domenica 31 maggio 2015

Nozze gay: la società paccottiglia


C’è un nesso tra la dichiarazione di papa Francesco sui gay “chi sono io per giudicare?”, che a me sembra il massimo dell’ignavia, e la vittoria delle nozze gay in Irlanda di domenica 24 maggio? Un po’ sì e un po’ no. Un po’ sì, perché se il Papa è il vicario di Cristo sulla terra, vuol dire che, imitando Pilato, una vecchia conoscenza di Cristo, è come se avesse detto la questione non è di mia competenza e dunque “mi lavo le mani”. Un po’ no, perché il Papa oggi può dire quello che vuole, di lui la gente, a parte turisti domenicali a San Pietro e pinzochere abituali, se ne frega.   
Il voto irlandese, proprio nella domenica di Pentecoste, sembra essere disceso con lo Spirito Santo sulla terra. Il Segretario di Stato Pietro Parolin si è detto molto triste, aggiungendo “è stato una sconfitta per l’umanità”. Non è dello stesso avviso il cardinale Walter Kasper, che nelle alte gerarchie ecclesiastiche e nelle sfere teologiche rappresenta il concessionario di tutto, ha detto che “la Chiesa ha taciuto troppo” e che “bisogna discuterne”.
Paradossalmente, rispetto a come la penso nel merito, credo che abbia ragione Kasper. Concedere l’assenso alle nozze gay fa parte dell’umanità, non mi sembra una sua sconfitta, anche se lo ritengo nel disordine delle cose. Kasper, invece, ha detto bene: la Chiesa finora ha taciuto, deve discuterne. La discussione, diversamente dalla dottrina Renzi – chiedo scusa per aver mischiato il sacro col profano – contiene sempre qualche concessione. Vedremo presto come la Chiesa saprà adeguarsi alla società deregolarizzata, dove tutto è consentito e l’ordine non è né punto di partenza né di transito né punto d’arrivo.
Detto questo, esprimo sommessamente il mio punto di vista. Esso si articola in due momenti diversi.
Primo. La realtà vuole che ci siano i gay, i quali hanno tutti i diritti riconosciuti e concessi ad ogni individuo, non solo perché così vogliono il diritto positivo e il diritto naturale, ma anche per una forma di sincero rispetto dell’altro, starei per dire evangelico, quale che sia la sua dimensione corporea e spirituale. Se dovessimo accettare o meno l’altro per la sua pelle, per la sua statura, per le sue opinioni, staremmo freschi, torneremmo al punto zero della società. Anzi, a quel punto non potremmo neppure parlare di società, perché essa si caratterizza per essere un “luogo” dove c’è posto per tutti.
Secondo. Qui occorre mettersi d’accordo: vogliamo accettare la realtà nel suo stato di natura, la qual cosa sarebbe assurda e irrealizzabile, non potendo azzerare diecimila anni di storia, o vogliamo ordinarla secondo i suoi stessi principi (juxta propria principia) formula che rimanda per lettura epistemologica a Bernardino Telesio? Mi spiego: come si riconosce alla natura avere dei suoi principi in base ai quali spiegarla così va riconosciuto alla società avere i suoi principi in base ai quali ordinarla. E’ di tutta evidenza che mentre la natura può essere solo spiegata, ma non ordinata, poiché essa ha un suo ordine immutabile, la società deve essere necessariamente ordinata in base a mutevoli situazioni. Dunque, la seconda che ho detto: la società va ordinata; senza ordine non c’è società.
Oggi – lo vediamo tutti – i gay rappresentano un movimento emergente; essi perciò vogliono tutto ciò che la società (la legge viene dopo: res facit legem) concede ad ogni individuo. Sposarsi tra di loro, adottare bambini, accedere in tutto e per tutto al diritto di famiglia, eredità di beni e reversibilità di pensione comprese. Fin qui il ragionamento è matematico. I gay ci sono, in quanto individui hanno tutti i diritti, dunque se ogni individuo ha diritto di sposarsi con chi vuole, col permesso di Aristotile e della logica, essi possono sposarsi tra di loro. La Chiesa che c’entra? Già, chi è la Chiesa? verrebbe di dire con papa Francesco. Chi è la Chiesa per dire che è una sconfitta per l’umanità?
Discorso chiuso, allora? No, c’è sempre la società, il contenitore all’interno del quale s’inserisce la questione dei gay e pone una domanda: come s’immagina una società con i gay ai quali si concede tutto quello che si concede agli individui?
Non è il caso di scomodare formule abusate: società aperta (Popper) o società liquida (Bauman), con le quali si potrebbe pure stabilire un nesso, perché sia l’una che l’altra non escludono la regolarizzazione della società, pur con tantissime difficoltà sopraggiunte col moderno e soprattutto col post-moderno.
Qui non si tratta di ragionar per anni, ma per visioni di vita temporali sebbene a lunghissima prospettiva. Due, perciò, le ipotesi avveniristiche.
Prima. In una simile società i gay aumenterebbero vertiginosamente, dato che essi non sono tali solo per strutturazione fisica ma anche per condizione morale e per scelta. Se prima sono stati contenuti nel numero è perché sono stati socialmente repressi. La società del futuro sarebbe una società sempre più gayzzata, con la famiglia disintegrata, con le figure di padre e madre vaporizzate, con figli di nessuno, prodotti in tantissimi modi che la scienza provvederebbe a trovare. Sarebbe una società “paccottiglia”, in cui i diversi sarebbero proprio quelli che prima erano i normali. Essi potrebbero essere addirittura perseguitati e repressi, in una sorta di rivoluzione antropomorfica.
Seconda. La società potrebbe sviluppare degli anticorpi sociali capaci di difendersi e addirittura giungere ad una reazione fagocitando tutto ciò che nella società è fattore di disordine e ristabilire l’ordine compromesso, proprio come i fagociti nel sangue.

Ci sarebbe una terza ipotesi, più presentista. Sarebbe quella di vedere tutti recuperare il senso dell’equilibrio e della responsabilità, incominciando da papa Francesco, il quale dovrebbe smettere di fare il segretario dell’Onu aggiunto, “pensando a Cui somiglia”, che non è Ban Ki moon, ma Gesù Cristo. A proposito di “Pentecoste”, grazie a don Lisander!

domenica 24 maggio 2015

Renzi vuol farsi il bello sulla pelle degli altri


Il rimborso delle pensioni è un affare politico e non economico. Cerco di spiegarlo. I membri della Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 30 aprile 2015 sul rimborso dell’indicizzazione delle pensioni  bloccata dal governo Monti nel 2012 hanno detto chiaramente che quell’atto era illegittimo. Con ciò hanno dimostrato di non essere dei cortigiani della politica, come pure c’è chi in questi tristi anni li ha sospettati, ma dei giudici indipendenti, a prescindere da quanti di essi hanno votato in un senso o nell’altro.
Quella sentenza ha avuto l’effetto di una tracheotomia in un paziente che stava per soffocare, non potendo respirare normalmente. I cittadini italiani, al di là di qualche centinaio o migliaio di euro che potranno riavere, hanno ottenuto di più, hanno recuperato la fiducia nelle istituzioni. Cazzo, se non è più importante di una manciata di euro!
A fronte di una simile sentenza, che costringe il governo – non parliamo di Stato, che è un’altra cosa – a restituire ai cittadini depredati quanto di loro spettanza, Renzi ha risposto da guappariello, quale non si stanca di dimostrare di essere.
Primo, ha fatto la solita polemica coi soliti nemici, quelli che la legge Fornero l’avevano pur votata, come se l’aver ragione in una polemica significa essere nella ragione reale. Secondo, ha preso i soldi del tesoretto, due miliardi circa, per dare il 1° agosto di quest’anno un bonus, una tantum, a quattro milioni di pensionati che percepiscono una pensione al disotto di circa millecinquecento euro lordi (tre volte la pensione minima), facendo sembrare un grazioso omaggio ciò che è invece solo la restituzione di una parte del “furto” o, se non vogliamo chiamarlo così, dell’indebita ritenuta perpetrata ai loro danni. Gli altri son figli di puttana, si dice al paese mio.
Si eccepisce: ma se il governo dovesse restituire tutti i diciotto miliardi di euro, l’Italia andrebbe oltre il rapporto deficit/pil con conseguenze disastrose. L’Europa non lo permetterebbe. A parte la questione Europa, che ha già tolto agli Stati membri parte di sovranità, senza neppure un buongiorno o una buona sera, ed ora sta erodendo alla chetichella parte anche di giustizia, non è esattamente così. Renzi potrebbe benissimo tagliare qualche spesa, magari tra quelle che lo rendono popolare; potrebbe aumentare le tasse e restituire i soldi ai legittimi creditori.  I quali non sono cittadini di serie B solo perché hanno una certa età e sono pensionati rispetto ai più giovani e ai non pensionati, e non sono neppure cadaveri in attesa di sepoltura; ma è gente viva e vegeta che di andarsene all’altro mondo non ci pensa minimamente, capaci anch’essi di “trattar il ferro e dar la morte, / e a dritta e a manca …girar lo scudo / e infaticat[i] sostener l’attacco, / e a pié fermo danzar nel sanguinoso / ballo di Marte”. Grande Omero!
Ma se Renzi ciò facesse, ossia restituisse tutti i soldi – e qui la questione diventa politica – non potrebbe vantarsi di aver fatto questo e quest’altro, di non aver aumentato le tasse e via propagandando. In altri termini Renzi vuole costruire e rafforzare consenso coi diritti degli altri, coi soldi degli altri, passando sul cadavere dello Stato di diritto.
Sulla questione di chi la famigerata legge Fornero sulle pensioni la votò c’è da fare qualche considerazione. In quel momento si aveva a livello politico la percezione che fosse necessaria per evitare il disastro economico del Paese. Ricordiamo la metafora montiana dell’Italia sull’orlo del  baratro salvata un attimo prima che cadesse?
Sarebbe stato più ragionevole che il governo dicesse fin d’allora: signori, il Paese ha bisogno dei vostri soldi, ora li prendiamo e poi ve li restituiamo in un momento più felice. Invece, no. Presi d’autorità, come bottino rimediato da banditi che entrano in un negozio, vanno alla cassa, si prendono i soldi e via. Si può vivere così in uno Stato di diritto?
E il Presidente Napolitano? Perché non bloccò il provvedimento che la Corte costituzionale ha poi sentenziato essere illegittimo? Risposta muta perché scontata e perciò superflua: perché da almeno quattro anni in Europa c’è una lobbie politica che fa e disfa come vuole. Una lobbie che aveva in Napolitano la referenza italiana. Fu lei che buttò giù il governo Berlusconi nel novembre del 2011, che rielesse Napolitano nel 2013, che chiamò al governo prima Letta (Enrico) nel 2013 e poi Renzi nel 2014. Ovvio, che le cose potrebbero non essere andate esattamente così, non è la sceneggiatura di un film, questa, è un ragionamento politico; i dettagli contano poco.
Tra gli episodi poc’anzi citati non figura la trombatura di Romano Prodi al Quirinale quando ormai la sua elezione sembrava cosa fatta. Ebbene, lo sanno tutti che Prodi era inviso alla lobbie cui si è accennato prima. E lo era perché da qualche tempo aveva espresso giudizi critici nei confronti della politica europea, fra cui la guerra alla Libia. La sua elezione avrebbe rappresentato uno strappo con l’Europa. Basta leggere il suo libro “Missione incompiuta”, di recente pubblicazione, per convincersene.

Per tornare a Bomba, come si dice, se il governo non restituisce ai pensionati il maltolto o il provvisoriamente bentolto si infligge un vulnus alla credibilità dello Stato – qui è proprio il caso di parlare di Stato e non più di governo – perché c’è di mezzo un’importantissima istituzione, la Corte costituzionale, che è garanzia di giustizia. Al momento potrebbe non accadere niente, ma chi ha dimestichezza con la storia sa che certe ferite non si rimarginano mai completamente e possono costituire un colpo piuttosto grave al progressivo processo di indebolimento generale del sistema.

domenica 17 maggio 2015

Toponomastica: ri-dagli al fascista!


Sono periodici, direi stagionali. Si tratta di fenomeni di allergia ricorrente, a cui nessun antistaminico culturale può porre rimedio. I più colpiti sono proprio quelli che stanno in luoghi meno sospettabili. Il “Corriere della Sera”, per esempio. Da qualche tempo due suoi editorialisti della specie “stampa di regime” insistono perché in Italia si abbattano certi monumenti, si tolgano certe scritte, si cambino certi nomi di piazze e strade, si faccia piazza pulita di certe memorie. Monumenti, scritte, nomi, memorie del fascismo e di fascisti, s’intende. Ci fosse un regime dittatoriale in Italia questi due campioni sarebbero suoi formidabili cantori, allo stesso modo come lo sono del più sgangherato regime antifascista. Sono Aldo Cazzullo e Gian Antonio Stella.
Aldo Cazzullo vorrebbe che a Roma si cancellasse la scritta verticale “Mussolini Dux” dall’obelisco del “Foro Italico”, già “Foro Mussolini”. Il suo collega Gian Antonio Stella vorrebbe che a Napoli si cambiasse l’intestazione della via a Gaetano Azzariti, noto giurista ai tempi del fascismo e presidente della Consulta in era repubblicana e antifascista, col nome di Luciana Pacifici, una bambina ebrea che non sopravvisse nel 1943 alla deportazione in Polonia nei lager nazisti e morì all’età di otto mesi.
Si dirà: che male c’è? Tutto cambia, tutto scorre; “pànta rêi”, diceva il filosofo greco Eraclito. E’ così normale! Perciò anche le strade e le piazze si devono adeguare ai regimi e gli stessi monumenti. Si potrebbe obiettare che allora bisognerebbe demolire edifici, piazze e monumenti di tre quarti d’Italia, perché costruiti dal fascismo e irrimediabilmente compromessi col fascismo per via della loro inconfondibile architettura; ma non servirebbe. Dire che allora bisognerebbe restituire l’Italia come era prima del fascismo, perfino con la malaria infestante metà delle coste italiane, servirebbe ancor meno e anzi verrebbe da ridere. Ma – si sa – i ridicoli si salvano sempre perché non hanno specchi. Dove potrebbero specchiarsi i Cazzullo e gli Stella? Sono degli autoriflessi.
Questi antifascisti, nostalgici di una resistenza mai fatta per ragioni anagrafiche e conosciuta solo nella vulgata di regime, vorrebbero acquisire medaglie ad antifascismo finito e mantenuto in vita da velleitari eroi del poi, come li chiamerebbe Giusti.
Il personaggio che a Napoli si vuole cancellare dalla memoria è Gaetano Azzariti, a cui nel 1970 l’amministrazione comunale intitolò la via che oggi, anche per volontà dell’amministrazione di Luigi De Magistris,  si vorrebbe reintitolare alla bambina ebrea. Stando a quanto dice Stella nel suo articolo "Quel sacrosanto cambio della targa", apparso sul settimanale “Sette” del “Corriere della Sera” del 15 maggio, la reintitolazione dovrebbe avvenire il prossimo 28 maggio, giorno in cui la Pacifici avrebbe compiuto 72 anni. L’operazione ha una finalità chiara, un valore simbolico: via il nome di un indegno italiano perché fascista e al suo posto il nome di una bambina simbolo della shoah. 
Si potrebbe finire qui il discorso, ma vale la pena fare alcune considerazioni. Chi era Gaetano Azzariti? Un massacratore fascista? Il capo di una banda tipo Koch? No. Si legge nella motivazione della delibera per l’intitolazione della via: «Magistrato, nel 1931 era presidente di Corte d’Appello. Messo a riposo nell’ultimo periodo della guerra dai fascisti della Repubblica Sociale, dopo la liberazione riprese la sua attività. Ministro di grazia e giustizia nel gabinetto Badoglio, firmò il decreto per la scarcerazione dei prigionieri politici; quelli contro gli illeciti arricchimenti  e contro la pena di morte. Giudice della Corte Costituzionale nel 1955 e di essa presidente nel 1957». Dunque, un italiano come tanti, che ebbe la ventura di vivere e di operare sotto due regimi diversi e di servirli entrambi con merito.
La motivazione è per Stella “addomesticata”, perché nasconde il ruolo importante che l’alto magistrato ebbe durante il fascismo fino alla carica di Presidente del Tribunale della Razza dal 1939 al 1943. E qui s’incentra l’operazione epurativa: via il nome del boia e al suo posto quello della vittima. A distanza di più di settant’anni, quando si dovrebbero giudicare con più serenità i fatti, c’è ancora chi rimesta per acquisire meriti scaduti.
Si dirà: ma se tutto scorre, non è anche necessario che ci sia chi tutto faccia scorrere, chi si faccia carico di un compito che può essere pure poco intelligente ma è sicuramente normale? Certo, i Cazzullo e gli Stella sono necessari a rendere il mondo come è sempre stato e sarà, sono i garanti della normalità. Ma è altrettanto normale che simili personaggi si vestano di panni apparentemente ammirabili, ma in buona sostanza  sgradevoli.
Si pensi a Giuda. Anche il tradimento è normalità. Se non ci fosse stato lui, come poteva essere tradito Gesù  e dare corso al cristianesimo? Giuda fu un uomo utile e necessario, non c’è dubbio alcuno, ma resta il simbolo in eterno del tradimento.
I monumenti e le intitolazioni di luoghi urbani non dovrebbero mai essere rimossi o cambiati perché testimoniano la realtà del momento in cui sono stati realizzati. Realtà bella, realtà brutta? Cosa conta, è la realtà; che non vale far finta che non ci sia o che non debba esserci. Deidentificare un monumento equivale a privarlo della sua ratio di fondo, che è di ammonire (da moneo). Non è certo una cosa intelligente farlo, anche se è normale. 

I Cazzullo e gli Stella non propongono cose intelligenti, ma normali. E fa niente se rivelano la loro indole di soggetti che ai regimi, comunque questi si presentino, offrono le loro carezze e le loro adulazioni quando sono in auge, sputi e sberleffi quando sono caduti.   

domenica 10 maggio 2015

Scuola: dagli obblighi scelti all'obbligo imposto


La scuola italiana, prima dell’istituzione della scuola media unica, era una scuola selettiva. Il che non deve far pensare subito che era riservata esclusivamente a chi proveniva da famiglie di abbienti o di professionisti, anche se era avvantaggiato per una serie di fattori. Da quella scuola sono usciti fior di professionisti e uomini di cultura di estrazione sociale modesta.
Alla scuola media si accedeva attraverso esami di ammissione, che erano abbastanza impegnativi e selettivi. La selezione non era ancora una parolaccia, lo è diventata dopo. Con l’ingresso dei socialisti al governo – siamo agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso – si realizzò un loro vecchio sogno, quello di mettere in condizioni tutti di raggiungere le più alte quote del sapere, di conseguire titoli di studio, di accedere alle professioni, partendo dal presupposto ideologico che tutti sono uguali. Nobilissimo fine, sancito peraltro dalla Costituzione (art. 3), anche se, a questo punto, essa non è chiara se tutti possono salire per raggiungere le vette del sapere o se l’altezza delle vette del sapere deve essere adeguata a tutti e dunque abbassata.  Punto di vista aperto: se al governo ci sono i meritocratici il sapere resta alla sua altezza e sale chi può; se invece ci sono gli egualitari il sapere scende al livello di tutti. La realtà sociale e dei singoli provvede poi ad una selezione tanto spontanea quanto inevitabile e necessaria; ma intanto alla scuola pubblica il danno è fatto.  
La scuola media divenne unica e aperta a tutti (1962). Unica perché fu eliminata la sorella, ossia la scuola di avviamento professionale, che esisteva dal 1928, a cui finivano quelli che o non si sentivano portati a certo impegno scolastico o non riuscivano a superare gli esami di ammissione. I programmi della nuova scuola media furono solo in parte adeguati alla bisogna; furono eliminate alcune discipline ostative come il latino, considerato peraltro inutile, e furono introdotte altre come applicazioni tecniche; mentre tutte le altre materie rimasero pressoché inalterate, solo un po’ svuotate a seconda della sensibilità e preparazione dei docenti. La norma della promozione a tutti non fu mai formalizzata, ma provvedevano i presidi e l’ideologia degli insegnanti ad applicarla a quasi tutti. Lo scopo era di tenere i ragazzi a scuola, di limitare se non proprio di eliminare la dispersione scolastica, di far conseguire a tutti il diploma di scuola media, che in seguito sarebbe stato indispensabile per ogni attività privata o accesso a posto pubblico.
La crisi della scuola, che ha poi dato il via ad una serie interminabile di riforme, una peggio dell’altra, una più velleitaria dell’altra, nacque proprio dalla scuola media unica. L’errore principale fu di non creare un doppio binario, anzi di non lasciarlo, dato che c’era. Con uno si sarebbe garantito a tutti l’obiettivo, anche facilitato, del diploma di scuola media; con l’altro si sarebbe garantito una scuola in grado di formare professionisti capaci e preparati. Uguaglianza e selezione potevano trovare compatibilità, come in alcuni paesi europei. Chi scrive ha avuto la fortuna di frequentare per un anno la scuola pubblica in Svizzera, in una classe che da noi corrispondeva alla seconda media, e può assicurare che era molto più facile e gradevole da frequentare della pur svuotata scuola media italiana. Essa, divenuta unica, conservava in buona sostanza i programmi della vecchia scuola media con tutte le loro difficoltà.
L’errore secondario fu di non rivedere i programmi come andavano rivisti. La causa di quest’errore rimanda all’errore primo, quello di non aver previsto una scuola media per chi avesse voluto in seguito continuare gli studi per il conseguimento di un diploma o di una laurea. Modificare i programmi in una scuola di tutti e per tutti voleva dire compromettere gli apprendimenti necessari per affrontare la scuola secondaria superiore e l’università. Sicché si preferì l’equivoco, fondato sull’abbaglio ideologico egualitarista,  di una scuola buona per tutti, in teoria, per nessuno in pratica.  Per alcuni, infatti, era troppo pesante, per altri troppo leggera.   
La scuola selettiva era una scuola di scelta e di obblighi per l’alunno: frequenza, applicazione, profitto, rispetto. La scuola dell’obbligo è una scuola imposta dalla legge, che paradossalmente ha provocato negli alunni un senso di inutilità ed un equivoco: tu Stato mi obblighi a frequentare la scuola quando potrei avviarmi ad un mestiere, ma io faccio quello che mi pare: frequento se voglio e studio se voglio; peraltro questa tua scuola è pesante, a tratti è una tortura quando mi espone ad un confronto con gli altri che mi umilia e mi penalizza. Tu Stato vuoi che io frequenti la scuola con profitto? Bene, rendimela interessante e piacevole, consona ai miei obiettivi esistenziali.
Non è un sentimento o ragionamento campato in aria. Già Gramsci metteva in guardia: la legge è un’imposizione: può importi di frequentare la scuola, non può obbligarti a imparare, e, quando tu abbia imparato a non dimenticare.
La scuola degli obblighi degli studenti, scuola scelta, cedeva alla scuola dell’obbligo che era imposta. Era inevitabile che il processo avviato con la scuola media unica giungesse alla scuola secondaria superiore, licei compresi e poi università. Il ’68 esplose in Italia certamente per molte cause, nazionali e internazionali, ma trovò terreno fertile nella scuola, soprattutto superiore e università, dove si viveva una contraddizione insostenibile. Il sei politico e la promozione garantita erano la risposta di chi allo Stato chiedeva una scuola di cui si vedesse l’immediata utilità e fosse alla portata.

Da allora in poi sono state tentate tantissime riforme – come giù si diceva – alcune delle quali inevitabili per adeguare i percorsi scolastici alla realtà che cambia sempre più rapidamente e tumultuosamente. L’ultima, quella renziana, la “buona scuola”, come tutte le cose renziane, è annunciata con criterio da marketing; ma si propone come la peggiore e la più velleitaria. Peggiore, perché non migliora la condizione degli alunni e degli studenti, mentre peggiora quella degli insegnanti, ridotti a burbe in balia di caporali (dirigenti). Velleitaria, perché non affronta minimamente il problema vero e centrale della scuola, che è quello dei programmi. Questi andrebbero ristrutturati in tutte le scuole, a partire dalla media, fino ai licei, dove ancora – per fare un esempio – si leggono “I promessi sposi” e si perdono due anni di tempo per brani antologici di autori dalle origini ai giorni nostri e si riserva allo studio sistematico della storia della letteratura italiana  al solito triennio, concepito circa un secolo fa. Secoli importantissimi, come il Settecento e il Novecento, sono mortificati quando non proprio ignorati, a tutto vantaggio – per carità meritato – del Quattro-Cinquecento e Ottocento. Ma se si iniziasse a partire dal primo anno delle superiori ci sarebbe tempo per uno studio più esteso e approfondito di tutti i secoli. Questo per quanto riguarda l’Italiano; ovvio che similari necessità si avvertono anche nelle altre discipline, che andrebbero perciò svecchiate e adeguate ai tempi e al tempo.          

domenica 3 maggio 2015

Renzi, nell'anno II dell'Era Renziana


A sentire Massimo Cacciari, Renzi sta facendo quello che avrebbe voluto fare Berlusconi. Lascia trasecolati la nonchalance con cui il filosofo lo dice. Appena qualche anno fa quello che voleva fare Berlusconi per tutte le sinistre dell’universo era ammazzare la democrazia. Letta (Enrico), uscendo dall’aula di Montecitorio per non votare il voto di fiducia all’art. uno dell’Italicum, ha detto: se una cosa del genere l’avesse fatta Berlusconi staremmo tutti in piazza. Dopo il terzo voto di fiducia ottenuto, Renzi, tanto per non smentirsi e con una buona dose di iattanza infantile, ha esultato: «Li abbiamo distrutti».
Renzi, dunque, vince. Per usare una terminologia calcistica, però, si potrebbe dire che vince ma non convince. La caterva degli ominidi che lo segue ragiona e si comporta ciascuno pro domo sua. Mica fessi, è in gioco il posto al Parlamento e per alcuni la carriera politica. Se fossi tu, che faresti? Io, ominide, che ha trovato il suo trascinatore, starei con Renzi! Io, uomo, che cammina con le sue gambe e il suo cervello, no.
Certo, non deve essere facile digerirlo per l’altra caterva di ominidi che negli anni berlusconiani hanno fatto sceneggiati su sceneggiati, per manifestare contro Berlusconi: sciopero delle toghe, girotondi, mobilitazione di registi, salvatori della costituzione più bella del mondo, pifferai vari, tutti insieme appassionatamente. Sembrava volessero scongiurare la fine del mondo. Mancavano le bandiere con la croce e con su scritto “Deo lo vult”. Provo ad immaginare un Andrea Camilleri, il vecchio comunista antiberlusconiano di platino, che ora è costretto a cacarsi la faccia, dato che Renzi – non lo dico io, lo dicono quelli della sua stessa parte politica – fa quello che avrebbe voluto fare Berlusconi. E sia! C’è sempre qualcuno che trova la pezza a colore per nascondere le impurità più sgradevoli. Franco Cassano, il teorico del pensiero meridiano, deputato Pd, per giustificare il suo voltafaccia a Bersani, ha detto: «i mutamenti dello scenario internazionale nell’epoca della globalizzazione impongono un passaggio nella direzione dell’Italicum [si deve] aumentare la capacità di decisione politica» (Corriere del Mezzogiorno del 1° maggio). E beh, e che diceva Berlusconi, soltanto tre anni fa, mica nell’era glaciale? Dello stesso avviso è Sabino Cassese, uno dei tanti presidenti della repubblica mancati, il quale ha detto: «Il governo del leader non è una minaccia  per la democrazia […], ma un tentativo di conciliare democrazia e capacità di decisione, nella consapevolezza che la vera minaccia della democrazia è la sua incapacità di decidere» (Corriere della Sera del 1° maggio). Democratici intelligenti e moderati o fascisti duri e puri?
Ma basta con queste indegne capriole! Le cose sono molto più semplici. Renzi vuol far passare la legge elettorale che gli consente lunga vita al potere. Il suo partito, stando alle previsioni, vince le elezioni, si prende il premio di maggioranza, 340 deputati su 630, il Senato non conta più niente e via per la sua strada chissà per quanti anni ancora. Gli altri 290 valgono meno delle oche del Campidoglio. Questo è il calcolo, neppure tanto difficile. E, diciamola tutta la verità, probabilmente Bersani e compagni al posto di Renzi farebbero lo stesso. Il punto è proprio che l’operazione la fa Renzi, che è di «brutta natura» (Bersani), che ha già dimostrato un’arroganza e una illiberalità che va oltre ogni nobile o necessaria incombenza.
Non è il fatto in sé che conta, ma chi lo fa. Renzi, il ragazzotto di Firenze, come lo definiva Piero Ostellino prima di essere cacciato dal “Corriere della Sera”, può essere assai più pericoloso per la democrazia di Berlusconi. Bisogna capirlo fin d’ora che animale è.
L’ex direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio de Bortoli ha pubblicato il 30 aprile il suo commiato dal giornale. De Bortoli è un signore, anche a vederlo, così estraneo ad ogni ineleganza che sembra sempre lavato e profumato di fresco. Ha fatto capire di aver lasciato il “Corriere” perché “vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole…”. Ma da uomo d’onore e di confronto ha voluto esporre all’Italia e al mondo l’immagine di chi oggi incredibilmente fa il bello e il cattivo tempo. Renzi è «un giovane caudillo – ha detto – un maleducato di talento… uno che disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche». E personalmente si augura che Mattarella non firmi l’Italicum, perché è una legge sbagliata.
Non mancano perciò elementi che fanno temere il peggio. E il peggio è, per capirci, non la tirannide, per usare immagini già usate dagli antiberlusconiani, ma una farsa di democrazia, non molto dissimile da quella che vediamo oggi: un governo personale, fatto da lacchè, che, non contento di far passare tutto quello che vuole, insulta e irride gli inutili impotenti capponi della stia. Il peggio è che l’Italia, ridotta ad una satrapia in un’Europa sempre più esigente per poter affrontare le sfide dei colossi del mondo, riduca a sua volta la partecipazione democratica a pura finzione scenica. E’, a quanto pare, un processo di autoritarismo necessario. Non è un caso che questa svolta l’abbia voluta un Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di formazione comunista. Egli fece le prove prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e infine, falliti i primi due tentativi, con Matteo Renzi, che sembra quello “giusto”.

I conti che si sta facendo Renzi potrebbero, però, non essere quelli che dovrà fare con l’oste, anzi con gli osti. Primo oste: le elezioni; potrebbe non vincerle e ritrovarsi a dover subire ciò che lui oggi progetta di far subire agli altri, potrebbe cioè mettere l’arma che sta allestendo per sé nelle mani di un suo competitore. Di qui al 2018 possono accadere molte cose e non è detto che tutte vadano in suo favore. Secondo oste, posto che vinca le elezioni, ci sarà una inevitabile ondata di opposizione interna, nei confronti della quale non avrà più le armi adeguate. E’ legge politica, infatti, che allorquando manchi un’opposizione esterna ne nasca una interna, che mina il potere fino a farlo passare di mano. Comunque sia, non mancano fin d’ora i motivi per avviare nel Paese una dura resistenza contro ogni forma di progressivo esproprio politico dei cittadini, così nell’Anno II dell’Era Renziana.