domenica 26 agosto 2018

Tra ponti che crollano e migranti che invadono




Il disastro di Genova del 14 agosto, crollo del ponte Morandi, ha dimostrato quanto non c’era bisogno di dimostrare. Siamo un popolo di sciattoni, di furbastri e di infingardi. Quel ponte scricchiolava da tempo, era già stato rattoppato. Uno studio del Politecnico di Milano appena qualche mese prima ne aveva diagnosticato i mali. Lo sapevano tutti che era a rischio crollo.
Ma come fare? Chiudere quel ponte per i lavori di riparazione o di rifacimento significava privare la città di un percorso assolutamente indispensabile e insostituibile per chissà quanto tempo. Senza quel ponte la città è divisa in due, le sue attività paralizzate, il danno economico enorme. Dunque, tiriamo avanti fidando nella buona stella.
Ora, bisogna dire che la buona stella in Italia è tradizionalmente molto generosa. Ma non c’è stella che non abbia un limite, che non faccia pagare alla fine il troppo elargito con una spaventosa catastrofe. Ed è quanto avvenuto. 
Allora i problemi sono due, entrambi riconducibili alla politica. Uno è più tecnico e particolare, l’altro più amministrativo e generale. Chi avrebbe dovuto provvedere al controllo e apportare gli opportuni interventi? Autostrade, che è la società privata responsabile, o lo Stato con i suoi organismi? L’altro rimanda più direttamente alla politica, avendo dovuto per tempo la città di Genova dotarsi di un percorso alternativo per non rimanere paralizzata dall’inagibilità del ponte per chiusura temporanea per riparazioni o per improvvise e imponderabili cause naturali.
Come sempre accade, si è scatenata una battaglia sulle responsabilità del disastro, trasformatosi in occasione per fare vendetta di veri e presunti avversari politici, non badando minimamente al danno che si sarebbe prodotto all'immagine del Paese. Pur di vedere i nemici nella polvere non si è badato a spese. E’ storia vecchia.
Si punisca Atlantia, la società che controlla Autostrade in Italia; si puniscano i Benetton che hanno il 30% delle azioni di Atlantia, rei – a detta del vice-presidente del Consiglio Di Maio, di aver foraggiato il Pd in campagna elettorale. Via la concessione ad Autostrade! Non si compri più nulla dai Benetton. Una tragedia nazionale è stata trasformata in una campagna propagandistica senza eguali. Diversi sì, i Cinquestelle, ma nel peggio degli italici vizi.
Dimentichi i nuovi Robespierre che gli italiani costruiscono grandi opere in tutto il mondo e che sputtanarli, come hanno fatto Di Maio e compagni, è alto tradimento consumato nei confronti della Nazione. Dimentichi che i Benetton sono un marchio di eccellenza nel campo della moda e della produzione di indumenti e che invitare a non comprare più i loro prodotti equivale a far fallire una delle più importanti aziende del Made in Italy.
Ma, a prescindere dalla tenuta di quel ponte e dai controlli mancati, possibile che una città come Genova per anni e anni non abbia mai pensato di provvedersi di percorsi alternativi?
Lo stava facendo. Da qualche anno aveva in progetto la costruzione della cosiddetta Gronda, autentica alternativa al ponte che ormai stava per superare i limiti di età. Era stato costruito nella seconda metà degli anni Sessanta.
E chi si era opposto alla Gronda? Sentite! Sentite! Quel grande uomo di Beppe Grillo, che solo qualche tempo prima, per ostacolarne la costruzione, aveva detto che il ponte Morandi non sarebbe mai crollato. Che cazzo capisce un comico ormai giunto anche lui a fine vita e privo anche lui, peggio del ponte Morandi, di controlli?
Chi si opponeva erano i Cinquestelle, come si oppongono a tutte le grandi opere, alle grandi infrastrutture. E chi ha urlato più di tutti per il crollo del ponte? I Cinquestelle, che, probabilmente, hanno pensato di giocare d’anticipo e prima di essere accusati hanno accusato a loro volta.
Dicono e fanno quel che vogliono i Cinquestelle approfittando di non avere nessuna opposizione credibile, col Paese frastornato dalla crisi europea e intento a tifare Salvini per il suo impegno antimmigrazione. A proposito della quale c’è da trasecolare a sentire i Pd e Forza Italia in difesa di una politica migratoria fallimentare, contro cui si è espresso il popolo italiano il 4 marzo scorso. Nessuna proposta alternativa ma pietismi e buonismi da fatebenefratelli, non da politici responsabili di fronte al più grave problema avuto dall’Italia in tutta la sua storia repubblicana, ma da pax christi e da charitas. Che sono istituzioni importantissime e nobilissime finché parlano i loro veri rappresentanti; diventano maschere quando parlano gli impostori della politica.
Nessun senso di orgoglio nazionale di fronte alle continue provocazioni dell’Europa, che continua a scaricare sul nostro Paese tutte le responsabilità di una migrazione che nessuno vuole ma che nessuno vuole fermare veramente.
Questo governo deve inventarsi l’opposizione al suo interno. Di fatto ci sono quattro ministeri che operano ognuno per conto proprio senza nessun coordinamento. Il Ministero dell’Interno adotta una politica di durezza e di rigore per respingere i migranti, contro cui agisce il Ministero della Difesa le cui navi vanno a raccoglierli in mare, che poi il Ministero di Giustizia obbliga a farli sbarcare e quello degli Esteri ricorda che anche noi siamo stati migranti. Finché non arrivano i preti a dire: ce li prendiamo noi. Come se i preti in Italia costituissero un altro Stato! 

domenica 19 agosto 2018

Diario d'agosto: 1. Fuci fuci a lle talare



Diario d’agosto

1. Fuci fuci a lle talare

Piove quasi ogni giorno verso le due pomeridiane in questo agosto 2018. Tuoni e lampi minacciano acquazzoni. Poi piogge qua e là, in alcune parti del paese sì e in altre no.
E’ piovuto tanto anche a giugno: piogge ben più consistenti. Una stagione balorda. I fichi sugli alberi si sono aperti come fiori carnivori con bocche vermiglie spalancate. Guai a mangiarne! Ti assale l’acidità allo stomaco.
Il clima mi ha ricordato certe estati della mia fanciullezza, quando d’estate era un fuci fuci a lle talare. Avevamo i telai pieni di filze di tabacco appese per essiccarlo in una campagna a duecento metri da dove abitavamo d’estate.
In quella campagna c’era una chiesa sconsacrata di proprietà della chiesa. Noi, che l’avevamo in affitto, la adibivamo a rifugio. Era, invece, un’importante testimonianza paleocristiana. Vallo a sapere! Oggi completamente demolita, non si sa da chi e perché.
Era intitolata a San Donato (cappedda te Santu Tunatu), in realtà il titolo spettava a San Antonio Abate, il santo del fuoco. L’equivoco del nome dipendeva dal fatto che si trovava al confine fra due contrade, Santu Tunatu e Sant’Antoni. Non escludo che quelli che abitavano in territorio di Sant’Antoni la chiamassero diversamente da noi che abitavamo a Santu Tunatu.
C’era stato in passato tutto un complesso abitativo contiguo alla chiesetta, già allora diroccato. Prova che aveva conosciuto tempi migliori.
Era stata costruita con materiali poveri, raccolti in loco, alla base e agli angoli aveva autentici megaliti informi. Un contrafforte era stato costruito di recente all’esterno a rafforzare la parete laterale sud-est perché non cedesse alla spinta.
Sull’ingresso vi era una bifora murata. Un piccolo campanile a vela in alto poggiava sull’estremità destra. La campana non c’era più. Il tetto a spiovente era coperto da embrici a capriata. All’interno la copertura era a cannicciata, poggiava su un asse centrale e su assi laterali di legno. Pochi fregi.
A destra, entrando, c’era una colonnina monolite in pietra leccese con su una vaschetta, era la pila dell’acqua santa o forse un rudimentale battisterio. In fondo nell’abside semicircolare con volta a cupola l’altare a tre pezzi, tipo dolmen, due pezzi laterali di sostegno e uno orizzontale da piano. L’abside, rivolta a oriente, era affrescata con Dio Pantocrator, che dava l’idea di un abbraccio al mondo. Le pareti laterali lo stesso, ma non ricordo più i santi e le scene, che si vedevano e non si vedevano per lo stato di degrado dell’intonaco.
A sinistra, poco prima dell’altare c’era l’ossario, una botola con una chianca per coperchio, che noi ragazzini spostavamo per curiosarci dentro. In pieno imperversare della Spagnola nel 1918 aveva funto da lazzaretto.
Quando la lasciammo noi, verso la metà degli anni cinquanta, la chiesa venne trasformata dai nuovi affittuari in una casupola nella quale tenevano tutti gli attrezzi di campagna ed anche le bestie, un mulo e delle pecore. Le pareti furono picchettate per far aderire un nuovo intonaco e coperte da uno strato di calce. Rimase in piedi fino agli anni ottanta, poi giù com’altrui piacque.
In quella chiesa mettevamo al sicuro in fretta e furia e talare te tabbaccu per preservarle dalla pioggia. Guai se il tabacco, durante il processo di essicazione, si bagnava! Alla consegna veniva scartato e bruciato. E addiu fatica te nn’annu!
Ma l’acqua d’estate è bugiarda e isterica. A momenti pensi che ti debba sotterrare con un diluvio, poi tutto si risolve in breve con quattro gocce svogliate. Ma non mancano forti acquazzoni che lasciano il segno nelle campagne con muretti a secco che si sbriciolano e alberi sradicati.
Qualche minuto dopo che avevamo messo dentro il tabacco ecco che riusciva il sole, prepotente, bruciante. Ed era ancora un fuci fuci a lle talare, per riesporle al sole. A volte si andava e veniva due tre volte in questo fuci fuci tra sole e pioggia.

domenica 5 agosto 2018

Grido d'allarme del giornalismo salentino alla VII Edizione del Premio "Antonio Maglio"




La settima edizione del Premio giornalistico “Antonio Maglio”, svoltasi sul piazzale davanti al “Museo Messapico” ad Alezio, la sera di sabato, 4 agosto, è stata anche l’occasione per fare il punto sullo stato del giornalismo nazionale, minacciato da una crisi che per certi versi è strutturale, in seguito al diffondersi di mezzi di informazione, i social, assai più diffusi e preferiti dal pubblico, e da una classe politica che è sempre più insofferente della stampa e di ogni corpo intermedio che filtri e medi tra lei e il pubblico. Una situazione che non rassicura la politica italiana e che con la minaccia alle sue classiche istituzioni, partiti-sindacati-giornali, mette in discussione il futuro della stessa democrazia.
Variamente argomentata, questa crisi è emersa dalla relazione dell’On. Giacinto Urso, Presidente del Premio, e dagli interventi di Nicola Marini, Presidente Emerito e Tesoriere dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, e del Segretario Generale della Federazione Nazionale della Stampa Raffaele Lorusso.
L’intervento di Alessandro Barbano, a cui è andato il “Premio alla Carriera”, che di recente ha dovuto lasciare la direzione de “Il Mattino” di Napoli, dopo sei anni, ha dato alle riferite argomentazioni la testimonianza di un mondo, quello del giornalismo, sempre più alla mercé “del mercato”, ovvero degli editori e dei politici che impongono e revocano scelte a seconda degli interessi del momento. Barbano, che sulla sua vicenda si è espresso con dignità ed equilibrio, ha ricordato Maglio nel suo essere stato un insuperato direttore e ha voluto ribadire che all’insegna del suo esempio continuerà nella carriera di giornalista. Che – ha voluto dire con fermezza – non è affatto conclusa.
La manifestazione, tuttavia, condotta da Marcello Favale e dagli interventi-blitz di Adelmo Gaetani, si è svolta ad altissimo livello ma soprattutto nella serenità e nella gioia di ricordare figure indimenticabili, come quella dell’intestatario del Premio Antonio Maglio, di cui è stata letta una lettera della figlia Manuela, e di Alessandro Leogrande, di recente scomparso, a cui era stato assegnato il Premio nella sua prima edizione nel 2012. Toccanti le parole della lettera di ringraziamento della madre.
Il Primo Premio di quest’anno è stato assegnato a Giulio Mola, barese di cinquant’anni, per l’inchiesta sul calcio minorile “Quelli che pagano per un contratto…”, apparsa sul quotidiano  “Il Giorno” di Milano, in cui mette a nudo i retroscena di un mondo, quello del calcio minorile, in cui si verificano fenomeni ai limiti dell’assurdo e del criminoso.
I due secondi premi sono andati a Elisa Forte e Andrea Gabellone. La Forte sul quotidiano torinese “La Stampa” ha svolto l’inchiesta “Noia, rabbia, solitudine: com’è dura la vita dei bambini geniali”, sui bambini molto dotati e vivaci, a cui la scuola italiana non sa e non riesce a dare accoglienza e giusta valorizzazione. Gabellone è stato premiato per il reportage sull’immigrazione “Al confine della realtà” apparso sul quotidiano “il Manifesto”, in cui racconta la disgraziata vita degli immigrati in talune realtà italiane di confine (Bardonecchia) fra oggettive difficoltà di inserimento e proibitivi tentativi di attraversare il confine con la Francia.  
Riconoscimenti straordinari sono andati a taluni protagonisti del giornalismo salentino che nel corso degli anni hanno realizzato e condotto testate giornalistiche ormai affermate e di prestigio. Una targa è andata a Nicola Apollonio per i quarant’anni del suo mensile “Espresso Sud” e a Ugo Buccarella, Loris Coppola e Nicola Ricci per i venti anni del settimanale di informazione e tempo libero “Salento in tasca”.
Ma non solo giornalismo. Da quest’anno il Premio ha voluto attenzionare il mondo dell’imprenditoria e del lavoro. Una targa speciale è stata assegnata a Benedetto Cavalieri, titolare dell’omonimo pastificio magliese, giunto a celebrare il centesimo anno dalla fondazione. Stesso riconoscimento è andato a Giuseppe Coppola, operatore nel campo della viticoltura e del turismo.
Molti premi sono andati ai premiati. Oltre alla tradizionale “trozzella” e un “quadretto” raffigurante un tronco d’olivo del fotografo Longo, confezioni di prodotti tipici della nostra economia: vini, olio, pasta, caffè; ovviamente delle aziende che col “Premio” hanno un rapporto particolarmente contiguo.  
Molte le personalità presenti alla cerimonia, fra cui il Sindaco di Alezio Andrea Vito Barone, che ha fatto istituzionalmente gli onori di casa, e alcuni amministratori dei comuni vicini. Il Prefetto Carlo Schilardi, che di recente ha ricevuto dal Ministero un incarico a Napoli, ha chiuso la cerimonia, dando appuntamento all’anno prossimo.