domenica 27 giugno 2010

Calcio italiano: fine annunciata

Forattini, nella vignetta apparsa su “il Giornale” del 25 giugno, ha dimenticato di aggiungere accanto alle undici bare dei calciatori azzurri altre due, una per Abete e l’altra per Lippi, l’uno presidente della Figc, che – ad evitare equivoci – sta per Federazione italiana gioco calcio – e l’altra per il Commissario tecnico della Nazionale. La disfatta della squadra, infatti, ha registrato sul campo solo la fase terminale di una serie di errori e di colpe, che vanno dalla Federazione al Commissario tecnico, ai calciatori.
Io credo che il più truffaldino dei maghi si sarebbe vergognato di predire l’esito dell’ignobile figura fatta, tanto era scontata. E Lippi, a dire il vero, faceva più pena prima che dopo i risultati. Perché era di tutta evidenza che il meschino era suonato e neppure si accorgeva che, come quel personaggio ariostesco, continuava a minacciare sfracelli e non si era accorto di non reggersi in piedi.
La verità è che in Italia ormai non escono più fuoriclasse in grado di competere con quelli che producono senza interruzione Argentina, Brasile, Spagna, Portogallo, paesi balcanici e paesi africani. Non che in Italia prima ne uscissero tantissimi, ma accanto a quei due-tre per ogni generazione c’erano dei buoni calciatori, difensori soprattutto e centrocampisti di forza, ben disciplinati da allenatori che erano autentici maestri sotto il profilo tattico. Bastavano, a far disputare dei tornei europei e mondiali con dignità e qualche volta con successo; salvo qualche imprevisto, come accadde nel 1966 con la Corea.
Da una ventina di anni a questa parte, invece, non c’è squadra italiana che non abbia almeno quattro-cinque stranieri, fino all’assurdo di un’Inter, campione d’Italia, da quattro anni di fila, che è interamente “straniera” ed oltre agli undici che manda in campo ne ha altrettanti tra la panchina e in prestito ad altre squadre. I vivai, che sono stati per anni i serbatoi delle società, si sono inariditi. Se qualche calciatore in Italia si distingue per talento è soffocato dal fuoriclasse straniero, che dà più garanzie nell’immediato. Mentre negli altri paesi a diciott’anni sono campioni fatti e giocano campionati e tornei, da noi fino a venticinque anni restano promesse, che il più delle volte non si realizzano per mancanza di opportunità. Gli osservatori delle varie società vanno per il mondo a scoprire talenti, nella logica economica che conviene di più comprare il campione già fatto che puntare sul farseli in casa. I presidenti delle società pensano alla propria squadra piuttosto che alla Nazionale e si preoccupano di dopare i bilanci e di falsare documenti.
La colpa della Figc è che non interviene per limitare il numero di stranieri per squadra, incentivare la cura dei vivai, incoraggiare le società che tradizionalmente lavorano anche per la Nazionale. Invece, che cosa è accaduto in questi ultimi quattro anni? Che le squadre che hanno dato il maggior numero di calciatori alla Nazionale, come Juventus e Milan, sono state danneggiate da congiure di palazzo, e che l’Inter, che da anni non dà un giocatore alla nazionale, è stata messa nelle condizioni di disputare praticamente da sola, “senza” le sue tradizionali rivali, ben quattro campionati, piena e debordante di calciatori che militano nelle nazionali più forti del mondo. Il danno derivato dalle citate congiure ha avuto pesanti ricadute su tutto il calcio italiano e sulla Nazionale in particolare. Il mondo sa che siamo un paese di imbroglioni, di ladri, di bari, di gente che trucca i risultati, che compra e vende partite, mentre, in buona sostanza non c’è nulla che non avvenga in tutti i paesi del mondo, con la differenza che negli altri paesi s’interviene subito a punire e a stroncare il fenomeno da noi invece si lascia correre, nell’ingrassamento dei vertici del potere calcistico, fino a quando l’abuso non diventa uso e la violazione non diventa consuetudine. Allora, come accade in politica, dove si trova un Craxi, così accade nel calcio, dove si trova un Moggi per coprire la caterva di merda diffusa e stratificata.
A questo si aggiunge, nella circostanza dei Mondiali sudafricani, la conclamata rottura tra la presidenza della Figc e il Commissario tecnico, fino all’annuncio del nome del successore di Lippi prima ancora che iniziasse il campionato mondiale, con la conseguenza che tecnico e squadra si sono sentiti come abbandonati e di fatto sciolti da qualsiasi responsabilità. A volte la condizione psicologica di gruppo inconfessata è più nefasta e annichilante di quella individuale.
Se questo è il contesto, le colpe del Commissario tecnico e dei calciatori non sono, tuttavia, da sottovalutare, perché, poi, in fondo sono loro che scendono in campo. Lippi ha commesso una serie di errori. Il primo è di non aver capito che la vittoria del 2006 in Germania fu frutto di una serie di circostanze fortunose, ben utilizzate da calciatori che ancora erano validi sul piano fisico e morale, particolarmente motivati dall’aggressione subita dai vertici del calcio per le note faccende moggiesche. Il secondo errore, assai più grave, è che già fin dall’anno scorso in Sud Africa alla Confederation-Cup, era emersa la crisi di quei calciatori, non più competitivi; e lui, con una testardaggine incredibile, ha continuato a credere in loro. Il terzo errore è stato il suo juventinismo esasperato, che si è tradotto nell’esclusione di alcuni calciatori provenienti da altre squadre, come Totti, Cassano e Balotelli, e l’inclusione di juventini, reduci da un campionato nella Juventus discontinuo e disastroso, come Cannavaro, Camoranesi e Iaquinta.
In questi giorni di tribolazioni i sessanta milioni di commissari tecnici che ci sono in Italia si sono sbizzarriti nel fare formazioni, nel bocciare o nel promuovere calciatori, con sofisticate analisi del tipo quel giocatore giocava fuori ruolo, quell’altro doveva giocare dieci metri più avanti, quell’altro più indietro e via di questo passo. Io, che sono ignorante di calcio, che sono un tifoso e basta – mi cruccio se perdo e m’allieto se vinco – sono allibito da tante spiegazioni assurde. Ma come, un calciatore, a quei livelli, non rende perché non gioca più avanti o più indietro di qualche metro? Sarà, ma ho l’impressione che i nostri calciatori, senza neppure rendersi conto, sono della stessa pasta dei politici; non sono capaci di parlar chiaro e mentre accettano di giocare fuori ruolo pensano di avere già l’alibi a portata di meno se le cose vanno male. Giornalisti tifosi li sostengono.
Ora si riparte con Prandelli; ma se in Italia il problema è che non ci sono più fuoriclasse, non mi pare che si possa ovviare all’inconveniente riempiendo la Nazionale di stranieri naturalizzati. Sarebbe come curare il male con un male peggiore; sarebbe il de profundis del calcio italiano.
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domenica 20 giugno 2010

Intercettazioni: ma in che paese viviamo?

Dico subito che non amo né le intercettazioni né i pentiti o altrimenti detti collaboratori di giustizia. Le intercettazioni, perché l’articolo 15 della Costituzione al suo primo comma dice: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Qui mi fermo perché il secondo comma vanifica il primo, come spesso accade in Italia ad ogni “buon” principio; e meno male che in questo caso non c’è un terzo o quarto comma. I pentiti, perché ormai fanno parte della fenomenologia criminale, secondo calcoli e strategie ben precisi: delinquo, mi arricchisco, uccido e faccio uccidere; poi mi pento e non escludo di poter continuare a prendermi gioco dello Stato, che piego fino a comprometterlo e a negare se stesso o di inserirmi addirittura nel dibattito politico. I criminali del Sud sono un po’ pelidi (vita breve ma gloriosa) e un po’ laerziadi (vita da furbi e spregiudicati).
Torniamo alle intercettazioni. Esse sono indispensabili per la scoperta dei criminali e per trovare le prove per condannarli. Senza, diventerebbe un vero problema per le autorità inquirenti; sono perciò irrinunciabili. A questa prima necessità ne subentra un’altra, irrinunciabile anch’essa, quella dell’informazione. Intercettare, dunque, non solo per scovare e neutralizzare i criminali, ma anche per consentire ai massmedia di informare. Fin qui nulla quaestio. I problemi si pongono allorquando queste due necessità collidono con una terza, quella della difesa della libertà privata dei cittadini, anch’essa irrinunciabile. Tutta la questione si gioca nel triangolo: giustizia, informazione, privacy. Essa ricorda la storiella di quel tale che doveva traghettare da una sponda all’altra di un fiume un lupo, una capra e dei cavoli, non potendo portare più di un soggetto per volta e impedendo al lupo di mangiarsi la capra o a questa di mangiarsi i cavoli. Di qui il detto “salvar capra e cavoli”.
Personalmente sarei del parere che un criminale dovrebbe prioritariamente rispondere e pagare per tutto il male fatto, senza sconti, abbuoni, indulgenze. Possibilità di pentirsi? Sì, al Padreterno! Ma mi rendo conto che con una legislazione ipergarantista, come quella vigente, sarebbe veramente un’impresa giungere a risolvere qualche caso di criminalità e a fare un minimo di giustizia. Allora: a mali estremi, estremi rimedi! Vediamo, però, dove si va a parare.
Da due anni si discute su una nuova legge sulle intercettazioni, in presenza di una magistratura che eccede in autorizzazioni, in magistrati che passano le intercettazioni ai giornali, anche quando non dovrebbero, di giornali che pubblicano indiscriminatamente, e di molti ignari cittadini, che nulla c’entrano con le indagini, i quali si trovano sbattuti in prima pagina con tutto il loro contorno di miserie umane.
Se la legge vigente sulle intercettazioni venisse osservata da tutti gli addetti ai lavori cum probitate e non cum iniquitate non ci sarebbe bisogno dell’ennesima legge berlusconiana, che crea scompiglio e fa gridare la capogruppo Pd al Senato Finocchiaro con toni poco muliebri: “la democrazia è massacrata!”.
Ma – riflettiamo! – anche Berlusconi, di fronte alla mala applicazione della legge vigente, è costretto a ricorrere all’estremo rimedio di limitare le intercettazioni e di appesantire le pene per tutti coloro, dai giudici ai giornalisti, che la violino. Di qui le grida di sdegno, di allarme, di ricorso a corti costituzionali, referendum e via di seguito nel repertorio a cui da anni la politica, prima radicale e poi dipietrista, ci ha abituati. E i cittadini? Ciuchi in mezzo ai suoni.
Quando Berlusconi dice che non è da paese civile una magistratura che tiene sotto controllo i telefoni di 150.000 utenze, che le intercettazioni vanno a finire sui giornali in maniera selvaggia e senza alcun rispetto della legge e dei cittadini, dice una cosa giusta; ma dimentica di dire che non è neppure da paese civile avere due terzi del territorio nazionale sotto controllo di organizzazioni criminali efferate, che agiscono servendosi di tutti i mezzi, che tengono in “schiavitù” o sotto minaccia intere popolazioni.
Le anomalie italiane sono ben di più e ben più gravi di quelle che dice Berlusconi. Esse si tengono come pali divaricati alla base e raggruppati al vertice. E’ democraticamente anomalo violare la privacy delle persone – su questo non si discute – ma è altrettanto anomalo non garantire loro sicurezza. Quando si vedono magistrati con scorte che neppure Cesare aveva, si ha l’idea precisa di uno Stato che non è in grado di imporre il dominio della legge. Ecco perché è sbagliato che un Capo del Governo s’indigni per l’abuso delle intercettazioni e non riesca, invece, a contestualizzarle e a rendersi conto che questo nostro paese non è civile perché ben altri e assai più gravi sono i problemi che lo attanagliano da sempre. Non è civile il nostro Paese perché ha una classe politica incredibilmente discorde, rissosa, bugiarda, mediocre; ha una classe imprenditoriale che fonda i suoi successi economici sulla frode fiscale e sulla corruzione dei politici; ha una magistratura che opera all’insegna di un revanscismo proletario di tipo gramsciano; ha una Lega che opera per dividere il paese; ha delle istituzioni nella mani di cialtroni e una popolazione che si adegua come il mutar d’abito al cambiar di stagione.
Questa situazione, che sembrava dovesse cambiare con l’avvento di Berlusconi, persiste fino a costringere lo stesso “onnipotente” a fare pubbliche dichiarazioni d’impotenza. Ma anche qui sbaglia quando se la prende con la Costituzione. Se non riesce a governare come vorrebbe la colpa è sua perché non ha saputo creare una classe politica compatta su alcuni importanti valori condivisi ed è sempre più ricattato dai soliti politicanti di mestiere, vuoti di sostanza ma inappuntabili nella forma. I quali si sono adagiati sul suo corso politico come relitti sulla corrente di un fiume, tesi verso la foce del successo personale.
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domenica 13 giugno 2010

Premio Barocco: la prossima volta a Marilù Lucrezio e Michela Marzano

Non conosco nessuno dei patron del Premio Barocco, giunto alla sua 41ª edizione (Gallipoli, Teatro Italia, 7 giugno). So di tal Cartenì, che ogni volta viene inquadrato dalle telecamere e poi invitato sul palco a premiare qualcuno. So che a dare il Premio è l’Università del Salento, che Fabrizio Frizzi, conduttore Rai, continuava l’altra sera ad intitolare “di Lecce”, maximo cum gaudio delle migliaia di laureati, che, come me, hanno il loro bravo diploma di laurea intitolato “Università degli Studi di Lecce” e che col cambio di nome sono stati resi “orfani” per decreto.
Il Rettore Magnifico, ing. Domenico Laforgia, è salito sul palco, anche l’altra sera, per premiare Maria Grazia Cucinotta, la quale non aveva nemmeno il buongusto di rivolgergli mezzo sguardo mentre il severo professore le consegnava la Galatea. Probabilmente, mentre l’uno pensava: ma io qui che faccio? l’altra si chiedeva: ma che c’entra questo qua? Possibile che ad un’attrice famosa manchino due parole di cortesia? Grazie, Rettore, quale onore per me! O che le stesse manchino ad un professore bravo ed esperto? Lei, signora, è incantevole! E’ per me un piacere consegnarle questo premio! No, non mancano; è solo che i due sono estranei, non si conoscono e non vogliono conoscersi.
Ma è veramente l’Università ad assegnare il Premio? Dopo tante edizioni viste, mi piacerebbe che così non fosse e che alla fine è solo un’operazione di vetrina. Ce li immaginiamo i professori, coi ricercatori di rincalzo o di supplenza, a discettare sulle persone a cui assegnare il Premio? Ma non dovrebbero occuparsi di altre cose? No, non è possibile che dei cattedratici alla fine decidano di assegnare il premio in prevalenza ad attori e cantanti, comici e ballerini; e ai soliti Arbore, che, a quanto pare – lo dice lui ogni anno – si è stancato di ricevere statuette della Galatea, che ormai tiene schierate sulle mensole di casa come i soldati dell’esercito cinese di terracotta.
In verità è la televisione, in quanto fabbrica di chiacchiere e tabacchiere, che si autocelebra, ora qua ora là per l’Italia. Nulla da dire alla Manuela Arcuri o a Gérard Depardieu; ma che sono, se non personaggi dello spettacolo? Nulla da dire a Carlo Conti e ad Enrico Mentana; ma che sono, se non due della televisione? Già, quel Mentana, poi, l’altra sera non si sa per quale motivo veniva premiato, dal momento che è scomparso dalla televisione da due anni e non risulta che nel frattempo abbia fatto altro. Nulla da dire ai nostri Alessandra Amoroso e Emilio Solfrizzi; ma che sono, se non due dello spettacolo? E che dire ai ragazzini che “ammaestrati” cantano come grandi, se non che sono delle promesse della televisione? Tutto, nel Premio Barocco, inizia e finisce con lo spettacolo televisivo e anche chi, per aver raggiunto i Campi Elisi non c’è più, viene evocato, come Nicola Arigliano, perché quando è festa e festa e Lari e Penati, in terra salentina, fanno parte dell’umana compagnia.
Una cosa non si può contestare al Premio Barocco: il suo essere barocco; appunto, l’avere in sé e per sé ogni suo motivo di essere; un compiacersi di sé, il non avere nessun fine se non quello di autocelebrarsi. Un contenitore di cose belle e strane, nella migliore tradizione barocca: bambini che cantano come grandi, statue di cioccolato, persone fra la gente assiepata dall’improbabile capacità espressiva, generosi e anonimi benefattori subito inquadrati dalla telecamera, giusto per non avere dubbi sull’anonimato. Più barocco di così…
Ma una manifestazione, sia pure basata e strutturata fondamentalmente sullo spettacolo, non dovrebbe superare il momento televisivo dell’audience per attingere la sfera degli interessi del territorio, delle sue risorse, umane e materiali, per promuovere la regione che la esprime?
Forse, la parte che dovrebbe avere l’Università è proprio questa. Già, ma se c’è, francamente, non si vede. Perché se a me, che non faccio parte dell’università, ma a quel mondo in qualche modo appartengo, avessero chiesto a chi daresti tu il Premio Barocco quest’anno, io avrei detto: a Marilù Lucrezio di Ugento, l’inviata in tutto il mondo di RaiUno; oppure a Michela Marzano di Maglie, ordinaria di filosofia morale e politica all’Università francese Paris Descartes, saggista e scrittrice.
Giuro, non ho fatto nessuno sforzo di ricerca. Sono due bellissime realtà salentine, di cui dovremmo essere orgogliosi, perché sono le persone che valorizzano tutta una regione; certamente come la valorizzano le “Mine vaganti” e la “Notte della Taranta”, la squadra del Lecce Calcio e le tenniste Flavia Pennetta e Roberta Vinci.
Nessuno sforzo, così come nessuno sforzo farebbe un frequentatore di discoteche o un cultore di musica leggera ad indicare i Negramaro o i Sud Sound System.
Uno sforzo dovrebbe farlo, allora, l’Università, premiando anche chi solo da lei può avere l’attenzione e il premio che merita. Oltretutto la Lucrezio e la Marzano non sono estranee alla televisione: la prima, come si è detto, è un’inviata di RaiUno; la seconda è spesso ospite di Gad Lerner a “L’Infedele”. Il Salento non è solo soni e zzumpi!
Ma c’è proprio bisogno di ricordarlo a qualcuno?
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domenica 6 giugno 2010

Salviamo il soldato Saviano

Farei in limine una distinzione a proposito di Roberto Saviano tra l’intellettuale e l’«eroe di carta», come lo definisce nel suo pamphlet Alessandro Dal Lago, un raffinato intellettuale di sinistra. Il primo esiste, è vero, è l’autore di “Gomorra”, il libro che per un verso gli ha procurato una condanna a morte da parte della camorra e per un altro è diventato appunto l’eroe di carta, in grazia o a causa della macchina massmediatica; il secondo è anche qui per un verso la conseguenza inevitabile della fama e per un altro è l’altrettanto inevitabile sua strumentalizzazione. Chi, però, pensa di lacerare la carta, di cui sarebbe fatto l’eroe Saviano, finisce per ucciderlo, ossia per fare quello che per altre ragioni intende fare la camorra. Esattamente come accade al Dr. Jekyll quando uccide Mister Hyde, posto che l’eroe di carta possa essere paragonato all’essere ripugnante della fantasia di Stevenson.
Di carne e di carta, Saviano oggi è nel mirino non solo della camorra ma anche di certa politica (il premier Berlusconi), di certa cultura (il saggista Dal Lago) e di certa società (i calciatori Cannavaro e Borriello). Il problema per lui si fa serio, ha commentato Massimo Gramellini su “La Stampa”.
A me il libro che ha reso celebre Saviano non piace per come è strutturato. E’ un libro atipico, una sorta di pot-pourri, in cui c’è di tutto. Per apprezzarlo, anche dal punto di vista estetico, occorre sbranarlo, farlo cioè a brani. Nell’insieme appare un abborracciamento di materiali ripresi dalla cronaca e da inchieste giornalistiche, posti l’uno dopo l’altro, non potendo stare uno sull’altro. Ma nei contenuti il libro è importante, non solo e non tanto perché narra fatti veri, con nomi non di fantasia ma di uomini della camorra, quanto per l’efficacia che esercita sul lettore e sulla società.
Di libri come “Gomorra” dovrebbero essercene di più, ben inteso come denunce forti e coraggiose di fatti assolutamente intollerabili in una società moderna. Altro discorso è il valore estetico, di cui si è detto. Vorrà dire pur qualcosa se lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa, che è pure lui di sinistra, non lo ha inserito nella sua recente Storia europea della letteratura italiana. Ma questo è un altro discorso.
Sarebbe da ingenui pensare che basterebbe il libro o mille libri come quello di Saviano ad annientare la camorra in Campania, la mafia in Sicilia o la ndrangheta in Calabria. Non sarebbe mai possibile, perché l’Italia è sì il paese – diceva il toscano Dante – “là dove ‘l sì suona” e il tedesco Goethe “wo die Zitronen blühen” (dove fioriscono i limoni), espressioni belle e suggestive, tra l’amore e la fiaba; ma è anche il paese dove “blühen” le più varie forme di criminalità organizzata. E fioriscono pure perché ci sono politici, intellettuali e uomini dello spettacolo e dello sport che antepongono ai valori duraturi e qualificanti della libertà, dell’ordine, della convivenza pacifica, della crescita civile, gli interessi più immediati del prestigio nazionale nel migliore dei casi o della ruffianeria cialtrona nel peggiore. Del resto lo stesso Sciascia metteva in guardia dai professionisti dell’antimafia. E Sciascia era tutt’altro che ruffiano.
Il nostro, purtroppo, è un paese condizionato; lo è per le minacce costanti delle tante mafie, grandi e piccole, che dominano un po’ dappertutto. Quando si attacca Saviano per la sua esposizione mediatica, per i riconoscimenti immeritati (immeritati dal punto di vista letterario), o quando si attaccano i professionisti dell’antimafia, ci sono indubbiamente delle ragioni.
Ma si possono esternare simili ragioni quando si è assediati e minacciati dall’esterno? Mi piace ricorrere anche qui ad un precedente letterario, al “napoletano” Leopardi de “La ginestra”, quando ad un certo punto per sottolineare la stupidità degli uomini dice: «Stolto crede così, qual fora in campo / Cinto d’oste contraria, in sul più vivo / Incalzar degli assalti, / Gl’inimici obliando, acerbe gare / Imprender con gli amici, / E sparger fuga e fulminar col brando / Infra i propri guerrieri»; prosaicamente e sintetizzando: stolto chi nel campo assediato, nell’infuriare degli assalti nemici, questi trascura e con la spada si rivolge contro gli amici e colpendoli mette in fuga i propri guerrieri. Gli stolti sono i Berlusconi-Dal Lago-Cannavaro-Borriello; i nemici sono i mafiosi, i camorristi, gli ndranghetisti; i propri guerrieri sono i Saviano e quei pochi altri che combattono e cadono sul fronte della lotta ad ogni criminalità organizzata.
Sarebbe la vittoria di tutti se Saviano & Compagni riuscissero a vincere. La società sarebbe più libera, meno condizionata e perfino i politici, gli intellettuali e gli uomini di spettacolo sarebbero più liberi di esprimersi. Ecco perché è necessario assumere impegni forti non solo contro ogni forma di criminalità, ma anche fraternizzare con chi si trova a combattere la stessa battaglia. I Saviano, criticabili quanto si vuole, sono i “guerrieri” della civiltà.
Viviamo oggi in una società deidealizzata e desacralizzata. Ogni buon principio ed ogni valore vengono irrisi come atteggiamenti retorici, nei quali nessuno più crede. Tutti buoni ad inseguire effimeri successi, legati al mondo dello svago (movide e notti bianche), del successo e del guadagno facili (veline e velini), del piacere (sesso ad ogni dimensione e droghe) nessuno più è capace di avere uno straccio di ideale; e se pure qualcuno c’è, si guarda bene dal dirlo per non essere irriso e indicato come un debole fuori dal mondo.
La società ha bisogno di retorica, invece, sissignori di retorica, avete capito bene; ovverossia di quella carica morale che fa compiere gesti nobili e importanti, e che solo gli incapaci e i pusillanimi bollano appunto come retorica. Schierarsi con Saviano è oggi un gesto di forza e di coraggio, anche per non isolarlo. Ché dall’isolamento e nell’isolamento la condanna, che gli grava, potrebbe trovare tragico compimento.
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