domenica 28 dicembre 2014

Un sogno: Francesco al Quirinale


Ho fatto un sogno. Non alla Martin Luther King, nel senso di massimo desiderio cui si aspira. Il mio è stato un sogno vero, fatto mentre dormivo, in piena regola e già mentre lo facevo ero cosciente della sua stravaganza. Ora racconto.
In Italia siamo alle prese col toto-presidente. Napolitano ha detto che le sue dimissioni sono imminenti. Napolitano è uomo d’onore, per dirla con Shakespeare.
La condizione in cui ci troviamo è del tutto inedita in Italia, come inedita è stata la riconferma di Napolitano al Quirinale giusto due anni fa. Inedita perché Napolitano potrebbe pure continuare ad oltranza, come si fa coi calci di rigore, se la partita dovesse finire in parità.
Trovare un presidente non è facile, non perché manchino i candidati. Mi sovviene Dante del sesto del Purgatorio a proposito di Firenze, che ormai è tornata ad essere capitale d’Italia: «Molti rifiutan lo comune incarco; / ma il popol tuo solicito risponde / sanza chiamare, e grida: I’ mi sobbarco!». Sabino Cassese alla Grüber, che gli chiedeva se avrebbe accettato la candidatura, rispose che quando si tratta di “comune incarco” non bisogna mai proporsi a nulla ma che non bisogna mai sottrarsi a nulla. Chiara l’antifona.
L’idea è stravagante! Consiste nell’offrire a Papa Francesco la Presidenza della Repubblica Italiana. Chi legge penserà ad una boutade. Anche l’idea delle dimissioni di un papa poteva essere considerata una boutade; e invece è accaduto. Non lo è. Spiego perché, difficoltà oggettive di realizzare la stravaganza a parte, sarebbe una buona soluzione. 
Papa Francesco ama fare il politico, il diplomatico, stare sempre alla ribalta, la più ampia e la più alta possibile. Come i politici, ama il protagonismo, l’esibizionismo, la scena, l’applauso. Come i politici è contraddittorio: ora dice una cosa, ora un’altra, a seconda dell’uditorio, col vantaggio di non doversi mai correggere; come invece fanno i politici: volevo dire che…, sono stato frainteso. Un papa non vuole dire, dice; non può essere frainteso.
Ha rifiutato gli appartamenti pontifici perché li ritiene piccoli per la sua ipertrofica considerazione di sé, convinto che sono gli uomini a rendere piccole le cose grandi e grandi le cose piccole. Santa Marta, grazie a lui, è assurta a grandezza planetaria.
Cerca sempre il plauso dei molti e, avendo capito, che il plauso dei molti nasce dall’inimicizia dei pochi, specialmente se potenti o tali considerati, continuamente bacchetta questi ultimi. Per un potente che colpisce, migliaia di deboli in Piazza San Pietro lo osannano.
Di recente ha parlato di quindici piaghe della Curia, che non è come parlare di astrattezze: si guardava attorno e vedeva nei cardinali e nei vescovi che lo attorniavano i portatori di queste piaghe. I malcapitati si guardavano alle accuse del Papa come allo specchio. Alcuni si sono risentiti, soprattutto quelli che, dichiarandosi favorevoli a lui, pensavano di mettersi al riparo dai suoi attacchi. Papa Francesco li ha spiazzati.
Non so quante potrebbero essere le piaghe della politica italiana. Ma uno che le metta in mostra, che non sia il solito Marco Travaglio o la solita Milena Gabanelli, starebbe proprio a fagiuolo.
Ci sarebbe Renzi che, somigliandogli come figlio al padre, potrebbe fargli ombra e creargli fastidi. Ma Renzi sta al governo e lui, Presidente Francesco, starebbe al Quirinale. Non avrebbero modo di pestarsi i piedi. E poi chi ha detto che Renzi non potrebbe diventare papa? In fondo quando Bergoglio era cardinale Renzi faceva le medie. Col mantra delle “medie” Renzi è diventato capo del governo. Non si sa mai.
Con Papa Francesco alla Presidenza della Repubblica sarebbe anche un felice ritorno di un papa alla sua sede usurpata, dopo 145 anni. E questa non sarebbe l’ultima soddisfazione di Papa Francesco: aver riportato un papa al Quirinale.    
L’ostacolo più difficile sarebbe di natura giuridica: come potrebbe un capo di stato diventare capo di un altro stato? Potrebbe essere capo di due stati? Decisamente no. Ma qui siamo in presenza di uno Stato, quello del Vaticano, che ha una sua eccezionalità. Dunque potrebbe accadere. Anzi potrebbe accadere perfino che Francesco continuasse ad essere Papa mentre fa il Presidente della Repubblica. Una sorta di teocrazia che non riuscì nemmeno a Bonifacio VIII nel 1300.
Né mancano altri felici risultati ove la stravaganza si concretizzasse. Per esempio: uno stato teocratico non avvicinerebbe il cristianesimo all’Islam? E il duplice ruolo di Papa Francesco non potrebbe tirar fuori dalla naftalina Papa Benedetto, l’Emerito, a cui si potrebbe dare il titolo di Co-papa?
A Riflettere, i vantaggi di una presidenza della repubblica di Papa Francesco, che peraltro è di origini italiane, sarebbero tanti, tanti i previsti, tanti i prevedibili, tanto gli imprevisti. Con l’aiuto del Signore chissà quanti altri benefici potremmo avere, non ultimo quello di bonificare la politica italiana e restituirla alla sua naturale funzione. E questo è proprio il sogno alla Martin Luther King, raggiungimento di un obiettivo utopico.

Ma mentre Papa Francesco a Montecitorio, davanti al Parlamento in seduta plenaria, diceva: «E ricordatevi: il Signore perdona, io no» e i parlamentari tutti si spellavano le mani per gli applausi, un soprassalto. La sveglia non finiva più di suonare.      

domenica 21 dicembre 2014

Italiani double face: Benigni di fuori, maligni di dentro


Certo che noi italiani non finiamo mai di stupire, pur ripetendoci con una coerenza degna di materia scientifica. L’esibizione di Roberto Benigni su Rai Uno nelle due serate del 15-16 dicembre sui Dieci Comandamenti ha fatto esplodere di entusiasmo gli esegeti dell’italica impudenza e impenitenza.
A sentirne alcuni, pare che il Decalogo lo abbia scritto Benigni o che lo abbia ricevuto lui non Mosè dalle mani del Signore, tanta è la lode in suo onore. E’ la fatica più recente del comico toscano dopo  la Divina Commedia, l’Inno di Mameli e la Costituzione della Repubblica, che per la vulgata dei “saputi” sarebbe “la più bella del mondo”. Quando ci si mettono, gli intellettuali italiani riescono a identificare tanto autori e interpreti da non saperli più distinguere. Ricordo l’identificazione Mussolini-Veltro dantesco ai tempi del Duce. Benigni diventa, volta per volta, Dante, Mameli e Padre costituente, anzi l’unico e solo autore della Costituzione. E, dopo tanto, Benigni Padreterno! 
A sentirli, gli apologeti della comicità pedagogica di Benigni, un popolo di dieci milioni di telespettatori è rinsavito, è pronto ad una crociata in difesa dei valori laici della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. Perché, gira e rigira, sempre di questo si tratta, anche se si parla di Dio o del padre e della madre. Si sono tanto calati a glorificare Benigni che si sono dimenticati perfino di contestargli il fatto che non più di padre e di madre bisogna parlare al giorno d’oggi, ma di genitore uno e di genitore due, come essi sostengono. Sono gli stessi che propugnano libertà ad libitum e che ritengono la chiesa cattolica la più oppressiva e oscurantista del mondo perché non apre ai gay, alle famiglie allargate, all’eutanasia, ai preti-donne e ad ogni ritrovato del “ciò che piace è lecito”. Sarebbe stato interessante che Benigni relazionasse simili diritti rivendicati coi relativi comandamenti. Ma non attacchiamoci ai cavilli! Benigni ha compensato Buzzi, Carminati e via ingalerando. La reputazione dell'Italia è salva.
Di colpo, dunque, dieci milioni di italiani sono diventati franceschi e jacoponi. Alcuni si sono subito liberati del denaro che avevano in tasca, delle loro carte di credito, si sono spogliati, hanno gettato via cardigan e cachemir, rolex e gioielli, e si sono subito sposati con madonna povertà. Altri hanno incominciato ad invocare punizioni bibliche sui loro corpi colpevoli di godurie peccaminose: Oh Signor, per cortesia, manname  la malsanìa! Gli italiani, quando vogliono, non hanno che il problema della scelta: l’umiltà di Francesco o la furia di Jacopone. A chiacchiere, ovviamente.
Altri commentatori si sono limitati a denunciare la ridondanza di un eloquio sensazionalistico, in verità prolisso e ripetitivo, del predicatore toscano, già comico di vaglia. Per ogni comandamento Benigni ha scomodato superlativi assoluti e relativi: è il più importante di tutti, è quello che tutti gli altri riassume, e via superlativizzando, come a dimenticare quanto aveva già detto per il comandamento precedente.   
Le cose bisogna prenderle per quello che sono. Benigni è un grande del palcoscenico, rende tutto molto bello, chiaro e divertente. Lui sì che miscet utile dulci, come raccomandava Orazio. E’ un grande volgarizzatore, esemplificatore e chiarificatore anche di concetti difficili. Ha il grande pregio di aver fatto capire la Divina Commedia anche ad un pubblico semplice e illetterato; lo stesso ha fatto con l’Inno nazionale e la Costituzione. Gli siano perciò riconosciuti onore e merito.
Personalmente, in occasione dei Dieci Comandamenti, l’ho trovato logorroico; penso che una serata sarebbe bastata a spiegarli. Ma è un dettaglio che butto così, non avendo io la competenza di un critico televisivo, come Aldo Grasso o di un competente come Carlo Freccero.
Ma, detto questo e mi scuso per il poco che questo rappresenta nei meriti che sicuramente ha Benigni, aggiungo che altra è la considerazione critica che va fatta sugli italiani, intesi sia come cittadini qualunque, sia come intellettuali.
In Italia non c’è bisogno che qualcuno ricordi i Dieci Comandamenti. Qualche anno fa lo fece Enzo Biagi col Cardinale Ersilio Tonini, sempre alla Rai, “I Dieci Comandamenti all’italiana”, e lo spettacolo, quanto a qualità e a resa educativa, non fu inferiore a quello offerto da Benigni; anzi.
In Italia oggi c’è bisogno di giudici severi che colpiscano i trasgressori dei comandamenti. E, invece, che abbiamo? Un Papa, che pensa a fare il diplomatico mondiale, disinteressandosi completamente delle anime dei suoi credenti: chi sono io per giudicare? Già, chi è lui? Qualcuno glielo dovrebbe dire. Abbiamo un mondo politico ed educativo, ovvero politica e scuola, che definire permissivo è dire niente, dal momento che vuole depenalizzare tutto. Ai tempi del ’68 “era vietato vietare”; ma si era consapevoli che la si sparava grossa. Oggi vietato vietare è minimalismo.
Allora mi chiedo: davvero i dieci milioni di spettatori hanno tratto qualche insegnamento da Benigni? Non sono i soliti italiani che applaudono entusiasti a chi ricorda loro come dovrebbero comportarsi nella vita, per poi continuare a fare i propri comodi, dimentichi o indifferenti ai moniti? Ricordiamo tutti, fin dalla fanciullezza, il lupo che andò a confessare i suoi peccati contro le pecore e non ancora assolto dal prete gli chiese di sbrigarsi perché aveva sentito belare per strada. Non sono forse gli italiani tanti lupi, Benigni di fuori, divertiti e compiaciuti dei moniti, e…maligni di dentro, pronti a ricominciare a spettacolo finito? Non so. Me lo chiedo!

domenica 14 dicembre 2014

Evviva la politica! Abbasso i politici corrotti!

Lino Patruno, già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, ha scritto un fondo su questo giornale intitolato «La colpa della politica, le colpe di tutti noi» (12 dicembre, pp. 1 e 23). Tema: l’attuale crisi romana o, come la chiamano i giornali, della “mafia capitale”, con le vicende di Alemanno, Buzzi e Carminati, per un verso, di Marino, Orfini e compagni per un altro; per concludere che i politici hanno delle colpe e che delle colpe abbiamo noi.
Noi, chi? Probabilmente noi della società civile e, per essa, noi operatori dell’informazione. Le argomentazioni addotte le condivido da cima a fondo; ma questo non era neppure importante dirlo.
Quel che qui mi piace sottolineare, invece, è la questione che potrebbe definirsi di lana caprina, espressione che non si usa più per indicare qualcosa di banalotto e di nessuna importanza, ma che di lana caprina non è.
Quale? Quella che in qualche modo è stata attinta dal Presidente Napolitano nella sua allocuzione del 10 dicembre, quando ha condannato la “patologia eversiva dell’antipolitica” e quanti, anche del mondo dell’informazione, le danno spago. Proprio così.
Sono sicuro che Patruno è d’accordo col Presidente Napolitano, come lo sono io e come lo sono tantissimi cittadini e giornalisti. Ma Patruno ha involontariamente contribuito a screditare la politica con una piccola dose di veleno antipolitico col titolo del suo fondo, di cui in apertura. Probabilmente il titolo non è suo; sarà del titolista, come usano i giornali. Ma questo non cambia nulla al merito del discorso che qui si vuole fare.
Perché «Le colpe della politica»? L’obiezione è scontata: qui per “politica” s’intende “dei politici”. Ma non è la stessa cosa! Dire “colpe della politica” s’ingenera un equivoco, che andrebbe scongiurato. La politica, intesa come insieme di individuazione di problemi pubblici e loro soluzione attraverso il concorso elettorale per raggiungere i luoghi di dibattito e di decisione, non può avere che meriti; le sono talmente propri che metterli in discussione significa, come giustamente Napolitano ha detto, cadere nella patologia eversiva dell’antipolitica. Perché il ragionamento è semplice: le colpe sono della politica? Allora occorre l’antipolitica. Ma l’antipolitica è l’opposto dell’individuazione-soluzione dei problemi pubblici. L’antipolitica è solo destruens per definizione, mai construens.
L’equivoco non è tutto qui. Patruno lo ha detto chiaramente: ci sono colpe “di tutti noi”. Noi, infatti, piuttosto che chiamare in causa i singoli politici responsabili con nome e cognome, parliamo genericamente di politica, quasi che i meschini hanno avuto la disgrazia di cadere in una trappola, quella politica, come nelle sabbie mobili, dalle quali non è possibile uscire. Una sorta di fatalità. Nei confronti degli stessi perciò bisogna avere pietas, che di fatto si traduce in omissione, mascheramento, politicamente corretto – usiamo tutte le espressione che vogliamo – per significare quel detto cattolico: ti dico il peccato e non il peccatore. Bisognerebbe invece proporsi il contrario: ti dico il peccatore, che tu, conoscendolo, sai già il peccato. Ma siamo cattolici!  Che cerchiamo indulgenze nell’orto di Lutero? Tanto poi ci scateniamo in orge di condanne quando il tacere i nomi non è più possibile; e neppure allora ci preoccupiamo di non distillare veleno antipolitico. Torna anche qui la morale cattolica: non giudicare per non essere giudicato, il fuscello dell’occhio altrui e la trave nel mio, e via evangelando. Per pietas non facciamo nome e cognome del peccatore nel momento in cui veniamo a conoscenza del peccato compiuto, e sempre per pietas insistiamo prioritariamente sul peccato, la politica, come luogo dove non è possibile non peccare. Sono queste le colpe di tutti noi.
Non è solo questione formale. Si sa che dietro la forma c’è la sostanza. Noi dobbiamo recuperare il senso delle cose e delle persone, senza pietismi, cattolicesimi, umanitarismi, buonismi. Chi si occupa della cosa pubblica deve sapere che se “pecca” deve essere castigato. Non dico punito, dico castigato. E chi, vuoi da semplice cittadino vuoi da operatore dell’informazione, soprattutto da operatore dell’informazione, viene a conoscenza di un peccato e del suo peccatore, deve immediatamente denunciarli. Non deve aspettare che sia la Procura della Repubblica, la Guardia di Finanza o i Carabinieri a far esplodere il caso. Quando ciò si verifica non è più informazione corretta e produttiva, ma inutile pornografia e masturbazione.
Patruno chiama in causa – e fa bene – anche quei politici puliti e onesti, che vedono, sentono e sanno, ma restano in silenzio perché non è conveniente parlare, denunciare. Forse è proprio in questa identificazione silenzio-convenienza che s’incardina la fatalità secondo cui chi sta in politica fatalmente o pecca direttamente o pecca per omissione di vigilanza. Culpa in vigilando si dice in gergo forense. Nella sua brutalità espressiva Grillo ha rimproverato a Napolitano proprio questo: ma tu dove stavi quando tutto ciò accadeva, su Marte? E’ proprio questo che Patruno rimprovera ad Orfini, commissario del Pd romano con l’impossible mission di pulizia.

Se ben ricordiamo, alla vigilia dell’esplosione del caso romano, il Pd stava cercando di far fuori il suo stesso sindaco Marino. Allora non si capiva bene perché. Oggi si capisce fin troppo bene. Si cercava di salvare i politici per far cadere la colpa sulla politica. Già, more solito!           

domenica 7 dicembre 2014

Malapolitica urbi et orbi


Mi è capitato in questi giorni di parlare con amici di tutt’altro indirizzo politico del mio, che, come sa chi mi conosce e mi segue, è di destra, di quella destra sociale che per quarant’anni si è identificata nel Msi, partito neofascista tout-court. Si capisce: uso il lessico convenzionale. Né, a dire la verità, mi disturba più di tanto essere considerato fascista. Non mi omologo fra quanti oggi si schermiscono se chiamati comunisti. Posso coniugare i verbi della politica che mi riguardano al presente e al passato senza nessuna difficoltà; e non dico anche per il futuro, per un senso di pudore verso me stesso.
Oggetto delle discussioni è l’ennesimo schifo della politica, quello di Roma, che ha mostrato urbi et orbi – è proprio il caso di dirlo – un marcio spaventoso, scoraggiante, da depressione nazionale.  Con tutta la buona volontà di questo mondo questi miei amici, istruiti e direi anche un po’ colti – per carità, non si confondano le due cose – non riescono proprio a scorgere vie d’uscita. Un certo imbarazzo li porta a rimuovere le loro appartenenze e fa loro ipotizzare gruppi nuovi, partiti nuovi, uomini nuovi. Qualcuno cita i grillini, i quali, però, non si sono dimostrati all’altezza del compito e nemmeno all’altezza di un sub compito. Ovvio, si sfarfalla intorno alle cose, perché dopo tutto, imbarazzo a parte, è sotto gli occhi di tutti il fallimento delle loro idee, dei loro partiti, dei loro movimenti, democratici e antifascisti. Nessuno, infatti, dice: il mio partito ha fallito; anzi alcuni di loro continuano a bazzicarvi dentro o nei dintorni.
Né io sarei tanto avventato da pensare che il mio partito è stato l’unico a non fallire. Come potrei, di fronte ai casi che si sono susseguiti dal 1994 in poi? Chi ancora nutre dubbi su Gianfranco Fini, che non è riuscito nemmeno a sottrarsi alla miserabile appropriazione di una casa donata da una nobildonna per la causa missina? Chi ancora ha dei dubbi su Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, genero di Pino Rauti, indegno rappresentante di un partito che aveva tutto per proporsi, se non proprio come rinnovatore, come moralizzatore esemplare? Chi nutre ancora dubbi sulla Polverini, ex presidente della Regione Lazio? Si potrebbe continuare con tutta quella “bella” gente che prometteva palingenesi se mai fosse approdata al potere.
Dunque, ho votato e fatto votare gentaglia, ho contribuito anch’io allo schifo imperante oggi ad ogni livello. No, non mi pento – non ha senso pentirsi: il pentimento è dei pusillanimi – non mi dò con la pietra in petto; ma affermo di essere stato ingannato o piuttosto di essermi ingannato da solo.
C’è, però, una piccola luce in fondo al tunnel nel quale sento di essermi cacciato, insieme a tanti altri italiani: è la luce di quella riserva che abbiamo sempre avuto noi missini o fascisti nei confronti di una democrazia, che non era possibile non accettare. E’ la luce di quel fascismo che altro non era e non è se non ordine, legge, giustizia. Che è oggi l'unica forma di fascismo possibile.
Ricordo che una delle questioni più dibattute nel Msi, ai tempi felici degli Almirante e dei Rauti, era come comportarci noi fascisti in democrazia. E la risposta era chiara: dovevamo accettare la democrazia, non solo e non tanto perché non potevamo non accettarla, ma soprattutto perché attraverso il percorso democratico noi potevamo dimostrare di non essere quelli che gli altri dicevano di noi e di non essere come gli altri. Sissignori, una doppia sfida, che doveva concludersi non a randellate in testa ai nostri avversari, stile fascista, ma con un paio di schiaffi morali a chi ci aveva per anni e anni discriminati ed esclusi, stile neofascista, nel quale credevamo.
E’ accaduto, invece, che finalmente siamo stati accolti nel gran mercato dei democratici, noi confusi con tanti che avevamo avversato, i democristiani, i socialisti, i comunisti; e lo siamo stati non in ragione delle nostre sbandierate virtù ma per quei caratteri della loro democrazia: organizzazione di delinquenti, di malfattori, di ladri, di pendagli da forca.
Per cui oggi credo di non esagerare se invoco un po’ di quel fascismo che poneva al di sopra di tutto la legge, dura, con tutti quegli aspetti anche negativi, ma che sono necessari nei periodi di emergenza, come indubbiamente è l’attuale. L’età mi consente di ricordare che fino a qualche anno fa c’erano sfrontati giovinotti e inebetiti anzianotti, i quali quando ricordavi loro i benefici dell’ordine e della legge, anche per rispettare le più elementari regole del vivere civile, ti rispondevano stupidamente: e che ti credi, che siamo ai tempi di Mussolini?
Ecco, se avessimo la possibilità di trasferirci all’estero, in qualche paese dell’Europa centrosettentrionale, ci accorgeremmo che quella che in Italia è considerata repressione, fascismo, dittatura, in quei paesi è normale, spontanea, condivisa democrazia. Ci accorgeremmo che sarebbe più esatto dire: e che ti credi che siamo in Svizzera o in Austria, in Svezia o in Olanda? Proprio così. In questi paesi ci possono pure essere delinquenti, ma sono cani sciolti, non appartengono a culture e a pratiche malavitose, delinquenziali, criminali; a sistemi cupolari di malavita; non attingono la vita civile, sociale, politica.
E’ fascismo pensare ad un sistema di governo che metta da parte pietà e misericordia e castighi quanti attentano ad ogni forma di bene pubblico, fisico o morale che sia? E’ fascismo ripristinare l’uso corretto e rapido della legge, che faccia giustizia dei torti che il singolo cittadino o l’intero popolo italiano subiscono?  E’ fascismo far funzionare il paese come è accaduto in Italia fino alla disgraziata guerra perduta, magari chiamandolo con un altro nome per tenere contenti tutti, fascisti e antifascisti? Non so, me lo chiedo; e aggiungo: me lo auspico. 

Se non riusciamo a trovare la quadra di questa disfatta nazionale, va finire che sarà l’Europa a costringerci a trovarla. E già non so come abbia fatto finora a non mandarci via, a calci in culo.