domenica 29 maggio 2011

Berlusconi non chieda per chi suona la campana

Domani e dopodomani la gran sentenza. Se Milano e Napoli voteranno per i candidati-sindaco antiberlusconiani, come è nelle cose, Berlusconi dovrà trarne le conseguenze. Il suo governo continuerà, ma non può fare finta che nulla sia successo. Non chieda in giro per chi hanno suonato le campane di Milano e di Napoli. Il morto ce l’ha in casa.
Milano e Napoli sembrano, con la loro abissale differenza, voler chiudere in un “alfa ed omega” il fallimento della sua politica. Dico politica e non governo, perché la prima è la prospettiva di un cambiamento, che non c’è stato; il secondo indica alcuni problemi risolti ed altri no. La politica ha un respiro che il governo non ha. La politica si coniuga al presente e al futuro, il governo solo al presente. Il governo Berlusconi qualcosa l’ha fatta; la politica: zero!
Da qualche tempo Ernesto Galli Della Loggia tenta di suonare il campanello d’allarme sull’inesistenza o inconsistenza del partito cosiddetto del Popolo della Libertà. Invano. Gli hanno risposto puntualmente senza nulla dire di concreto i tre coordinatori, Verdini-Bondi-La Russa, insieme come i famosi tre tenori Pavarotti-Domingo-Carreras. Almeno questi le arie che cantavano erano una delizia per l’udito. Quelli annaspavano in vischiose e contorte elucubrazioni di nessun riferimento ai fatti.
Questo partito non ha mai fatto politica, a nessun livello, se per politica s’intende dibattiti, convegni, congressi, elaborazioni teoriche, piani programmatici, quadri dirigenziali, sezioni, liste elettorali, scelte. Tanti gazebo, tante manifestazioni improvvisate, tanto trasformismo di persone; piccoli eventi giornalieri, nulla che potesse dare l’idea del giorno dopo. Il PdL è stato una confezione vuota, una panòplia luccicante.
E’ andata bene fino a quando Berlusconi è riuscito a dimostrare che la politica del centrodestra era lui, che il governo era lui, che il risolutore di tutti i problemi, dalle macerie dell’Aquila alla spazzatura di Napoli, era lui, che il perseguitato sommo dei pubblici ministeri rossi era lui, che la seconda repubblica era lui, che il Robin Hood dell’italica libertà era lui; e si potrebbe continuare all’infinito, perché tutto in Italia era lui. E’ andata bene fino a quando la sua immagine non è stata seriamente compromessa da vicende inqualificabili, come i reiterati tentativi di approvare leggi che, pur nella comprensibile contingenza di anomala conflittualità magistratura-politica, minavano in radice il principio irrinunciabile della “legge uguale per tutti”; fino a quando non è esploso con tutti i suoi aspetti ignobili il “bunga bunga”, le “olgettine” e l’indecorosa confessione ad Obama dei giorni scorsi nel G8 di Parigi sulle persecuzioni della magistratura italiana. Indecorosa non solo e non tanto perché non era quello né il luogo né il momento per certe squallide improvvisazioni, quanto e soprattutto perché il massimo rappresentante del potere politico di un Paese come l’Italia non cerca comprensione e solidarietà sia pure nell’uomo più potente del pianeta. Berlusconi, purtroppo, non ha mai voluto capire che il Presidente del Consiglio di un Paese sovrano si deve comportare in modo tale da non offendere lo Stato, il popolo, la nazione che rappresenta.
Ma ora le cose incominciano, hanno già incominciato a cambiare. A Milano e a Napoli si deve votare per il Sindaco e l’Amministrazione; per persone e fatti concreti, immediati, non per immagini virtuali e mediate. Una sorta di ordalia, tanto più credibile quanto più lui ha tentato di farla passare come tale: un giudizio di Dio. Che probabilmente gli sarà fatale.
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domenica 22 maggio 2011

Strauss-Kahn o del tallone d'Achille

Il caso dell’ormai ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn, ebreo di chiara origine tedesca, è fatto apposta per dire: avete visto? Chi occupa posti così importanti nelle istituzioni, a qualsiasi livello, non può essere facile preda di chi vuole colpirlo; magari, colpendo lui, per colpire altrove e ben più estesi obiettivi. Ciò, evidentemente, a prescindere, dalla casualità dell’accaduto o dal piano diabolico per incastrarlo. Chi troppo in alto sale cade sovente precipitevolissimevolmente.
I greci, che già 2500 anni fa avevano considerato tutto il considerabile dell’animo umano, ci hanno proposto con Achille, semidio figlio di Peleo e della ninfa Teti, un personaggio che era il non plus ultra della forza e della perizia del guerriero, reso invulnerabile dalla madre per averlo immerso nelle acque dello Stige, ma vulnerabile ad un tallone, in una delle parti cioè meno mortali del corpo. La madre, immergendolo, lo aveva preso per quel tallone. Un’inezia, la sua vulnerabilità. Poi cadde nel tranello di recarsi ad un appuntamento e lì Paride lo colpì con una freccia. Morale della favola: non c’è uomo potente che non abbia il suo punto debole, il proverbiale tallone d’Achille.
Per Strauss-Kahn non si è trattato proprio del tallone, ma di un’altra parte anatomica assai più a rischio di imboscate e tranelli. Era noto che il personaggio soffrisse di sessismo compulsivo, una malattia, per così dire, a causa della quale quando viene viene…la crisi. Uscendo dalla doccia del suo lussuoso albergo, nudo, ha visto la cameriera. Una facile preda per un uomo come lui, straricco e strapotente! Gettarsi sopra e farle la festa è stato un raptus. Un momento, che gli è costato la vita. Parliamo di quella politica. Padreterno dei soldi mondiali e sicuro temibile candidato alla presidenza della repubblica francese. Finito, in un attimo, in maniera volgare, animalesca, stupida come solo gli animali possono essere. Precipitevolissimevolmente.
E’ andata così? E se fosse andata diversamente? Se chi aveva interesse a toglierlo di mezzo, sapendolo “malato” di sesso avesse architettato tutto, con la cameriera procace, provocante in un primo momento per attrarlo e resistente dopo per simulare lo stupro, lasciandogli sul petto dei graffi, segni della prova?
Probabilmente non si saprà mai. Quel che è certo è che per lui è finita. Può anche andargli bene il processo. Può evitare la condanna, tutti o una parte degli anni di carcere ipotizzati per i reati che gli sono contestati. Ma non può recuperare più l’immagine perduta.
Quel che è di lezione, non già per lui, più, ma per chi ambisca ad avere grandi e importanti incarichi nelle istituzioni, è che deve assolutamente sapere se ha o meno scoperti “talloni d’Achille” per evitare di cadere in un tranello o soltanto essere ricattato.
Il caso Strauss-Kahn insegna che un uomo di potere, specialmente quando rappresenta il suo paese ai massimi livelli, non può mettersi nelle condizioni di essere ricattato, perché in quel caso non è tanto e solo lui il ricattato quanto e soprattutto il paese di cui è rappresentante.
Non è stata, la sua, una vicenda da niente. Per lui è una tragedia. Ma, proprio per il ruolo che alle tragedie attribuivano i greci, deve lasciare un segno educativo, esemplarmente forte. Agli altri!
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lunedì 16 maggio 2011

Giovinezza e Faccetta nera: verboten!

Il problema si pose al Festival di Sanremo, quando per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia si pensò di inserire in una compilation di canzoni “Bella ciao” e “Giovinezza”. Dio liberi! “Giovinezza” mai! Immagino che durante il regime fascista la stessa sorte sarebbe toccata a “Bandiera rossa”.
Lo sdegno e l’anatema si sono ripetuti di recente a Lecce nell’Istituto “Marcelline”. Festa di fine anno scolastico. L’Unità d’Italia obbliga a qualche festeggiamento tematico. Facciamo cantare alle bambine “Bella ciao” e “Faccetta nera”. Nuovi eroici furori antifascisti. Si sono scomodati intellettuali e politici, pedagogisti e psichiatri. “Faccetta nera” nemmeno ai cani! Per quanto i versi di questa canzone esprimano i più nobili sentimenti e nessuna sua parola suoni offensiva a chi ha la “faccetta nera”. Ma evoca trascorsi fascisti!
Se dovessimo formalizzarci sulle parole degli inni non dovremmo cantare neppure quello di “Mameli” per via di quell’elmo di Scipio che non s’associa davvero a propositi pacifisti; e nemmeno il Nabucco per i riferimenti a Sion e alle torri atterrate.
Per “Bella ciao”, allora… Eh, ma “Bella ciao” è la canzone della Resistenza e l’Italia è una repubblica nata dalla Resistenza! Sì, ma sarebbe come dar ragione al regime fascista quando proibiva di festeggiare il 1° Maggio, sostenendo che era una festa comunista e l’Italia invece era anticomunista.
In regime fascista sarebbe andata sicuramente peggio. Chi avesse avuto soltanto l’idea di far cantare ai bambini l’”Internazionale” sarebbe finito al confino politico.
In un paese in cui, dopo sessantacinque anni, esiste ancora l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) – lo dico con tutto il rispetto – non vale la pena attardarsi se sia opportuno o meno dare spazio rievocativo ad inni fascisti. Non è opportuno. Amen.
Ma la domanda che uno si pone – e mi pare che legittimamente si ponga – è: sono passati 150 anni dall’Unità d’Italia o soltanto 130, dato che dobbiamo detrarre i venti anni del fascismo?
Non c’è psicanalista che in presenza di un soggetto che voglia rimuovere un periodo della sua vita non diagnostichi qualche turba o qualche ben più grave patologia. Qui non si tratta di un soggetto-persona, ma di un soggetto-società. In Italia c’è una non quantificabile componente sociale, ma alla fine manifestamente prevalente, non dico maggioritaria, che vuole rimuovere venticinque anni della sua vita. Periodo in cui lo stesso soggetto-società pazziava, per dirla alla napoletana, in fanatici abbandoni, smaniando di dimostrare di essere quanto più fascista non si potesse. Ora si vergogna di quel periodo e s’illude di poterlo nascondere? E’ improbabile che riesca, perché se riesce a nasconderlo nella forma, lo tradisce nella sostanza. Come? Proibendo. Non c’è chi non sia d’accordo nel dire che il fascismo s’identifichi immediatamente con l’intolleranza. Che poi si proibisca “Bandiera rossa” ieri o “Giovinezza” oggi poco conta.
Capisco perché un tale, parlandomi dei suoi trascorsi fascisti nel Ventennio, mi diceva: ero fascista ma non potevo vedere i fascisti. Peccato che è morto. Oggi potrebbe dire tranquillamente: sono democratico ma non posso vedere i democratici.
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sabato 14 maggio 2011

Ai signori Giacinto Urso e Giorgio De Giuseppe - lettera

Egregi Signori, perdonatemi se mi rivolgo a Voi in solido, chiamandoVi semplicemente signori. Modo laico non solo, ma anche parola qualificativamente aggettivale. Lo faccio perché siete gli unici democristiani di una certa età e di una certa esperienza, ma soprattutto di una certa educazione politica, in grado di curare la transizione di alcuni importanti basilari valori.
Voi, On. Urso, commentate puntualmente ogni domenica su “Quotidiano” i fatti della settimana, ed avete svolto in maniera eccellente per più mandati la funzione di Difensore Civico della Provincia; e Voi, Sen. De Giuseppe, svolgete quel compito ora con la stessa discrezione ed efficacia.
Avete entrambi occupato cariche politiche ed istituzionali per lunghi anni senza mai un incidente di percorso. Avete diretto il partito, avete amministrato la cosa pubblica, avete rappresentato le istituzioni anche ad alti livelli. Lo avete fatto nel rispetto di un galateo degno del miglior pensatore umanistico-rinascimentale alla ricerca di ideali di vita da rappresentare a precetto.
A voi mi rivolgo non già per un omaggio, che pur meritate – come dire? – alla carriera; ma per una richiesta, per una sommessa preghiera. Siete gli unici oggi sopravvissuti ad un mondo che non è ancora scomparso del tutto ma è sul punto di scomparire. E’ il mondo della politica, quale sintesi di educazione e rispetto degli avversari interni ed esterni, degli uomini e delle istituzioni, nel perseguimento del bene pubblico e nella compostezza privata. Essa, infatti, non è solo questione di stile, ma proiezione etica, nella consapevolezza che la competizione è lo spazio pubblico in cui si esercitano le virtù individuali. In essa l’uomo e l’istituzione sono l’estensione l’uno dell’altra, né l’uno contamina l’altra coi suoi vizi, né l’altra lo tenta con le sue opportunità.
A voi mi rivolgo sapendoVi anche uomini di una certa destra moderata, oggi in sofferenza per le incontinenze di tanti suoi rappresentanti.
Ma, vengo alla mia preghiera. Voi oggi vedete che cosa combinano gli uomini politici, dirigenti di partito e amministratori della cosa pubblica, in qualche modo e variamente riconducibili alla destra pugliese. Sono all’interno del loro schieramento gli uni contro gli altri in maniera scandalosa e dissennata. Voi vedete come per colpa dei loro litigi, delle loro ripicche, dei loro dispetti, consegnano regione e provincie, comuni ed enti, ai loro avversari politici. Voi vedete come mortificano coi loro eccessi verbali e personalistici l’elettorato.
La Puglia poteva essere amministrata dalla Sen. Poli Bortone e invece è amministrata dal comunista Vendola per colpa dei veti di Fitto, di Mantovano e di Perrone; la Provincia ha rischiato di fare la stessa fine per i tentativi guastatori della Sen. Poli Bortone. Correrà lo stesso rischio, con gli stessi protagonisti e per gli stessi motivi, il Comune di Lecce. Un decennio di illuminata amministrazione cittadina della Poli è continuamente deturpato dalle cattiverie dei suoi stessi ex collaboratori. In provincia molti comuni rischiano di essere regalati agli avversari per i litigi continui. Per il loro esclusivismo politico, che ha contagiato i loro referenti periferici, in diversi comuni non sono state presentate le liste per questa campagna elettorale ed in alcuni la destra si è divisa in più liste.
Io credo – e vengo finalmente al motivo di questa mia – che tutta questa gente abbia bisogno di andare a scuola di educazione politica. Credo che nessuno meglio di Voi, per le ragioni anzidette, potrebbe fare un corso, anche accelerato, di comportamenti politici a questi sciagurati, che si stanno comportando come i peggiori democristiani e i peggiori socialisti di una volta.
Spero, se pure questa mia preghiera dovesse cadere nel vuoto ed essere intesa come un inutile esercizio polemico – spero, ripeto – che almeno Voi ne capiate fino in fondo il senso e siate d’accordo con me che simili soggetti alla fine meritano una lezione, preferibilmente da Voi, realisticamente dagli elettori.
Con tutta la stima e l’affetto di uno che non ha mai lesinato critiche al Vostro partito né ha cambiato giudizio, ma ha sempre cercato di distinguere e di imparare.
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domenica 8 maggio 2011

Farmaci: una sovrattassa sulla sofferenza

L’Unione Europea ha imposto all’Italia di adeguare il prezzo dei medicinali a quello europeo. In Italia, infatti, i medicinali costavano di più rispetto agli stessi che si potevano acquistare in altri paesi dell’Unione. Secondo dati forniti da Eurostat nel 2005 uno stesso farmaco costava in Italia il 18 % in più rispetto ad altri paesi europei. Non erano i più cari d’Europa; in altri paesi, come la Germania, il costo era maggiore.
Ma secondo Altroconsumo i prezzi dei farmaci di fascia A (quelli a carico del Servizio Sanitario Nazionale) sono i più alti d’Europa. Ai dati di Altroconsumo la Federfarma ha risposto in maniera dura, smentendo. Ma come al solito in Italia non si capisce mai come veramente stanno le cose. Sta di fatto, però, che le farmacie si rivalgono sui cittadini per farsi integrare il costo facendo pagare loro la differenza.
Ma, ancor meno comprensibile, è quanto è accaduto coi farmaci generici, un ripiego per quei cittadini non in grado di consentirsi i farmaci prescritti dal medico come i più efficaci ma anche i più costosi.
Dal 15 aprile è entrato in vigore il nuovo listino, con l’indicazione del costo per ciascuno dei 4.188 farmaci generici a prescrizione che lo Stato è disposto a pagare, avendo operato un taglio alla spesa sanitaria. Conseguenza è che le aziende devono uniformare il costo dei farmaci a quello che lo Stato rimborsa, né più né meno. Le riduzioni del prezzo, anche del 40 %, comportano però alle stesse una diminuzione di entrate di ben 600 milioni di Euro. Un costo, secondo la Assogenerici, che le aziende produttrici non sono in grado di sostenere; il rischio è la perdita di mercato, la chiusura delle aziende o il loro trasferimento all’estero.
Ma, allora, chi paga? Oh bella! I cittadini, i quali, ormai – un minimo di cinismo non guasta! – incominciano ad educarsi a risparmiare sui medicinali, che una volta sprecavano a più non posso. Ognuno aveva una farmacia in casa; e di farmaci scaduti si riempivano periodicamente i cassonetti della spazzatura. Ma, mentre in tempi di vacche grasse lo spreco è possibile, anche se deleterio, in tempi di vacche magre, invece, come quelli che stiamo vivendo, il risparmio di farmaci non è sempre possibile, in presenza, a volte di soggetti, malati cronici, che hanno bisogno delle medicine come si ha bisogno dell’aria per respirare e dell’acqua per dissetarsi.
No, non si tratta di un timore; ma della realtà. Le farmacie non sono più affollate come una volta e i clienti devono integrare il costo dei medicinali garantendo alle aziende e alle farmacie quel rimborso di cui lo Stato non intende più farsi carico.
Dopo la reintroduzione in Puglia del ticket sulle ricette (1 Euro a ricetta) questo rincaro è veramente insopportabile, non solo e non tanto materialmente, il costo in denaro, per intenderci, che è già importante, ma soprattutto sul piano etico perché si configura come una vera e propria sovrattassa sulla sofferenza.
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mercoledì 4 maggio 2011

Meloni e l'incoerenza come reato politico

Dire ad un giapponese di non mettersi le dita nel naso è un assurdo. I giapponesi o non hanno dita o non hanno naso. Si parla per metafore, ovviamente, un po’ stravaganti. Ma, a volte, più stravaganti sono le metafore e meglio esprimono il concetto. Per dire soltanto che un precetto o lo hai inscritto nel proprio codice bioetico o è necessario che ti venga imposto con tanto di pena nel caso di violazione. Il giapponese è un popolo di disciplinati e di obbedienti. Potrebbe anche fare a meno di avere leggi e divieti. Il popolo italiano è un popolo di indisciplinati e disobbedienti. Ha bisogno di leggi, di divieti, di obblighi e soprattutto di pene; altrimenti trasformano il paese in una giungla. E, a dire la verità, nonostante le infinite leggi che ci sono, benché le pene siano il più delle volte caricate a salve, se non è proprio giungla poco ci manca.
I politici italiani sono i maggiori responsabili di tanto disordine, di tanta maleducazione, di tanta strafottenza. Tra governanti e governati in Italia c’è una sorta di circuito come quello di certe fontane che si alimentano con la stessa acqua che versano: i governanti esprimono i vizi più diffusi dei governati e questi ultimi a loro volta si sentono legittimati dall’esempio dei primi. E’ dai governanti che partono i messaggi più brutti, ma tanto più efficaci.
E’ notizia, ripresa da Gian Antonio Stella, che a sua volta l’ha attinta dal “Manifesto”, che il ministro Meloni per un affare che riguardava la campagna elettorale e una normale attività di partito, si è servito di un volo di Stato per raggiungere Crotone. Il ministro non ha smentito.
Già il fatto è di per sé grave, dato che ai voli di Stato si ricorre solo per motivi eccezionali, inerenti l’attività ministeriale. Non era il caso della Meloni e del suo viaggio in Calabria. Aver utilizzato il volo di Stato è un sopruso, comunque un cattivo esempio; ancor più grave se è provato che la Meloni, quando non era ancora ministro, ha denunciato i privilegi dei politici di potere.
Perché non far diventare reato la contraddizione e l’incoerenza dei politici? Non delle idee, ben inteso, ma dei comportamenti. Io non credo che la Meloni possa dire: mi sbagliavo quando denunciavo i privilegi e gli sprechi dei politici di potere; ho ragione adesso che posso disporre a piacimento dei mezzi per appagare la mia vanità. Chiamata a rispondere del suo comportamento, la Meloni dovrebbe ammettere la sua debolezza e o dimettersi spontaneamente o essere dimessa dai dirigenti nazionali del suo partito o dal Consiglio dei Ministri.
Ammetto che non sarebbe decoroso per un paese come l’Italia avere di queste leggi, ma son sicuro che si guarderebbero bene i signori del potere dal fare i libertini al potere dopo aver fatto i puritani all’opposizione.
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domenica 1 maggio 2011

Giovanni Paolo II, santo per cognizione di causa

Lo volevano fare santo subito i fedeli, sei anni fa. Giovanni Paolo II aveva vissuto gli ultimi anni in un calvario di sofferenza, che, se non aveva niente di miracoloso in sé – sicuramente c’è chi ha sofferto e soffre quanto e più di lui sulla faccia della Terra – aveva qualcosa che travalicava la condizione umana nella sua storicità. Qualsiasi altro essere umano si sarebbe dimesso dalla sua carica. Lui non poteva. Un Papa è tale usque ad finem.
La chiesa prevede che per essere beati e poi santi occorrono i miracoli, intesi soprattutto come guarigioni non spiegate dalla scienza e dunque per cause soprannaturali. Accadimenti riconducibili, per testimonianze vere, ad un personaggio preciso. Si è alzato ed ha camminato grazie all’intervento di Giovanni Paolo II. Stava per morire per un male progressivo ed irreversibile ed è poi guarito grazie alla preghiera di Giovanni Paolo II. Funziona così: ciò che la scienza non spiega è miracolo. La chiesa sancisce.
A volte c’è una componente di inconsapevolezza in questi fenomeni. Se un malato terminale si suggestiona al punto da credere che un tal uomo – nel nostro caso Giovanni Paolo II – lo può guarire, e guarisce, è miracolo compiuto da altri o piuttosto un miracolo autoprodotto? Comunque sia, l’attribuzione all’altro è legittima. Presentandosi un soggetto per ottenere qualcosa, non l’ottiene per sé ma grazie all’intermediazione, vera o solo esibita, di un essere superiore, al quale evidentemente nessuno può opporre un rifiuto, l’ottenimento non si può che ascrivere all’autorevolezza, ovvero al carisma, dell’intermediario. I miracoli, anche quelli per i quali si diventa beati e poi santi, sono faccende umane e solo umane, nel senso che accadono tra uomini nella realtà storica. E sono gli uomini a procedere nell’iter. Giovanni Paolo II è beato e sarà santo per simili miracoli.
Ma io credo in Giovanni Paolo II diversamente santo; credo nei miracoli come imprese, obiettivi che si raggiungono attraverso il coraggio, l’intelligenza e la forza, in continuità d’impegno umano; dove non c’è posto per autosuggestioni o per inconsapevolezze. Dove tutto è voluto e pianificato e le parti devono essere necessariamente due.
Credo nei miracoli che si spiegano. L’unificazione d’Italia fu un miracolo. Così ha detto Domenico Fisichella in un libro scritto per i 150 anni dell’Unità d’Italia, volendo significare la complessa e difficile situazione in cui essa era maturata; così intricata che solo un miracolo, qui inteso come iperbole, poteva sbrogliare. I santi di questo miracolo li chiamiamo padri della patria, eroi del risorgimento, martiri della causa. Il crollo del comunismo, in quanto sistema di potere, non di idee, è stato un miracolo. Ma il crollo non è avvenuto da sé. Qualcuno lo ha provocato. E non lo ha fatto con formule imperscrutabili, ma con la diuturna opera di scelte, di comportamenti, di gesti, di opere. Questo miracolo lo ha compiuto Giovanni Paolo II, la cui opera era tanto temuta dai sovietici quanto insperata dagli altri. Se pure non meritasse la beatificazione e poi la santificazione per altri miracoli, la meriterebbe senz’altro per questo.
Ne avrebbe potuti fare altri miracoli di questo genere? Ciò che non è accaduto non è conoscibile. Non c’è stata in Italia la guarigione dal male della mafia. Quel gran male che tormenta il nostro Paese e gli impedisce non solo di crescere ma di stare attore sovrano di civiltà fra altri nel mondo, contro cui Giovanni Paolo II si scagliò con anatemi divini, dopo l’attentato di Capaci, dura ancora. Qui il miracolo non c’è stato. Qui, per usare un’espressione dantesca, “la materia è stata sorda”. Prova che i miracoli sono possibili, anche i miracoli, quando a compierli si è in due: qui è mancato l’altro; è mancato il Paese.
Ma Giovanni Paolo II ne ha compiuti altri di miracoli. Un altro, soprattutto, meno palpabile ma altrettanto storicizzabile. Ha dimostrato che i calcoli politici degli adulti e degli interessati al confronto politico nel mondo non coincidono con le grandi aspirazioni giovanili. Accusato di aver in qualche modo legittimato l’immagine di Pinochet, mostrandosi insieme al dittatore cileno, sul balcone del Palazzo Presidenziale a Santiago, accusato di essere stato un conservatore e di aver impedito qualsiasi apertura in direzione di riconoscimenti in materia di bioetica, di coppie di fatto, di sacerdozio femminile, è stato comunque il primo papa dei giovani, il papa che ovunque andasse adunava folle sterminate di giovani osannanti in nuovi e fino a qualche anno prima inimmaginabili happening, da oscurare le grandi adunate degli anni Sessanta della beat-generation. I Papa-boys sono stati un autentico miracolo in un mondo sempre più secolarizzato e relativistico, ma anche sempre più problematizzato e sofferente. Li ha creati lui.
Ecco perché, al di là delle divergenze d’opinione, sempre lecite e sempre auspicabili, Giovanni Paolo II entra un po’ in tutti, credenti e non credenti, di destra e di sinistra, ricchi e poveri, perché egli si pone semplicemente come il Santo Patrono della Speranza e della Volontà.
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