultimi anni su questioni che attingono e attengono la coscienza individuale, troviamo un’area politica indistinta, dove destra e sinistra sono sulle stesse posizioni: rifiuto di inserire le radici cristiane nella costituzione europea, riconoscimento delle coppie di fatto, procreazione assistita sottratta a qualsiasi riflessione morale, uso della pillola cosiddetta del giorno dopo, testamento biologico, riforme nella chiesa cattolica in direzione di matrimonio dei preti e sacerdozio femminile, liberalizzazione delle droghe. Un complesso di posizioni che nel corso degli anni passati, dai Cinquanta in poi, sono state battaglie dei radicali. La storia – si sa – non inizia ogni giorno, ma segue i giorni passati, in un continuum che non s’arresta. Fini era decisamente contrario ad ognuna di queste cose e al complesso di pensiero dal quale erano prodotte.
Ma è un’ipotesi di servizio, questa. Fini, per un suo congenito modo di essere, potrebbe solo avviarsi verso l’ultima camicia, quella che non potrà più cambiare, perché difficilmente ne avrebbe un’altra da indossare. Ma, a saperla!
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