martedì 30 aprile 2013

Università del Salento: perché intitolarla a Codacci Pisanelli




Ho già avuto modo di dire perché a mio parere l’Università degli Studi del Salento vada intitolata a Giuseppe Codacci-Pisanelli. La motivazione è tanto banale quanto diretta: fu voluta e realizzata, per quello che si può intendere in casi simili volere e realizzare, da lui; ne fu il primo Rettore e docente. Lo ha ben ricordato il Sen. Giorgio De Giuseppe sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” (12 aprile). Per molti anni si prodigò a far venire a Lecce il meglio dei docenti universitari dell’epoca. Lungo sarebbe l’elenco e i salentini di oggi, dai cinquant’anni in giù, avrebbero difficoltà a riconoscerli nella loro giusta importanza. Ma, a volte, la storia rivendica i suoi diritti. Basta leggere un “Bollettino d’Informazioni” qualsiasi degli anni Cinquanta della non ancora riconosciuta Università di Lecce per imbattersi in docenti del calibro di Mario Marti e Aldo Vallone (Letteratura Italiana), Ettore Paratore e Vincenzo Ussani (Letteratura Latina), Alberto Mori (Geografia), Pier Fausto Palumbo (Storia), Giuseppe Flores D’Arcais (Filosofia), Gino Corallo (Pedagogia), Maria Romano Colangeli (Letteratura Spagnola), Giacinto Spagnoletti (Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea), Carlo Prato (Grammatica Latina), e poi Fausto Fonzi (Storia contemporanea), Paolo Barocchi (Storia dell’Arte), Dario Bellezza (Psicologia), Tullio Gregory (Filosofia), Maria Corti (Letteratura Italiana), Ovidio Capitani (Storia Medievale), Antimo Negri (Storia della Filosofia e Filosofia Teoretica), Pietro Scoppola (Storia del Risorgimento), Giuseppe Roggerone (Storia della Filosofia). Erano tutti delle autorità nel loro campo. Per la giovane e non ancora riconosciuta Università costituivano una vera “armata” nella lunga attraversata del deserto del riconoscimento, che giunse nel 1967, alla vigilia della contestazione studentesca.
Il ruolo avuto da Codacci Pisanelli nella storia dell’Università non ha paragoni. E si consideri anche che l’Università di Bari, coi suoi pezzi forti della politica e della cultura – Aldo Moro, tanto per fare il primo nome che viene – facevano di tutto per impedire che la nostra Università nascesse e prendesse piede. Né mancavano docenti universitari salentini che facevano il tifo – mettiamola così – contro l’istituzione dell’Università a Lecce, a difesa di quelle dove già insegnavano.     
Codacci Pisanelli è stato, a partire dall’immediato dopoguerra e fino agli anni Settanta, l’uomo politico salentino più illustre e potente. Fama e potere portati ed esercitati con l’eleganza e la sobrietà di un uomo consapevole della sua ascendenza e del ruolo che aveva nella terra che lo aveva espresso e che da lui s’aspettava valori positivi dei quali fregiarsi.
Membro della Costituente e poi parlamentare democristiano per diverse legislature, fu più volte ministro e presidente di commissioni, senza mai offrire motivi o pretesti agli avversari e ai media di accusarlo di qualcosa di illecito. Si avvalse certamente del concorso di molti altri degni rappresentanti politici del tempo e delle stesse amministrazioni comunali che si autotassarono per creare il Consorzio Provinciale Universitario Salentino, organismo dal quale presero tutte le successive mosse, amministrative e culturali, per giungere all’Università degli Studi riconosciuta dallo Stato.
Non sarebbe elegante spiegare perché no all’intitolazione a Giulio Cesare Vanini o a Carmelo Bene, ad Antonio De Ferrariis o a Scipione Ammirato, e si potrebbe continuare con altri nomi di personaggi tutti meritevoli di dare il proprio nome all’Università salentina. E’ proprio la motivazione in sé che disturba. Ogni proposta, che non abbia ab origine un dato esclusivo e perciò imparagonabile, finirebbe per ridurre la questione ad una elencazione di meriti, da pesare col bilancino delle once e dei sottomultipli delle once, per sostenere l’una o l’altra delle candidature. Tuttavia, perché la mia non sembri un uscirmene per il rotto della cuffia, qualche parola la devo pur dire.
Vanini o Bene, il Galateo o l’Ammirato o qualunque altro del bel mondo della cultura e dell’arte, finirebbe per dare una connotazione al territorio, una sorta di impronta, che, quale che fosse, sarebbe sempre riduttiva e parziale. L’eretico Vanini, l’umanista Galateo, il letterato Ammirato, l’attore e scrittore Carmelo Bene, ognuno preso per sé è motivo di vanto per il Salento, ma non rappresenta il Salento nella sua pluralità di aspetti.
Si può obiettare che neppure il nome di Codacci Pisanelli soddisfa questa esigenza, ma ciò vale se di lui si considera l’aspetto culturale – egli fu un giurista – ma se si assume quello storico, di fondatore dell’Università, ecco che cadono le perplessità. L’altra obiezione è che, pur nello specifico politico, egli non rappresenta l’intero panorama, assai più ricco della pur maggioritaria Democrazia cristiana. E’ vero, ma nessun rappresentante di altri partiti era così noto in campo nazionale e internazionale come lui e nessun altro ebbe i meriti suoi nel dotare il territorio salentino di una così importante istituzione culturale e professionale qual è l’Università. Intitolarla oggi al suo nome è il più scontato ma anche il più importante degli obblighi.

domenica 28 aprile 2013

Resistenza in coma, la Repubblica cambia pelle



 Il 25 aprile di quest’anno va ricordato per almeno due motivi particolari, riconducibili ad una medesima ipotesi argomentativa: la percezione che la Repubblica parlamentare, fondata sul valore storico e ideologico della Resistenza sia, se non finita, quanto meno in coma di primo grado o coma vigile, per usare un’espressione medica. Che è quello stato in cui il paziente è come avvolto da sopore, sente ma non riesce a reagire, dal quale comunque si può risvegliare.  
I due motivi sono: gli interventi progressivamente risolutivi del Presidente della Repubblica nelle faccende istituzionalmente di competenza dei partiti e del Parlamento, che fanno presagire uno sbocco di tipo presidenzialista; e la sempre più sbiadita celebrazione del 25 aprile, che fino ad una ventina di anni fa era, col 2 giugno, la festa principale della Repubblica.
Sul primo motivo hanno insistito, sia pure con argomentazioni più giornalistiche che scientifiche, non pochi analisti politici. A rigore il Presidente della Repubblica ha esercitato, nell’ambito delle competenze costituzionali, una funzione sussidiaria, organica alla salute stessa della Repubblica. Questo è stato ricordato dal costituzionalista Michele Ainis e ribadito dal Presidente Napolitano nel suo storico discorso d’insediamento. Tutti, però, sono concordi nel dire che le istituzioni portanti della Repubblica parlamentare, partiti-elezioni-Parlamento, sono davvero inadeguate alle necessità del momento e hanno bisogno di riforme sostanziali. Sarebbero da rivitalizzare, facendole uscire dal coma di cui si parlava.
Sul secondo punto il discorso è diverso: si è nell’ordine più culturale e politico e perciò nel campo dell’opinabile. Qualche anno fa lo storico Sergio Luzzatto denunciò in un libretto edito da Einaudi “La crisi dell’antifascismo” (2004). Da antifascista convinto lo storico trascurava di considerare un dato per così dire anagrafico, che in una visione naturalistica della politica e della storia, spiega come tutto ciò che esiste è soggetto a leggi di natura: di crescita, di vita e di morte. Ovvio che in politica a determinare il passaggio da una fase all’altra concorrono i pensieri e i fatti che si susseguono gli uni in dipendenza dagli altri. Poi, si può essere nostalgici di una condizione e soffrire per la progressiva perdita; si può essere più realisti e accettarne il cambiamento e la fine.
A conferma della trasformazione dell’antifascismo in qualcosa di diverso, conseguentemente alla trasformazione del fascismo, ci sono state nel giorno del 25 aprile di quest’anno segnali assai significativi. Alcune affermazioni di politici di sinistra sono state anche estremamente semplicistiche e schematiche ed hanno impoverito l’antifascismo riducendolo ad antiberlusconismo. Altre si sono limitate a constatare con disappunto il progressivo spegnersi della luce della Resistenza. 
A livello mediatico sono stati i quotidiani che il giorno del 25 aprile, nelle loro prime pagine, che sono le vetrine del giornale, hanno offerto la plastica dimostrazione della opacità della Resistenza.
Ne abbiamo presi in considerazione trenta, una campionatura che copre l’intero territorio nazionale, isole comprese. La situazione è questa: non fanno cenno alcuno al 25 aprile Corriere della Sera, Sole-24 Ore,  Il Giornale, Libero, Avvenire (quotidiano della Cei), La Padania, Il Foglio, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Europa (quotidiano del Partito Democratico), Il Gazzettino di Venezia, Il Piccolo di Trieste, Il Giornale di Brescia, Il Messaggero Veneto di Udine, La Nuova Ferrara, La Sicilia di Palermo. Più della metà dei quotidiani non hanno proposto la data-simbolo della Resistenza in prima pagina, limitandosi a parlarne nelle pagine interne.
Gli altri quattordici quotidiani hanno annunciato in prima pagina, a caratteri a volte eccessivamente piccoli, un articolo o un servizio con poche righe d’inizio e il resto all’interno. La Stampa di Torino ha esibito il titolo di un pezzo di Niccolò Zancan “A casa dell’ultimo boia di Sant’Anna di Stazzema”. Il Fatto Quotidiano di Roma (giornale d’assalto, come si diceva una volta, di Padellaro e Travaglio) ha proposto un articolo di Furio Colombo, che parla da sé “Ah già, oggi è il 25 aprile. Una data dimenticata”. Il Mattino di Padova ha annunciato “La festa della Liberazione”. Il Secolo XIX di Genova ha proposto la civetta: “Ai miei tempi. I lettori del Secolo XIX raccontano il loro 25 aprile”. Anche Il Tirreno di Livorno ha scelto le testimonianze: “Storie del 25 aprile”. La Repubblica ha esibito un articolo di spalla di Guido Cranz e il rinvio interno ad un altro articolo di Stefano Bartezzaghi. Il Messaggero l’ha messa sulla cronaca: “Le celebrazioni. 25 aprile, i grillini pronti a disertare i raduni ufficiali”. Il Tempo, un articolo di spalla di Giuseppe Sanzotta “Un 25 aprile decisivo tra memoria e presente”. Su Il Resto del Carlino di Bologna l’editoriale  di Giovanni Morandi ha lanciato un monito “Ci vorrebbe un 25 aprile”. La Città di Salerno ha proposto un servizio tra cronaca e ricorrenza: “Il 25 aprile. Gli studenti sfilano in città. Mele, il ricordo del partigiano”. Lo stesso ha fatto Il Centro di Pescara con “Festa del 25 aprile. Quegli eroici garibaldini della brigata «Maiella»”. Anche La Nuova Sardegna di Cagliari, con l’editoriale “Liberazione e riforme”, ha attualizzato l’evento.
Si sono distinti per visibilità e contenuti L’Unità e Il Manifesto, giornali storici della sinistra. Il primo ha annunciato con un titolo di taglio alto “La Liberazione si festeggia in piazza con la memoria” e ha rinviato all’interno per i servizi. Il secondo è stato più abbondante, ma ha coniugato la ricorrenza con l’attualità politica: “Partigiani e Costituzione sotto il fuoco amico”, alludendo ai fatti più recenti del Pd, e di spalla “La scelta ieri e oggi” di Giovanni De Luna.
A ciascuno l’invito a riflettere sul consuntivo di una giornata che in altri tempi alzava nel cielo le Frecce tricolori.

martedì 23 aprile 2013

Giornata Mondiale della Terra: dal rispetto per sensibilità alla tutela per necessità



Questa nostra società va sempre più convincendosi che è sufficiente avere una giornata all’anno per celebrare particolari ricorrenze e scordarsene per le restanti trecentossentaquattro.  
Quella che abbiamo celebrato l’altro ieri, lunedì, 22 aprile, è stata la Giornata Mondiale della Terra, una particolare ricorrenza perché con una parola, Terra, si abbraccia il problema umano in tutte le sue declinazioni: salute, fame, sete, pace, cultura. Ma in specifico, paesaggio e ambiente, perché sono gli aspetti più immediatamente richiamati dalla Madre Terra. Questa Giornata, giunta ormai alla sua 43ª edizione, si celebra in 175 paesi del mondo. Da noi, nel Salento, è giunta per iniziativa dell’Amministrazione Provinciale su proposta del Sen. Giorgio De Giuseppe, Difensore Civico della Provincia.
Quel che è emerso nelle belle e significative relazioni tenute, a Taurisano, dal Sen. Giorgio De Giuseppe e dall’Avv. Fabiano Amati, già Assessore regionale ai Lavori Pubblici, ha messo in rilievo un dato che in genere è nascosto: il rapporto paesaggio-ambiente.
De Giuseppe ha ricordato che se la condizione di Lecce dal punto di vista ambientale non è quella di Taranto e di Brindisi il merito è di quella classe politica, con in testa Giuseppe Codacci Pisanelli, che negli anni Cinquanta del secolo scorso optò per la rinuncia all’industrializzazione selvaggia a favore del territorio, del paesaggio, con tutto quello che ne consegue in termini di sviluppo e ha stigmatizzato l’eccessiva disinvoltura con cui le amministrazioni concedono licenze edilizie o permessi per il passaggio sui loro territori di nuove strade che in buona sostanza non servono a nulla mentre sconvolgono il paesaggio. L’Avv. Amati ha puntato il dito, invece, sulla tutela dell’ambiente, per tale intendendo anche ciò che si nasconde nel sottosuolo e che pertanto non si vede e perciò non si considera. Ha come aggiunto alla sensibilità per la salvaguardia del paesaggio la necessità della salvaguardia dell’ambiente. Quel che infatti si stenta a capire e a far capire è che l’ambiente non è solo una questione di bellezza estetica, il paesaggio appunto, ma di vita o di morte dell’umanità. Le risorse della Terra vanno esaurendosi e con la loro riduzione e scomparsa saltano tutti gli equilibri della natura.
Non potevano non venire a galla alcuni clamorosi casi di danno al patrimonio paesaggistico del Salento. Così la strada famigerata 275 che porta da Lecce a Leuca, per la quale si è prodotto un grave scempio al territorio attraversato. A scempio è stato aggiunto scempio, quando Roberto Gennaio, autore di numerosi libri su paesaggio e ambiente, presente per la presentazione del suo ultimo libro “Titani. Olivi monumentali del Salento” (Lecce, Grifo, 2012), ha citato il caso della Marina di Alliste, dove per costruire una “passeggiata” di qualche centinaio di metri proprio sulla costa ad un passo dal mare si sta consumando l’ennesimo scempio paesaggistico.
E’ di questi giorni l’allarme lanciato da “Forum Ambiente e Salute” per la deliberazione dell’Amministrazione Comunale di Nociglia di estirpare un filare di più di venti pini italici lungo un corso cittadino per costruire una pista ciclabile. Allora se “ciò che si dovrebbe fare” e “ciò che si fa” fossero due squadre di calcio a confronto vincerebbe sempre “ciò che si fa”, ossia quel che si ritiene più utile nell’immediato. Poi tanto, c’è la Giornata Mondiale della Terra per mondarsi dai peccati! Ma qui non si tratta di peccati, bensì di danni.
Ha un po’ stupito l’Avv. Amati quando ha quasi ipotizzato una sorta di rivalità tra paesaggio e ambiente in riferimento all’espianto di alberi di ulivi per la famigerata 175. Al di là della quantità di alberi, dieci o cento, o del trapianto in altro sito, qui si tratta di due punti importanti da chiarire: primo, ma la strada che si costruisce è proprio indispensabile? Secondo, non è una violenza trapiantare altrove alberi secolari, così fatti dal tempo e dal luogo in secoli e secoli di azione modellatrice da parte degli agenti naturali?
Si dirà, ma se nel corso dei millenni l’uomo ha avuto bisogno delle risorse della natura per giungere al grado odierno di benessere e di civiltà, perché ora deve privarsi di quanto gli serve per procedere sulla stessa strada? Ecco, qui è il punto. Deve rendersi conto che la Grande Madre Terra non solo va rispettata per amore filiale ma anche salvaguardata per necessità. Le offese fatte alla natura, alla Terra, ricadono sugli stessi uomini. Se il clima sta cambiando è perché l’ecosistema è stato alterato per l’eccessiva immissione nell’aria di anidride carbonica, i ghiacciai si sciolgono, aumentano le maree e i mari erodono le coste e arrivano a portarsi via le case, che sciaguratamente sono state costruite sulla sabbia. Se ci facciamo una passeggiata lungo la costa salentina ci rendiamo conto che non sono chiacchiere quelle degli ambientalisti.
Allora, non so se per accorgersi del degrado paesaggistico-ambientale vale più una Giornata all’anno, oppure una seria riflessione su ciò che vediamo accadere tutti i giorni dell’anno.

domenica 21 aprile 2013

Napolitano e i cocci della democrazia



Se non fosse perché il Movimento 5 Stelle costituisce col suo capo comico ciarlatano Beppe Grillo l’epilogo farsesco di una vicenda terribilmente seria, ci sarebbe da dargli credito. Comunque si capisce perché ormai milioni di cittadini si affidano a lui come i napoletani a San Gennaro. Grillo è comico, ma non è ridicolo. Al contrario di altri che sono ridicoli senza essere comici.
La rielezione di Giorgio Napolitano costituisce una gravissima dichiarazione di default della politica in Italia e segnatamente della democrazia o di quel che resta della sua degenerazione in partitocrazia. Intendiamoci, abbiamo esultato alla rielezione di Napolitano, ma perché ormai appariva al Paese lo spettro dell’anarchia.
Ovvio che ci siano grosse responsabilità in tutto questo, alcune più vicine altre più lontane. Responsabilità significa colpevoli, con nomi e cognomi. Essi non possono essere che tutti i partecipanti al sistema, incominciando da Napolitano stesso fino all’ultimo dirigente politico che conta qualcosa nel suo partito.
Le cause della crisi vengono da lontano, ma la fase dell’esplosione più violenta risale all’autunno del 2011, quando invece di formare un governo di tecnici, che si è rivelato per più di un aspetto inadeguato, si doveva andare a nuove elezioni, dato che il quadro politico, dopo la scissione del Pdl, era cambiato e quella che si era proposta come l’ “invincibile armada” berlusconiana si era ridotta a sostenersi coi pitocchi di strada in libera uscita dai propri partiti. Il 2012 tuttavia poteva diventare per le parti politiche il periodo provvidenziale per risolvere alcune questioni squisitamente politiche, mentre al governo del Paese provvedeva Monti e compagni, sotto la supervisione, sempre attenta e vigile, di Napolitano.
La ragione per la quale non si poteva andare a nuove elezioni era che il sistema elettorale, il famigerato Porcellum, non avrebbe risolto la crisi di governabilità. Era necessario elaborare ed approvare una legge elettorale che desse risposte chiare sull’esito delle elezioni, con conseguente chiarezza anche nella formazione del governo. Un anno di tempo sarebbe bastato.
Cosa hanno fatto i partiti per tutto il 2012? Hanno chiacchierato, dicendo a parole di voler cambiare la legge elettorale mentre nei fatti hanno impedito qualsiasi approccio concreto. E quando, ad un certo punto, Monti ha minacciato di provvedervi con un decreto legge governativo, sono tutti scattati a difesa delle prerogative del Parlamento e dunque del sistema. In buona sostanza i due poli speravano di poter trarre vantaggio dal Porcellum, per via del premio di maggioranza. Di più il centrosinistra di Bersani che il centrodestra di Berlusconi, perché si dava per scontato che le elezioni le avrebbe vinte il centrosinistra, dato abbondantemente in avanti. Di fronte a questa pacchiana verità Bersani e i suoi uomini hanno avuto la spregiudicatezza di dire che è stato Berlusconi a non voler cambiare la legge elettorale. In ciò hanno mancato di rispetto al popolo italiano perché non c’è bischero – direbbe Renzi a Firenze – che non si sia convinto che a non volere una nuova legge elettorale è stato soprattutto il partito di Bersani.
I risultati elettorali del 24-25 febbraio sono sotto gli occhi di tutti. Nessun vincitore, con l’aggravante di una forza politica massiccia, eversiva e irresponsabile, che pretende di dettare le cose da fare, di proporre gli uomini che vuole ai posti chiave dello Stato, con la presunzione assoluta di rappresentare tutti gli italiani. Il Movimento di Grillo è de jure fuori dalla Costituzione, comunque non previsto nelle sue metodiche, e de facto una dittatura;  viola in maniera patente la Costituzione che all’art. 49  dice che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Un soggetto che tutto riconduce ad un sito web intestato a Beppe Grillo, che ha un “non statuto”, che si definisce una “non associazione” è come un masnadiero mascherato che dà l’assalto ai passanti, a prescindere dal perché lo faccia. La pericolosità di Grillo non è in sé ma in ciò che potrebbe far nascere di qui a non molto in emulazione e reazione. 
La più bella Costituzione del mondo, come è considerata quella italiana, con la solita enfasi conformistica, quanto meno dovrebbe essere adeguata ai tempi e dire se i movimenti, come quello di Grillo, sono democratici o meno.  
La fase che ha preceduto la rielezione di Napolitano è tra le più drammatiche della storia della Repubblica. L’ingestibilità del Pd, l’esautoramento del suo segretario, le baruffe delle sue varie anime, la disintegrazione di un partito che sembrava scoppiare di salute, hanno portato alla incapacità di eleggere un Presidente della Repubblica, fatto di assoluta fisiologia democratica, e a non trovare più una via d’uscita.
Ma quanto è accaduto nei tre giorni dell’elezione del Presidente dimostra che la crisi del sistema non è solo tecnica, ossia di leggi e di organismi, ma di cultura politica; la fisiologia democratica è degenerata in patologia.
Napolitano è stato grandioso nel dare la sua disponibilità alla rielezione, ma per come ha gestito questi due ultimi anni della sua presidenza, ivi compresa la sua rielezione, dimostra di appartenere ad un sistema a pezzi, che va rifondato prima che sia troppo tardi.

domenica 14 aprile 2013

Saggi avere parlato, augh!



Si rischia di mancare di rispetto a se stessi se ci si meraviglia che dai dieci giorni dei dieci saggi non sia uscito nulla che possa veramente segnare una svolta, un principio di percorso, da poter dire che ne è valsa la pena. Gli stessi commentatori sono ironici e severi. Ainis sul “Corriere della Sera” ha detto che alcune idee sono originali ma non esatte, altre sono esatte ma non originali. Stefano Feltri del “Fatto quotidiano” ha detto che qualcosa di notevole la commissione economia l’ha detta, ma quella delle istituzioni ha fatto flop, perché per ogni proposta c’era chi dissentiva e si verbalizzava. Ma, onestamente, non ci si aspettava altro. Le dieci persone scelte da Napolitano sono tutte rispettabili ed esperte ognuna per specifiche competenze; non sono loro in discussione, ma la situazione nel suo complesso. Se da alcuni loro stessi colleghi partono attacchi ironici nei loro confronti, si consideri anche quel pizzico d’invidia che c’è in ognuno di noi. Se altri alzano la voce per farsi sentire, come il Presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo, si può comprendere. Che nessuno pensi che gli unici saggi d’Italia siano quelli scelti da Napolitano! Essere scelto, comunque, è bello, diciamo la verità, anche per una passeggiata. Si capiscono i risentimenti, taciuti o espressi. E’ la scelta in sé che gratifica. 
Ma, al di là di tutto, occorre cogliere sempre gli aspetti positivi delle cose. La politica, porcellum a parte, è come il porco, non si butta niente. E’ proverbiale l’inutilità della Bicamerale, per fare un esempio, eppure fu in quella sede che Berlusconi e D’Alema si apprezzarono fuori dai fuochi di sbarramento esterni; una “collaborazione” che dura ancora. Liberi, poi, di considerarla una iattura.
Un certo bilancio le due commissioni dei saggi lo hanno fatto. Nessuno può dire augh! come un capo pellirossa, ma non si può neppure far finta che questa iniziativa con le sue risultanze non ci sia stata. Napolitano l’ha valorizzata, lasciandola in eredità al suo successore come un documento da considerare nelle future dinamiche politiche e di governo. Non è il suo testamento, ma neppure carta straccia.
Di positivo c’è stato il fatto che persone di varie tendenze, anche con esperienze politiche pregresse (Violante Pd) ed esperienze politiche in itinere (Quagliarello Pdl), si siano incontrate senza preoccupazioni di prendersi reciproca orticaria. In Italia si è sempre un po’ contradaioli. Si dice che è stata evitata a bella posta la foto della stretta di mano tra Berlusconi e Bersani per non mettere carne a cuocere sulla graticola dei sospetti e delle contrapposizioni al coltello; qualcosa di terribilmente compromettente quasi fosse il bacio tra Andreotti e Totò Rijna, che nell’immaginario popolare ha superato quello di Giuda.
Di positivo c’è che Napolitano ha voluto rendersi conto di persona delle difficoltà di un dibattito politico che in questi ultimi anni è diventato sempre più aspro e sempre meno motivato con ragioni nobili. Ai suoi tempi, che un po’ sono i nostri, le contrapposizioni tra i partiti erano forti, ma motivate tutte da un’idea nobile della politica, dello Stato, della società, della nazione. Non che il Capo dello Stato non conoscesse le cause di una simile deriva, ma aveva bisogno anche di un documento che la ufficializzasse. La relazione dei dieci saggi lo ha fatto.
Il Presidente della Corte Costituzionale, Gallo, che di stare secondo in una graduatoria nazionale dei saggi non gli va, ha nuovamente sollevato la questione dell’incostituzionalità del porcellum, per il premio di maggioranza. Questo non stupisce noi italiani, adusi a vivere fuori legge per anni ed anni, salvo che ad un certo punto un giudice si alza una mattina e decide di dire basta. E tutto quello che si è fatto in regime di abuso? Boh! Gli stranieri hanno ragione o di non capirci o di prenderci in burla. Gallo è andato oltre. Ma è nelle sue prerogative dettare ai poteri legislativo ed esecutivo l’agenda? Me lo chiedo, perché non ho mai letto da nessuna parte che tra i compiti del potere giudiziario c’è anche quello di interferire con gli altri poteri dello Stato. Comunque, cosa detta capo ha.   
Gallo ha sollecitato anche la regolamentazione delle coppie omosessuali. A prescindere da ogni altra considerazione di forma, è giusto che il problema venga finalmente affrontato, anche se per come lo ha impostato Gallo sono sorti non pochi dissensi.  Altra questione – e questa con tutto il rispetto è proprio di lana caprina – è il diritto di scegliersi il cognome o di aggiungere a quello paterno quello materno. Non so se con tutti i problemi che abbiamo oggi in Italia ci dobbiamo porre pure quello del cognome. Ma se ce lo dice un saggio, forse ce ne dobbiamo occupare. 

giovedì 11 aprile 2013

Vendola e la sinistra che sarà



Qualche giorno fa sembrava che Nichi Vendola optasse per la Camera e lasciasse la presidenza della Regione Puglia. Erano giorni in cui si pensava che Bersani riuscisse a fare un governo con non si sa chi ma che comunque sarebbe riuscito a farlo. Sarebbe stato un monocolore, come tanti se ne facevano nella Prima Repubblica, col sostegno di volontari di partiti amici o non nemici, nomadi, pellegrini che dir si voglia. C’è chi è ancora convinto che sarebbe riuscito, quasi che la via del governo fosse la via francigena. In un governo del genere Vendola sarebbe stato ministro e avrebbe avuto la possibilità di intraprendere la via del progresso democratico come è da sempre nei suoi propositi. Qualcosa si è visto in Puglia nel suo doppio mandato. In simili atmosfere speranzose aveva fatto capire che la Sel sarebbe confluita nel Pd, siccome non è mai successo che il più grande confluisse nel più piccolo. Pares cum paribus facillime congregantur. Perché continuare a stare divisi se ormai mezzi e propositi sono gli stessi?
Non è passato un lustro, non sono passati cinque mesi e neppure cinque settimane, ma qualcosa di più di cinque giorni. Quell’ipotesi è sfumata. Le sortite di Renzi, di Franceschini e di Enrico Letta hanno fatto capire chiaramente che nel Pd c’è un problema serio, che il partito non sarebbe mai scivolato a sinistra verso Vendola, ma piuttosto avrebbe posto barra a dritta, verso direzioni moderate, cioè verso un accordo per un governo di larghe intese col Pdl.
A quel punto per Vendola si è posto il problema: ed io? Ovvio, non tanto per l’io personale, quanto per l’io politico, ossia per un’ipotesi politica in direzione progressista, ovvero di sinistra. Che una simile ipotesi possa essere ripresa in una situazione diversa non sfiora neppure minimamente Vendola, a cui non interessa il domani.
No, ha detto di recente il Presidente della Regione: lascio la Camera, resto in Puglia e Sel continua per la sua strada, secondo una direzione annunciata fin dalla sua nascita: andare oltre se stessa. E il Pd, tanto lodato nei giorni delle speranze? Il Pd va per fatti suoi, è un partito che deve trovare la sua sinistra, così come la Sel. L’idea che due partiti di sinistra che cercano divisi la stessa sinistra fa il paio con le convergenze parallele di Moro
In verità s’incomincia a capir poco nella strategia di Vendola o forse si è già capito abbastanza; semplicemente non c’è strategia e si naviga a vista, tatticismo ad oltranza e gioco corto. La Sel sarebbe pronta a fare una fusione col Pd, non a freddo, ma dopo confronti e approfondimenti e ad una condizione ben precisa: l’uscita degli ex democristiani dal Pd.
Si può capire fino ad un certo punto questo procedere passo dopo passo, ma lasciare i gruppuscoli di sinistra al loro destino oggi e volerli assorbire domani in una diversa prospettiva non paga, anche perché la situazione è molto fluida e non è il contenitore che prende la forma dell’acqua ma viceversa.
Volano ormai gli stracci in casa Pd. Renzi accusa esplicitamente di essere stato boicottato da Bersani o dai bersaniani nella sua partecipazione all’elezione del Presidente della Repubblica. Franceschini ha appena paventato una scissione. Appena bilanciata la sua “minaccia” dalla sortita della Bindi, che ha fatto sapere che lei di accordi con il Pdl non vuol sentirne parlare. Insomma un bel guazzabuglio.
Anche questa situazione interna alla sinistra è spia di una crisi che va ben oltre le cause addossate pigramente a Bersani, reo di non rappresentare, nonostante le primarie stravinte, il partito in tutte le sue componenti; o forse colpevole di aver sacrificato i suoi Franceschini e Finocchiaro, dati per presidenti di Camera e Senato, prima della svolta che avrebbe portato su quelle sedie Boldrini e Grasso. Sorprende come lievi spostamenti tattici possano vanificare obiettivi strategici. Ma è la caratteristica situazione di un sistema in crisi.
Ora Vendola torna a fare il vendoliano a tempo pieno, si propone di portare la Sel oltre la Sel nella direzione di un partito di autentica e sola sinistra con l’aiuto delle voci sparse dei movimenti. L’obiettivo è di creare un forte gruppo politico di pressione per convincere il Pd o a non fare scelte coi moderati del centrodestra o di lasciare che gli ex democristiani vadano via per ripensare insieme il vero partito della sinistra democratica.
Che accada l’una o l’altra delle due ipotesi, un dato sembra certo: gira e rigira, si è sempre al punto di prima.

domenica 7 aprile 2013

Pd-Pdl: verso l'intesa dei due Palazzi



Nel Pd volano insulti. Renzi ha, come si dice, scazzicato la paglia; e tutti a scazzarsi. Mettiamola sul serio. Il momento non consente cazzeggi.
Bersani prima o poi doveva fare i conti con chi nel partito, pur pensandola come lui, ritiene che l’emergenza imponga percorsi diversi. Franceschini è stato chiaro. Basta con questo complesso di superiorità nei confronti degli altri. Berlusconi mi sta antipatico quanto lo sta a Bersani, ma in questo momento, se si vuole fare un governo, è necessario incontrarlo, parlargli, negoziare alcune cose essenziali. Il muro è caduto. Qualche giorno fa sarebbe apparso uno scherzo da pesce d’aprile.
Perché non dire bravo, Franceschini? Invece nel Pd gli gridano traditore, danno a lui e a Letta, suo sodale nella circostanza, del Bruto e Cassio. E da parte loro, di rimando: comunisti!
Si teme la scissione. Si prospettano scenari fantasiosi, ma nient’affatto utopici. La politica in Italia ha risorse alchemiche. Si parla, per esempio, della nascita di un nuovo partito di sinistra, che comprenderebbe la componente di sinistra del Pd, più la Sel e più le tante sigle comuniste o pseudo tali. Per altro verso si parla dell’ingresso della Sel di Vendola nel Pd, per rafforzare una linea politica più di sinistra.  Qualcosa comunque nel centrosinistra accadrà. Barca, l’altro “tecnico” del governo Monti, si è autoproposto a capo di un nuovo Pd. I tecnici più che riparare la politica si lasciano ingoiare.
Ma lasciamo stare le baruffe, che fanno la gioia dei comici. L’apertura del Pd a Berlusconi è nell’immediato la strada più giusta. Se porterà a qualche arrivo importante si vedrà.
Intanto Grillo gioca a fare il duce, il Führer, il caudillo, il conducator, una cosa del genere. A lui la scelta. Salvo che non ha proprio le physique du rôle. All’inciucio – così lo chiamerebbe un eventuale governo Pd-Pdl-Lista Civica – gli italiani prenderebbero i bastoni. Non sa quello che dice. E’ del tutto fuori dalla grazia di Dio. Spero proprio che quegli italiani, riconducibili alla testa più che alla pancia del Paese, che lo hanno votato, si ricredano e alle prossime elezioni lo confinino ai termini più congeniali ad un fenomeno da baraccone, a cui appartiene per indole connaturata. Se ciò avvenisse, il Paese tornerebbe al bipartitismo, che, emendato come si deve, è la sola strada della normalità democratica.
L’incontro Pd-Pdl non è evidentemente senza problemi. Le ferite dello scontro elettorale sono ancora sanguinanti, ma i due partiti hanno un comune nemico e uno scopo immediato da raggiungere. Il comune nemico è l’antipolitica. Fare un governo e giungere all’elezione del Presidente della Repubblica senza lasciare strascichi e risentimenti è lo scopo immediato. E’ l’intesa dei due Palazzi: Chigi e Quirinale.
Sette anni fa Napolitano, pur proveniente dal partito comunista, fu ben accolto da entrambi gli schieramenti. Una bella impresa di Berlusconi e D’Alema. Sono stati sette anni di formale e sostanziale rispetto, anche quando alcune decisioni presidenziali non sono state affatto digerite bene. Penso al conflitto con la Procura di Palermo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Penso alla nomina dei saggi, che è apparsa a tutti non solo una perdita di tempo ma anche un affronto alle Camere e ai partiti. Ma anche qui ci sarebbe da dire che tutti i torti Napolitano non li ha avuti, stante una rigidità dei soggetti in campo, ognuno arroccato sulle sue posizioni.
Certo, i presidenti della repubblica non si fanno in serie o su ordinazione. Un altro Presidente della Repubblica come Napolitano non è possibile. Non esistono i cloni in politica. Ma un signore, proveniente dalla politica, e non da settori esterni, come qualcuno vorrebbe, dalla letteratura o dalla musica, dall’arte o dalla scienza, si può individuare. Un uomo che più che prova di imparzialità data nel passato si ponga come un elemento di equilibrio e di saggezza – quella vera – per il futuro in modo da far ritenere le sue decisioni, anche le meno digeribili, come dettate da un superiore interesse per la nazione. La grazia concessa da Napolitano all’ex capo della Base Nato in Italia, il colonnello americano Joseph Romano, condannato dalla Cassazione a sette anni per il sequestro di Abu Omar, è un esempio di ciò che può fare la politica quando a gestirla è un politico di razza, poiché il gesto va inserito nella più vasta e complessa questione che riguarda i nostri due marò in India. Solo un politico è in grado di pensare plurale, di prevedere, di fare le opportune connessioni.
Vedremo nei prossimi giorni se le rose che si stanno piantando fioriranno. Ma che ci sia qualcosa che fa sperare è già tanto.