La scuola italiana, prima
dell’istituzione della scuola media unica, era una scuola selettiva. Il che non
deve far pensare subito che era riservata esclusivamente a chi proveniva da
famiglie di abbienti o di professionisti, anche se era avvantaggiato per una serie
di fattori. Da quella scuola sono usciti fior di professionisti e uomini di
cultura di estrazione sociale modesta.
Alla scuola media si accedeva
attraverso esami di ammissione, che erano abbastanza impegnativi e selettivi. La
selezione non era ancora una parolaccia, lo è diventata dopo. Con l’ingresso
dei socialisti al governo – siamo agli inizi degli anni Sessanta del secolo
scorso – si realizzò un loro vecchio sogno, quello di mettere in condizioni
tutti di raggiungere le più alte quote del sapere, di conseguire titoli di
studio, di accedere alle professioni, partendo dal presupposto ideologico che
tutti sono uguali. Nobilissimo fine, sancito peraltro dalla Costituzione (art.
3), anche se, a questo punto, essa non è chiara se tutti possono salire per
raggiungere le vette del sapere o se l’altezza delle vette del sapere deve
essere adeguata a tutti e dunque abbassata. Punto di vista aperto: se al governo ci sono i
meritocratici il sapere resta alla sua altezza e sale chi può; se invece ci
sono gli egualitari il sapere scende al livello di tutti. La realtà sociale e
dei singoli provvede poi ad una selezione tanto spontanea quanto inevitabile e
necessaria; ma intanto alla scuola pubblica il danno è fatto.
La scuola media divenne unica e
aperta a tutti (1962). Unica perché fu eliminata la sorella, ossia la scuola di
avviamento professionale, che esisteva dal 1928, a cui finivano quelli
che o non si sentivano portati a certo impegno scolastico o non riuscivano
a superare gli esami di ammissione. I programmi della nuova scuola media furono
solo in parte adeguati alla bisogna; furono eliminate alcune discipline
ostative come il latino, considerato peraltro inutile, e furono introdotte
altre come applicazioni tecniche; mentre tutte le altre materie rimasero
pressoché inalterate, solo un po’ svuotate a seconda della sensibilità e
preparazione dei docenti. La norma della promozione a tutti non fu mai
formalizzata, ma provvedevano i presidi e l’ideologia degli insegnanti ad
applicarla a quasi tutti. Lo scopo era di tenere i ragazzi a scuola, di limitare se non
proprio di eliminare la dispersione scolastica, di far conseguire a tutti il diploma
di scuola media, che in seguito sarebbe stato indispensabile per ogni attività
privata o accesso a posto pubblico.
La crisi della scuola, che ha poi
dato il via ad una serie interminabile di riforme, una peggio dell’altra, una
più velleitaria dell’altra, nacque proprio dalla scuola media unica. L’errore
principale fu di non creare un doppio binario, anzi di non lasciarlo, dato che
c’era. Con uno si sarebbe garantito a tutti l’obiettivo, anche facilitato, del
diploma di scuola media; con l’altro si sarebbe garantito una scuola in grado
di formare professionisti capaci e preparati. Uguaglianza e selezione potevano
trovare compatibilità, come in alcuni paesi europei. Chi scrive ha avuto la
fortuna di frequentare per un anno la scuola pubblica in Svizzera, in una
classe che da noi corrispondeva alla seconda media, e può assicurare che era molto
più facile e gradevole da frequentare della pur svuotata scuola media italiana.
Essa, divenuta unica, conservava in buona sostanza i programmi della vecchia
scuola media con tutte le loro difficoltà.
L’errore secondario fu di non
rivedere i programmi come andavano rivisti. La causa di quest’errore rimanda
all’errore primo, quello di non aver previsto una scuola media per chi avesse
voluto in seguito continuare gli studi per il conseguimento di un diploma o di
una laurea. Modificare i programmi in una scuola di tutti e per tutti voleva
dire compromettere gli apprendimenti necessari per affrontare la scuola
secondaria superiore e l’università. Sicché si preferì l’equivoco, fondato
sull’abbaglio ideologico egualitarista,
di una scuola buona per tutti, in teoria, per nessuno in pratica. Per alcuni, infatti, era troppo pesante, per
altri troppo leggera.
La scuola selettiva era una
scuola di scelta e di obblighi per l’alunno: frequenza, applicazione, profitto,
rispetto. La scuola dell’obbligo è una scuola imposta dalla legge, che
paradossalmente ha provocato negli alunni un senso di inutilità ed un equivoco:
tu Stato mi obblighi a frequentare la scuola quando potrei avviarmi ad un
mestiere, ma io faccio quello che mi pare: frequento se voglio e studio se voglio;
peraltro questa tua scuola è pesante, a tratti è una tortura quando mi espone
ad un confronto con gli altri che mi umilia e mi penalizza. Tu Stato vuoi che
io frequenti la scuola con profitto? Bene, rendimela interessante e piacevole,
consona ai miei obiettivi esistenziali.
Non è un sentimento o
ragionamento campato in aria. Già Gramsci metteva in guardia: la legge è
un’imposizione: può importi di frequentare la scuola, non può obbligarti a
imparare, e, quando tu abbia imparato a non dimenticare.
La scuola degli obblighi degli
studenti, scuola scelta, cedeva alla scuola dell’obbligo che era imposta. Era
inevitabile che il processo avviato con la scuola media unica giungesse alla
scuola secondaria superiore, licei compresi e poi università. Il ’68 esplose in
Italia certamente per molte cause, nazionali e internazionali, ma trovò terreno
fertile nella scuola, soprattutto superiore e università, dove si viveva una
contraddizione insostenibile. Il sei politico e la promozione garantita erano
la risposta di chi allo Stato chiedeva una scuola di cui si vedesse l’immediata
utilità e fosse alla portata.
Da allora in poi sono state
tentate tantissime riforme – come giù si diceva – alcune delle quali
inevitabili per adeguare i percorsi scolastici alla realtà che cambia sempre
più rapidamente e tumultuosamente. L’ultima, quella renziana, la “buona
scuola”, come tutte le cose renziane, è annunciata con criterio da marketing;
ma si propone come la peggiore e la più velleitaria. Peggiore, perché non
migliora la condizione degli alunni e degli studenti, mentre peggiora quella
degli insegnanti, ridotti a burbe in balia di caporali (dirigenti). Velleitaria,
perché non affronta minimamente il problema vero e centrale della scuola, che è
quello dei programmi. Questi andrebbero ristrutturati in tutte le scuole, a
partire dalla media, fino ai licei, dove ancora – per fare un esempio – si
leggono “I promessi sposi” e si perdono due anni di tempo per brani antologici
di autori dalle origini ai giorni nostri e si riserva allo studio sistematico
della storia della letteratura italiana al
solito triennio, concepito circa un secolo fa. Secoli importantissimi, come il
Settecento e il Novecento, sono mortificati quando non proprio ignorati, a
tutto vantaggio – per carità meritato – del Quattro-Cinquecento e Ottocento. Ma
se si iniziasse a partire dal primo anno delle superiori ci sarebbe tempo per
uno studio più esteso e approfondito di tutti i secoli. Questo per quanto
riguarda l’Italiano; ovvio che similari necessità si avvertono anche nelle
altre discipline, che andrebbero perciò svecchiate e adeguate ai tempi e al
tempo.
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