mercoledì 30 gennaio 2019

Leggi Fascismo e intendi 5 Stelle. Il libro di Antonio Scurati "M il figlio del secolo"




Quando termini la maratona della lettura del libro di Antonio Scurati, M il figlio del secolo (Bompiani, 2018, pp. 840) ti viene di dire “salute!”. E’ davvero lungo, anche se non stancante, e alletta al proseguo una volta che l’hai iniziato. L’autore lo ha definito romanzo, forse perché non se l’è sentita di chiamarlo per quello che in fondo è, un libro di storia, sia pure raccontato con le figure retoriche di significato e di stile tipiche della narrativa. Ma si può leggere anche come un saggio politico. Diciamo che è un libro multigenere.
I fatti sono tutti veri, sono dispositio ed elocutio che ricadono nelle scelte del narratore. Di queste regole della retorica classica Scurati si rivela il solito talentuoso maestro. Quasi a confermare quanto narra, volta per volta indica in epigrafe un personaggio, un luogo ed una data. Così titola i capitoletti e li fa seguire da alcuni documenti a riscontro: brani di discorsi, di articoli di giornale, dichiarazioni.
Se l’autore aveva un intento non dichiarato, oltre a quello indicato nel titolo, si può dire che sia riuscito a raggiungerlo, anche se qua e là ha seminato un po’ di inesattezze storiche. Gliele ha rilevate Ernesto Galli Della Loggia in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 14 ottobre 2018. Errori di nessuna incidenza sulla tenuta, anche storiografica, mende irrilevanti, che trovano giustificazione nel fatto che l’autore è un romanziere e non uno storico.
Ma perché questo libro di narrativa-storia-politica? Se fosse stato veramente e solo per narrare la presa del potere di Mussolini non ne sarebbe valsa la pena. Ci sono migliaia di libri di specialisti che lo hanno già fatto, alcuni in maniera egregia. C’è che l’autore lascia passare un messaggio senza mai adombrarlo ma prepotente, insistente, ingombrante. Il messaggio è questo: bada gente che quando un Paese non ne può più, allora ricorre a… Mussolini nel dopoguerra, a… Beppe Grillo nel dopopartitocrazia. 
Nel 1922 Mussolini conquista il potere e lo rafforza col discorso del gennaio del 1925, dopo il delitto e la crisi Matteotti, perché l’Italia è invivibile e ingovernata, in preda ad una guerra civile scatenata dai socialisti che minacciano di fare in Italia quel che i comunisti hanno fatto in Russia. Il materiale umano che implementa il fascismo è di risulta, è feccia, avanzi di galera che neppure la morte in guerra ha voluto per sé nonostante la loro baldanza ed esposizione: volontari, arditi, disadattati a qualsiasi ordine sociale, autentici criminali col gusto della violenza gratuita e irridente, dediti all’alcool, alle puttane, all’avventura quotidiana. Il loro motto è “sangue e sperma”. Il peggio, insomma, che potesse esprimere la società del tempo. E come fu possibile? Lo fu – sostiene Scurati – perché gli italiani non ne potevano più di una classe politica, imbelle, incapace, lontana dalla realtà del Paese; si diede al più forte.
M5S e Lega non sono nemmeno alla lontana i fascisti del ’22; ma nemmeno l’Italia di oggi è quella del ’22. Specialmente i Cinque Stelle, con qualche eccezione, risultano personaggi politicamente improvvisati; ma a votarli è stato un Paese stanco di una classe politica, assai più presentabile, ma anche ormai inadeguata a capire e a rappresentare una società decisamente mutata.
Il fascismo conquistò il potere con la violenza dei fatti; il grillismo con la violenza delle parole. Il paragone ci sta, anche se il fascismo non fu soltanto quello che Scurati dice e il M5S non può essere identificato col fascismo, comunque inteso. Certo, qualche analogia non manca. Del resto gli stessi Cinque Stelle hanno detto più volte che è una fortuna per la democrazia essere stati loro a guidare la giusta reazione del Paese anziché gli arrabbiati e violenti dell’estremismo politico.  
Nel “romanzo” di Scurati emergono due grandi uomini soli, due giganti: Mussolini per un verso, Matteotti per un altro. Sia per l’uno che per l’altro l’autore non nasconde la sua simpatia, benché i due fossero diversissimi. Mussolini era solo in mezzo ad una sfrangiata di collaboratori ai limiti della gestibilità. Egli stesso più volte ebbe a ricordar loro che gli italiani potevano al massimo tollerare un Duce, non di più. Matteotti era solo in mezzo ad una imponente folla di socialisti e lavoratori, organizzati in leghe e circoli, che finirono per disperdersi, mimetizzarsi e nascondersi dopo le violenze da loro stessi scatenate. Situazioni che non sorprendono, ma che fanno riflettere! “L’ammirazione e la paura – diceva Mussolini – sono sempre un po’ parenti”.
Non fosse altro che per questo, il libro di Scurati andrebbe letto anche se di pagine ne avesse avute il doppio di quelle che ha.

martedì 29 gennaio 2019

Si è spenta a 94 anni Giulia Licci. La poetessa "bambina" di Ruffano




L’inverno inclemente di quest’inizio d’anno si è portato via Giulia Licci, la poetessa “bambina” di Ruffano. Si è spenta il 26 gennaio. Aveva 94 anni e da tempo ci deliziava con le sue periodiche eleganti plaquette di poesia, tutte rigorosamente fatte uscire a primavera, tra il marzo e il maggio, fino all’ultima dell’anno scorso intitolata Il Pitòn.  Quasi tutte presso l’editore GRedizioni di Besana in Brianza.
Sembrava giocare e sognare, lei, fin dai titoli. Perciò “bambina”. Solo per citarne alcuni: Ciondolino (2004), Boccioletto (2005), Il micino (2008), Camillo (2012), Piripicchio ladro (2013), Il pizzicato (2014). Parlava ai grandi col linguaggio dei piccoli, inventando parole di efficace suggestione fonico-simbolica. Interessante lo studio critico sulla sua poesia di Nicola G. De Donno, pubblicato come prefazione alla raccolta Il branco del 1996, versione forse più veritiera della famigerata casta. Il poeta e critico magliese ne evidenziò gli aspetti satirici ed etici e ne studiò gli aspetti formali e stilistici. Distintivo il suo ottonario con rime a caso, che rafforza l’idea dello scherzo.
La sua poesia non era solo divertissement. Tale poteva sembrare. In lei c’era impegno civile e a tratti militanza. Irridenti le sue metafore anticorruzione politica, efficace la sua difesa dell’ambiente, dolci e sognanti le sue contemplazioni della natura. Nella sua poesia ricorrevano temi culturali e sociali importanti, svolti in forme ricercate ed erudite, che mettevano distanza dalla poesia qualunquistica dei nostri tempi. Il femminismo, per esempio, In libertà (2015) con la copertina di Samantha Cristoforetti dedicato alla cugina Nadia. L’antirazzismo, con I Ròm (2000).
Colta e raffinata – era una professoressa di lettere – ha dedicato raccolte alla cultura di ogni tempo, con richiamati echi scolastici: Nel paese di Marino [Giambattista] (2001), In libreria (omaggio a Manzoni) (2009), Il cugin di don Rodrigo (2010), Lemme lemme… (Omaggio a D’Annunzio) 2011), Monte Ida (2017). Esteta della parola e dell’immagine, cantava le bellezze naturali e artistiche: Pour la France (2006), Napoli (2007).
La sua poesia aveva attratto l’attenzione di critici importanti tanto da figurare ormai nei repertori e nelle storie letterarie salentine. Nel 1998 l’editore milanese Scheiwiller la consacrò poetessa tra le più importanti del Novecento pubblicandone la raccolta, Poesie (1942-1998), nella sua “all’insegna del pesce d’oro” con la stessa prefazione di De Donno.
Solo in questi ultimi trent’anni ha avuto significativi, ma non adeguati, riconoscimenti. La sua vita appartata, praticamente chiusa e isolata, non le ha consentito di avere la visibilità che meritava, ma che lei – a dire il vero – non gradiva.
Beffardo e dispettoso con lei questo 2019, che non le ha consentito un’ultima plaquette. Ma, chissà…la primavera non è ancora cominciata e potrebbe riservarcene una postuma.

giovedì 24 gennaio 2019

Con Giancarlo Minicucci dieci anni di collaborazione al Quotidiano




Giancarlo Minicucci, ex direttore di Quotidiano ed ex vice del Messaggero, se n’è andato mercoledì mattina, 23 gennaio. Era stato ricoverato all’ospedale di Tricase qualche giorno prima. Non era anzianissimo, aveva 67 anni e stava bene. Un malore, infarto probabilmente.
Nel 2009 aveva lasciato la direzione del Quotidiano e tornato al Messaggero di Roma come vicedirettore; ma aveva scelto di rimanere da noi, andando a risiedere a Roca. Amava la bellezza di quei luoghi, il silenzio e la pace che vi regnano.
Lo conobbi agli inizi del 2000. Non sapevo neppure che c’era stato il cambio di direzione al Quotidiano. Lui era stato nominato alla fine del 1999, in sostituzione di Giulio Mastroianni, ma di fatto dei due vicedirettori Alessandro Barbano e Adelmo Gaetani, che avevano diretto egregiamente il giornale negli ultimi anni. In tempi difficili! Una storia che andrebbe raccontata.
Col passaggio del Quotidiano al gruppo editoriale Caltagirone si uscì dalla crisi e cominciò per il giornale leccese una nuova vita. Fu proprio sotto la direzione di Minicucci che il “Quotidiano” sarebbe diventato “Nuovo Quotidiano di Puglia”, avrebbe aperto una redazione a Bari e recuperato alla grande lettori, spazi di mercato e credibilità.
Io collaboravo alle pagine culturali da qualche mese. Teo Pepe mi aveva invitato a farlo. Poi anche Barbano per la politica, in assoluta libertà – mi disse – con l’unica raccomandazione di evitare guai giudiziari. All’epoca ero impegnato su diversi fronti: la scuola (insegnavo al Tecnico Commerciale di Casarano), “Voce del Sud” settimanale di Leonardo Alvino, e “Presenza”, il mio mensile di politica cultura attualità. Un bel po’ da fare ce l’avevo, ma accettai di buon grado.
Agli inizi di quel 2000 avevo inviato al giornale un articoletto sull’iniziativa di Mario De Cristofaro di far stampare e distribuire nelle edicole il calendario di Mussolini per l’anno nuovo, in risposta ad un breve intervento chiuso in un riquadro a firma G.M., in cui si stigmatizzava l’annuale appuntamento editoriale “fascista”. Non sapevo che a scriverlo fosse stato il nuovo direttore. Rilevavo l’esagerato allarme. Il giorno dopo ricevetti una telefonata, piuttosto perentoria. “Sono il direttore di Quotidiano, non ha letto quel che ho scritto in merito al calendario di Mussolini? Le sembra una bella cosa entrare in polemica col direttore del proprio giornale?”. Gli risposi che non sapevo che l’avesse scritto lui e che la mia attenzione era stata attratta per confidenza visiva, quella sigla poteva essere la mia. Gli dissi che non l’avrei scritto se avessi saputo ma che non avrei cambiato opinione sulla innocuità dell’iniziativa di De Cristofaro.
Fu quello il nostro incontro, il nostro conoscerci. Poi ci saremmo visti tante volte, su in redazione, all’Avio Bar nei pressi del giornale o da Open di Mauro Ciliberti su TeleRama. Ci volevamo bene. Mi chiamava di tanto in tanto per sapere che pensavo dei fatti della politica e se era o meno il caso di intervenire. Qualche volta intervenivo e qualche volta no. Una libera e rispettosa collaborazione, durata dieci anni.
Agli inizi del 2009 ci fu al “Quotidiano” il cambio di direzione: via Minicucci e arrivo di Claudio Scamardella, l’attuale direttore. Salutai sul mio blog Minicucci. In fondo con lui andava via un decennio di bella e importante collaborazione. Il giornale era un’altra cosa rispetto a dieci anni prima ed io, hegeliano come sono, la spiegazione l’avevo a portata di mano. Se tanto dava tanto il merito era stato anche suo, forse soprattutto suo, ma anche dei vicedirettori, della redazione e dei collaboratori esterni.
Minicucci mi telefonò per ringraziarmi. Fu l’ultima volta che ci parlammo e ci salutammo. Quel saluto valse anche per il Quotidiano.