domenica 22 agosto 2010

Salento, terra d'impazzimento

Ai tempi di “Voce del Sud”, il settimanale leccese degli Alvino, riempivo il vuoto editoriale della pausa agostana buttando giù noterelle quotidiane, che pubblicavo poi come diario, alla ripresa settembrina, col titolo “agostità”. Non c’era giorno – ricordo – che in Italia e nel mondo non accadessero delle cose inusuali, curiose, stravaganti; quelle cose, insomma, che fanno la gioia dei corsivisti. Poche righe, per accennare al fatto come a telegramma, e poi fulminante la battuta finale. Così per diversi anni, al punto che m’ero convinto che agosto è un mese particolare, che produce una ricca varietà di “minchiate” – salentine, da non confondere con le fiorentine, che sono altra cosa – al pari di fichi e fichidindia, che maturano nello stesso mese.
A distanza di qualche anno le “minchiate” agostane si sono espanse, moltiplicate ed istituzionalizzate, perché nel mondo sempre più occidentalizzato la stravaganza ormai è norma. Il centro è “La notte della taranta”, che ha figliato edizioni locali nei vari paesi intorno alla “capitale” Melpignano, luogo una volta di preghiera e di riflessione. Dappertutto è oggi un fiorire di sagre e di feste, dove si balla immancabilmente la pizzica, con animatori a pagamento. Persone di tutte le età si agitano come pupi siciliani animati da fili. Ad onta del mos maiorum, mamme e papà, nonni e nonne, senza pudore alcuno, fanno la parodia di quei poveri disgraziati che una volta erano davvero “tarantati” e avevano bisogno di San Paolo più che dell’animatore.
A Ruffano, in occasione della Madonna dell’Assunta, si sono inventati di sana pianta, in quest’anno domini 2010, una sfilata storica di cavalieri in costume. Ma quando mai! Inventarsi una tradizione è un ossimoro, un assurdo assoluto. A Torrepaduli, che è ad un tiro di schioppo da Ruffano, hanno trasformato le esibizioni tradizionali di quattro ubriachi, che nella notte di San Rocco mimavano duelli rusticani, i cui protagonisti finivano immancabilmente per suonarsele davvero, in danza delle spade. Che cosa non si fa per il turismo e per i…soldi!
Le antiche masserie, dove i nostri antenati sboccavano il sangue a lavorare e produrre, da sole a sole, per riempire i magazzini, le cantine, gli stipi e le scansìe di roba per l’inverno, sono state trasformate in mangiatoie, dove agli abbuffamenti animaleschi si aggiungono spesso orge altrettanto bestiali. Si dice, per festeggiare l’addio al celibato, con tanto di puttane pagate e svergognati depressi in improbabili verifiche di virilità.
Perfino vecchi opifici, dove si lavoravano i prodotti della terra, sono stati trasformati in ristoranti, locali di divertimento e bagordi. Mi dicono sempre affollatissimi. Si fa la fila per un tavolo. Qualche volta si litiga e ci si picchia. La gente non arriva alla fine del mese con lo stipendio, con la pensione, col salario; ma essa evidentemente ha imparato a procedere come i canguri, a salti: marsupio vuoto e pancia piena.
La portentosa metamorfosi del Salento da terra di lavoro, di sofferenze e di malattie sociali, a terra te paccìe è accompagnata da un’opinione pubblica invasata. I giornali si adeguano: parata di giovani morti ammazzati sulle strade in prima pagina e parata di culi all’interno, rigorosamente anonimi. La colpa delle stragi è delle strade, che sarebbero inadeguate; quella dei culi… bah, lasciamo stare. Qui i giornali probabilmente risparmiano. Chi può riconoscere un culo d’annata? Si rinnovi almeno il parco iconografico! Qualcuno se la prende con le auto e con le moto, troppo veloci. Insomma, la colpa è delle cose e non invece di chi le usa, a capriccio; e, dotato di libero arbitrio o piuttosto incapace di arbitrio, potrebbe correre o non correre, uccidersi o non uccidersi. Pietas a parte, quei giovani andrebbero segnalati a Dominedio per un periodo di giusta attesa, prima che fossero accolti in paradiso, come i morti insepolti della tradizione pagana nei campi elisi.
Noi, nel Salento, abbiamo una delle più ricche e comode reti viarie d’Italia; eppure se ne vogliono costruire altre, a sfregio del paesaggio, naturale e storico. Ciononostante non passa giorno che non ci siano dei morti in incidenti stradali. Del resto anche nelle strade interne dei paesi si circola alla cazzo di cane e ogni volta che riesci a tornare a casa senza conseguenze devi ringraziare Dio per come ti è andata.
Lo so, lo so. Non è meglio oggi – dirà qualcuno – di quando si moriva di fame o in guerra? Non lo so, onestamente, se è meglio; conosco tanta storia per dubitarne. Ma ammettiamo pure che lo sia. Il punto è un altro: perché porre la questione in termini così radicali, o morire di fame o di soffocamento di sangue; o morire nel deserto per i pozzi di Ual Ual o per strada per impazzimento da droga o da alcool? Non c’è proprio niente in mezzo a questi due estremi?
I segni – signori – i segni! Non ci vuole una grande preparazione in semiotica per capire che se si trasformano delle vecchie strutture di lavoro in strutture di svago, senza costruirne di nuove, seguirà un processo d’impoverimento economico, mascherato dall’effimero divertimento. Una volta chi bruciava un vecchio giogo di buoi per riscaldarsi faticava ad esalare l’anima, no nne ssìa l'anima, prolungando l'agonia. Così si diceva. Un simbolo di fatica va sempre e comunque rispettato. Una volta dalle tradizioni si ricavavano insegnamenti; oggi si ricavano puttanamenti e scialo.
Ma il Salento che si diverte, che balla, che mangia, che beve e che si propone come una sorta di Sodoma dilatata, è una regione che dipende sempre più da quelle che producono; perciò è destinata, dopo la breve cicalata, ad entrare nel vortice di una crisi ancor più brutta di quelle che noi abbiamo avuto la fortuna di non vivere ma che ricordiamo per testimonianza ricevuta.
Ora si è tornati a proporre l’autonomia regionale, una sorta di Salentilandia per godimenti vari. Sinite gaudentes venire in Salentum, va bene; ma se i gaudentes ad un certo punto non hanno più la possibilità di gaudere, noi che faremo? Saremo costretti a tornare alle cicurine e agli zanguni e forse anche alle tarantate vere. Che Dio non ascolti!
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