domenica 28 dicembre 2014

Un sogno: Francesco al Quirinale


Ho fatto un sogno. Non alla Martin Luther King, nel senso di massimo desiderio cui si aspira. Il mio è stato un sogno vero, fatto mentre dormivo, in piena regola e già mentre lo facevo ero cosciente della sua stravaganza. Ora racconto.
In Italia siamo alle prese col toto-presidente. Napolitano ha detto che le sue dimissioni sono imminenti. Napolitano è uomo d’onore, per dirla con Shakespeare.
La condizione in cui ci troviamo è del tutto inedita in Italia, come inedita è stata la riconferma di Napolitano al Quirinale giusto due anni fa. Inedita perché Napolitano potrebbe pure continuare ad oltranza, come si fa coi calci di rigore, se la partita dovesse finire in parità.
Trovare un presidente non è facile, non perché manchino i candidati. Mi sovviene Dante del sesto del Purgatorio a proposito di Firenze, che ormai è tornata ad essere capitale d’Italia: «Molti rifiutan lo comune incarco; / ma il popol tuo solicito risponde / sanza chiamare, e grida: I’ mi sobbarco!». Sabino Cassese alla Grüber, che gli chiedeva se avrebbe accettato la candidatura, rispose che quando si tratta di “comune incarco” non bisogna mai proporsi a nulla ma che non bisogna mai sottrarsi a nulla. Chiara l’antifona.
L’idea è stravagante! Consiste nell’offrire a Papa Francesco la Presidenza della Repubblica Italiana. Chi legge penserà ad una boutade. Anche l’idea delle dimissioni di un papa poteva essere considerata una boutade; e invece è accaduto. Non lo è. Spiego perché, difficoltà oggettive di realizzare la stravaganza a parte, sarebbe una buona soluzione. 
Papa Francesco ama fare il politico, il diplomatico, stare sempre alla ribalta, la più ampia e la più alta possibile. Come i politici, ama il protagonismo, l’esibizionismo, la scena, l’applauso. Come i politici è contraddittorio: ora dice una cosa, ora un’altra, a seconda dell’uditorio, col vantaggio di non doversi mai correggere; come invece fanno i politici: volevo dire che…, sono stato frainteso. Un papa non vuole dire, dice; non può essere frainteso.
Ha rifiutato gli appartamenti pontifici perché li ritiene piccoli per la sua ipertrofica considerazione di sé, convinto che sono gli uomini a rendere piccole le cose grandi e grandi le cose piccole. Santa Marta, grazie a lui, è assurta a grandezza planetaria.
Cerca sempre il plauso dei molti e, avendo capito, che il plauso dei molti nasce dall’inimicizia dei pochi, specialmente se potenti o tali considerati, continuamente bacchetta questi ultimi. Per un potente che colpisce, migliaia di deboli in Piazza San Pietro lo osannano.
Di recente ha parlato di quindici piaghe della Curia, che non è come parlare di astrattezze: si guardava attorno e vedeva nei cardinali e nei vescovi che lo attorniavano i portatori di queste piaghe. I malcapitati si guardavano alle accuse del Papa come allo specchio. Alcuni si sono risentiti, soprattutto quelli che, dichiarandosi favorevoli a lui, pensavano di mettersi al riparo dai suoi attacchi. Papa Francesco li ha spiazzati.
Non so quante potrebbero essere le piaghe della politica italiana. Ma uno che le metta in mostra, che non sia il solito Marco Travaglio o la solita Milena Gabanelli, starebbe proprio a fagiuolo.
Ci sarebbe Renzi che, somigliandogli come figlio al padre, potrebbe fargli ombra e creargli fastidi. Ma Renzi sta al governo e lui, Presidente Francesco, starebbe al Quirinale. Non avrebbero modo di pestarsi i piedi. E poi chi ha detto che Renzi non potrebbe diventare papa? In fondo quando Bergoglio era cardinale Renzi faceva le medie. Col mantra delle “medie” Renzi è diventato capo del governo. Non si sa mai.
Con Papa Francesco alla Presidenza della Repubblica sarebbe anche un felice ritorno di un papa alla sua sede usurpata, dopo 145 anni. E questa non sarebbe l’ultima soddisfazione di Papa Francesco: aver riportato un papa al Quirinale.    
L’ostacolo più difficile sarebbe di natura giuridica: come potrebbe un capo di stato diventare capo di un altro stato? Potrebbe essere capo di due stati? Decisamente no. Ma qui siamo in presenza di uno Stato, quello del Vaticano, che ha una sua eccezionalità. Dunque potrebbe accadere. Anzi potrebbe accadere perfino che Francesco continuasse ad essere Papa mentre fa il Presidente della Repubblica. Una sorta di teocrazia che non riuscì nemmeno a Bonifacio VIII nel 1300.
Né mancano altri felici risultati ove la stravaganza si concretizzasse. Per esempio: uno stato teocratico non avvicinerebbe il cristianesimo all’Islam? E il duplice ruolo di Papa Francesco non potrebbe tirar fuori dalla naftalina Papa Benedetto, l’Emerito, a cui si potrebbe dare il titolo di Co-papa?
A Riflettere, i vantaggi di una presidenza della repubblica di Papa Francesco, che peraltro è di origini italiane, sarebbero tanti, tanti i previsti, tanti i prevedibili, tanto gli imprevisti. Con l’aiuto del Signore chissà quanti altri benefici potremmo avere, non ultimo quello di bonificare la politica italiana e restituirla alla sua naturale funzione. E questo è proprio il sogno alla Martin Luther King, raggiungimento di un obiettivo utopico.

Ma mentre Papa Francesco a Montecitorio, davanti al Parlamento in seduta plenaria, diceva: «E ricordatevi: il Signore perdona, io no» e i parlamentari tutti si spellavano le mani per gli applausi, un soprassalto. La sveglia non finiva più di suonare.      

domenica 21 dicembre 2014

Italiani double face: Benigni di fuori, maligni di dentro


Certo che noi italiani non finiamo mai di stupire, pur ripetendoci con una coerenza degna di materia scientifica. L’esibizione di Roberto Benigni su Rai Uno nelle due serate del 15-16 dicembre sui Dieci Comandamenti ha fatto esplodere di entusiasmo gli esegeti dell’italica impudenza e impenitenza.
A sentirne alcuni, pare che il Decalogo lo abbia scritto Benigni o che lo abbia ricevuto lui non Mosè dalle mani del Signore, tanta è la lode in suo onore. E’ la fatica più recente del comico toscano dopo  la Divina Commedia, l’Inno di Mameli e la Costituzione della Repubblica, che per la vulgata dei “saputi” sarebbe “la più bella del mondo”. Quando ci si mettono, gli intellettuali italiani riescono a identificare tanto autori e interpreti da non saperli più distinguere. Ricordo l’identificazione Mussolini-Veltro dantesco ai tempi del Duce. Benigni diventa, volta per volta, Dante, Mameli e Padre costituente, anzi l’unico e solo autore della Costituzione. E, dopo tanto, Benigni Padreterno! 
A sentirli, gli apologeti della comicità pedagogica di Benigni, un popolo di dieci milioni di telespettatori è rinsavito, è pronto ad una crociata in difesa dei valori laici della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. Perché, gira e rigira, sempre di questo si tratta, anche se si parla di Dio o del padre e della madre. Si sono tanto calati a glorificare Benigni che si sono dimenticati perfino di contestargli il fatto che non più di padre e di madre bisogna parlare al giorno d’oggi, ma di genitore uno e di genitore due, come essi sostengono. Sono gli stessi che propugnano libertà ad libitum e che ritengono la chiesa cattolica la più oppressiva e oscurantista del mondo perché non apre ai gay, alle famiglie allargate, all’eutanasia, ai preti-donne e ad ogni ritrovato del “ciò che piace è lecito”. Sarebbe stato interessante che Benigni relazionasse simili diritti rivendicati coi relativi comandamenti. Ma non attacchiamoci ai cavilli! Benigni ha compensato Buzzi, Carminati e via ingalerando. La reputazione dell'Italia è salva.
Di colpo, dunque, dieci milioni di italiani sono diventati franceschi e jacoponi. Alcuni si sono subito liberati del denaro che avevano in tasca, delle loro carte di credito, si sono spogliati, hanno gettato via cardigan e cachemir, rolex e gioielli, e si sono subito sposati con madonna povertà. Altri hanno incominciato ad invocare punizioni bibliche sui loro corpi colpevoli di godurie peccaminose: Oh Signor, per cortesia, manname  la malsanìa! Gli italiani, quando vogliono, non hanno che il problema della scelta: l’umiltà di Francesco o la furia di Jacopone. A chiacchiere, ovviamente.
Altri commentatori si sono limitati a denunciare la ridondanza di un eloquio sensazionalistico, in verità prolisso e ripetitivo, del predicatore toscano, già comico di vaglia. Per ogni comandamento Benigni ha scomodato superlativi assoluti e relativi: è il più importante di tutti, è quello che tutti gli altri riassume, e via superlativizzando, come a dimenticare quanto aveva già detto per il comandamento precedente.   
Le cose bisogna prenderle per quello che sono. Benigni è un grande del palcoscenico, rende tutto molto bello, chiaro e divertente. Lui sì che miscet utile dulci, come raccomandava Orazio. E’ un grande volgarizzatore, esemplificatore e chiarificatore anche di concetti difficili. Ha il grande pregio di aver fatto capire la Divina Commedia anche ad un pubblico semplice e illetterato; lo stesso ha fatto con l’Inno nazionale e la Costituzione. Gli siano perciò riconosciuti onore e merito.
Personalmente, in occasione dei Dieci Comandamenti, l’ho trovato logorroico; penso che una serata sarebbe bastata a spiegarli. Ma è un dettaglio che butto così, non avendo io la competenza di un critico televisivo, come Aldo Grasso o di un competente come Carlo Freccero.
Ma, detto questo e mi scuso per il poco che questo rappresenta nei meriti che sicuramente ha Benigni, aggiungo che altra è la considerazione critica che va fatta sugli italiani, intesi sia come cittadini qualunque, sia come intellettuali.
In Italia non c’è bisogno che qualcuno ricordi i Dieci Comandamenti. Qualche anno fa lo fece Enzo Biagi col Cardinale Ersilio Tonini, sempre alla Rai, “I Dieci Comandamenti all’italiana”, e lo spettacolo, quanto a qualità e a resa educativa, non fu inferiore a quello offerto da Benigni; anzi.
In Italia oggi c’è bisogno di giudici severi che colpiscano i trasgressori dei comandamenti. E, invece, che abbiamo? Un Papa, che pensa a fare il diplomatico mondiale, disinteressandosi completamente delle anime dei suoi credenti: chi sono io per giudicare? Già, chi è lui? Qualcuno glielo dovrebbe dire. Abbiamo un mondo politico ed educativo, ovvero politica e scuola, che definire permissivo è dire niente, dal momento che vuole depenalizzare tutto. Ai tempi del ’68 “era vietato vietare”; ma si era consapevoli che la si sparava grossa. Oggi vietato vietare è minimalismo.
Allora mi chiedo: davvero i dieci milioni di spettatori hanno tratto qualche insegnamento da Benigni? Non sono i soliti italiani che applaudono entusiasti a chi ricorda loro come dovrebbero comportarsi nella vita, per poi continuare a fare i propri comodi, dimentichi o indifferenti ai moniti? Ricordiamo tutti, fin dalla fanciullezza, il lupo che andò a confessare i suoi peccati contro le pecore e non ancora assolto dal prete gli chiese di sbrigarsi perché aveva sentito belare per strada. Non sono forse gli italiani tanti lupi, Benigni di fuori, divertiti e compiaciuti dei moniti, e…maligni di dentro, pronti a ricominciare a spettacolo finito? Non so. Me lo chiedo!

domenica 14 dicembre 2014

Evviva la politica! Abbasso i politici corrotti!

Lino Patruno, già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, ha scritto un fondo su questo giornale intitolato «La colpa della politica, le colpe di tutti noi» (12 dicembre, pp. 1 e 23). Tema: l’attuale crisi romana o, come la chiamano i giornali, della “mafia capitale”, con le vicende di Alemanno, Buzzi e Carminati, per un verso, di Marino, Orfini e compagni per un altro; per concludere che i politici hanno delle colpe e che delle colpe abbiamo noi.
Noi, chi? Probabilmente noi della società civile e, per essa, noi operatori dell’informazione. Le argomentazioni addotte le condivido da cima a fondo; ma questo non era neppure importante dirlo.
Quel che qui mi piace sottolineare, invece, è la questione che potrebbe definirsi di lana caprina, espressione che non si usa più per indicare qualcosa di banalotto e di nessuna importanza, ma che di lana caprina non è.
Quale? Quella che in qualche modo è stata attinta dal Presidente Napolitano nella sua allocuzione del 10 dicembre, quando ha condannato la “patologia eversiva dell’antipolitica” e quanti, anche del mondo dell’informazione, le danno spago. Proprio così.
Sono sicuro che Patruno è d’accordo col Presidente Napolitano, come lo sono io e come lo sono tantissimi cittadini e giornalisti. Ma Patruno ha involontariamente contribuito a screditare la politica con una piccola dose di veleno antipolitico col titolo del suo fondo, di cui in apertura. Probabilmente il titolo non è suo; sarà del titolista, come usano i giornali. Ma questo non cambia nulla al merito del discorso che qui si vuole fare.
Perché «Le colpe della politica»? L’obiezione è scontata: qui per “politica” s’intende “dei politici”. Ma non è la stessa cosa! Dire “colpe della politica” s’ingenera un equivoco, che andrebbe scongiurato. La politica, intesa come insieme di individuazione di problemi pubblici e loro soluzione attraverso il concorso elettorale per raggiungere i luoghi di dibattito e di decisione, non può avere che meriti; le sono talmente propri che metterli in discussione significa, come giustamente Napolitano ha detto, cadere nella patologia eversiva dell’antipolitica. Perché il ragionamento è semplice: le colpe sono della politica? Allora occorre l’antipolitica. Ma l’antipolitica è l’opposto dell’individuazione-soluzione dei problemi pubblici. L’antipolitica è solo destruens per definizione, mai construens.
L’equivoco non è tutto qui. Patruno lo ha detto chiaramente: ci sono colpe “di tutti noi”. Noi, infatti, piuttosto che chiamare in causa i singoli politici responsabili con nome e cognome, parliamo genericamente di politica, quasi che i meschini hanno avuto la disgrazia di cadere in una trappola, quella politica, come nelle sabbie mobili, dalle quali non è possibile uscire. Una sorta di fatalità. Nei confronti degli stessi perciò bisogna avere pietas, che di fatto si traduce in omissione, mascheramento, politicamente corretto – usiamo tutte le espressione che vogliamo – per significare quel detto cattolico: ti dico il peccato e non il peccatore. Bisognerebbe invece proporsi il contrario: ti dico il peccatore, che tu, conoscendolo, sai già il peccato. Ma siamo cattolici!  Che cerchiamo indulgenze nell’orto di Lutero? Tanto poi ci scateniamo in orge di condanne quando il tacere i nomi non è più possibile; e neppure allora ci preoccupiamo di non distillare veleno antipolitico. Torna anche qui la morale cattolica: non giudicare per non essere giudicato, il fuscello dell’occhio altrui e la trave nel mio, e via evangelando. Per pietas non facciamo nome e cognome del peccatore nel momento in cui veniamo a conoscenza del peccato compiuto, e sempre per pietas insistiamo prioritariamente sul peccato, la politica, come luogo dove non è possibile non peccare. Sono queste le colpe di tutti noi.
Non è solo questione formale. Si sa che dietro la forma c’è la sostanza. Noi dobbiamo recuperare il senso delle cose e delle persone, senza pietismi, cattolicesimi, umanitarismi, buonismi. Chi si occupa della cosa pubblica deve sapere che se “pecca” deve essere castigato. Non dico punito, dico castigato. E chi, vuoi da semplice cittadino vuoi da operatore dell’informazione, soprattutto da operatore dell’informazione, viene a conoscenza di un peccato e del suo peccatore, deve immediatamente denunciarli. Non deve aspettare che sia la Procura della Repubblica, la Guardia di Finanza o i Carabinieri a far esplodere il caso. Quando ciò si verifica non è più informazione corretta e produttiva, ma inutile pornografia e masturbazione.
Patruno chiama in causa – e fa bene – anche quei politici puliti e onesti, che vedono, sentono e sanno, ma restano in silenzio perché non è conveniente parlare, denunciare. Forse è proprio in questa identificazione silenzio-convenienza che s’incardina la fatalità secondo cui chi sta in politica fatalmente o pecca direttamente o pecca per omissione di vigilanza. Culpa in vigilando si dice in gergo forense. Nella sua brutalità espressiva Grillo ha rimproverato a Napolitano proprio questo: ma tu dove stavi quando tutto ciò accadeva, su Marte? E’ proprio questo che Patruno rimprovera ad Orfini, commissario del Pd romano con l’impossible mission di pulizia.

Se ben ricordiamo, alla vigilia dell’esplosione del caso romano, il Pd stava cercando di far fuori il suo stesso sindaco Marino. Allora non si capiva bene perché. Oggi si capisce fin troppo bene. Si cercava di salvare i politici per far cadere la colpa sulla politica. Già, more solito!           

domenica 7 dicembre 2014

Malapolitica urbi et orbi


Mi è capitato in questi giorni di parlare con amici di tutt’altro indirizzo politico del mio, che, come sa chi mi conosce e mi segue, è di destra, di quella destra sociale che per quarant’anni si è identificata nel Msi, partito neofascista tout-court. Si capisce: uso il lessico convenzionale. Né, a dire la verità, mi disturba più di tanto essere considerato fascista. Non mi omologo fra quanti oggi si schermiscono se chiamati comunisti. Posso coniugare i verbi della politica che mi riguardano al presente e al passato senza nessuna difficoltà; e non dico anche per il futuro, per un senso di pudore verso me stesso.
Oggetto delle discussioni è l’ennesimo schifo della politica, quello di Roma, che ha mostrato urbi et orbi – è proprio il caso di dirlo – un marcio spaventoso, scoraggiante, da depressione nazionale.  Con tutta la buona volontà di questo mondo questi miei amici, istruiti e direi anche un po’ colti – per carità, non si confondano le due cose – non riescono proprio a scorgere vie d’uscita. Un certo imbarazzo li porta a rimuovere le loro appartenenze e fa loro ipotizzare gruppi nuovi, partiti nuovi, uomini nuovi. Qualcuno cita i grillini, i quali, però, non si sono dimostrati all’altezza del compito e nemmeno all’altezza di un sub compito. Ovvio, si sfarfalla intorno alle cose, perché dopo tutto, imbarazzo a parte, è sotto gli occhi di tutti il fallimento delle loro idee, dei loro partiti, dei loro movimenti, democratici e antifascisti. Nessuno, infatti, dice: il mio partito ha fallito; anzi alcuni di loro continuano a bazzicarvi dentro o nei dintorni.
Né io sarei tanto avventato da pensare che il mio partito è stato l’unico a non fallire. Come potrei, di fronte ai casi che si sono susseguiti dal 1994 in poi? Chi ancora nutre dubbi su Gianfranco Fini, che non è riuscito nemmeno a sottrarsi alla miserabile appropriazione di una casa donata da una nobildonna per la causa missina? Chi ancora ha dei dubbi su Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, genero di Pino Rauti, indegno rappresentante di un partito che aveva tutto per proporsi, se non proprio come rinnovatore, come moralizzatore esemplare? Chi nutre ancora dubbi sulla Polverini, ex presidente della Regione Lazio? Si potrebbe continuare con tutta quella “bella” gente che prometteva palingenesi se mai fosse approdata al potere.
Dunque, ho votato e fatto votare gentaglia, ho contribuito anch’io allo schifo imperante oggi ad ogni livello. No, non mi pento – non ha senso pentirsi: il pentimento è dei pusillanimi – non mi dò con la pietra in petto; ma affermo di essere stato ingannato o piuttosto di essermi ingannato da solo.
C’è, però, una piccola luce in fondo al tunnel nel quale sento di essermi cacciato, insieme a tanti altri italiani: è la luce di quella riserva che abbiamo sempre avuto noi missini o fascisti nei confronti di una democrazia, che non era possibile non accettare. E’ la luce di quel fascismo che altro non era e non è se non ordine, legge, giustizia. Che è oggi l'unica forma di fascismo possibile.
Ricordo che una delle questioni più dibattute nel Msi, ai tempi felici degli Almirante e dei Rauti, era come comportarci noi fascisti in democrazia. E la risposta era chiara: dovevamo accettare la democrazia, non solo e non tanto perché non potevamo non accettarla, ma soprattutto perché attraverso il percorso democratico noi potevamo dimostrare di non essere quelli che gli altri dicevano di noi e di non essere come gli altri. Sissignori, una doppia sfida, che doveva concludersi non a randellate in testa ai nostri avversari, stile fascista, ma con un paio di schiaffi morali a chi ci aveva per anni e anni discriminati ed esclusi, stile neofascista, nel quale credevamo.
E’ accaduto, invece, che finalmente siamo stati accolti nel gran mercato dei democratici, noi confusi con tanti che avevamo avversato, i democristiani, i socialisti, i comunisti; e lo siamo stati non in ragione delle nostre sbandierate virtù ma per quei caratteri della loro democrazia: organizzazione di delinquenti, di malfattori, di ladri, di pendagli da forca.
Per cui oggi credo di non esagerare se invoco un po’ di quel fascismo che poneva al di sopra di tutto la legge, dura, con tutti quegli aspetti anche negativi, ma che sono necessari nei periodi di emergenza, come indubbiamente è l’attuale. L’età mi consente di ricordare che fino a qualche anno fa c’erano sfrontati giovinotti e inebetiti anzianotti, i quali quando ricordavi loro i benefici dell’ordine e della legge, anche per rispettare le più elementari regole del vivere civile, ti rispondevano stupidamente: e che ti credi, che siamo ai tempi di Mussolini?
Ecco, se avessimo la possibilità di trasferirci all’estero, in qualche paese dell’Europa centrosettentrionale, ci accorgeremmo che quella che in Italia è considerata repressione, fascismo, dittatura, in quei paesi è normale, spontanea, condivisa democrazia. Ci accorgeremmo che sarebbe più esatto dire: e che ti credi che siamo in Svizzera o in Austria, in Svezia o in Olanda? Proprio così. In questi paesi ci possono pure essere delinquenti, ma sono cani sciolti, non appartengono a culture e a pratiche malavitose, delinquenziali, criminali; a sistemi cupolari di malavita; non attingono la vita civile, sociale, politica.
E’ fascismo pensare ad un sistema di governo che metta da parte pietà e misericordia e castighi quanti attentano ad ogni forma di bene pubblico, fisico o morale che sia? E’ fascismo ripristinare l’uso corretto e rapido della legge, che faccia giustizia dei torti che il singolo cittadino o l’intero popolo italiano subiscono?  E’ fascismo far funzionare il paese come è accaduto in Italia fino alla disgraziata guerra perduta, magari chiamandolo con un altro nome per tenere contenti tutti, fascisti e antifascisti? Non so, me lo chiedo; e aggiungo: me lo auspico. 

Se non riusciamo a trovare la quadra di questa disfatta nazionale, va finire che sarà l’Europa a costringerci a trovarla. E già non so come abbia fatto finora a non mandarci via, a calci in culo.    

domenica 30 novembre 2014

Grillo che molla è la fine di un'idea della politica


Ha usato un diminutivo inusuale Grillo per dire che forse si è rotto le scatole; avrebbe potuto dire, suo solito, un’altra cosa. Ha detto: “sono stanchino”, lascio ad un Direttorio la guida del movimento. Con un ultimo gesto d’imperio l’autocrate ha nominato i cinque che lo compongono.
Gerolamo Savonarola, che aveva creato un partito nella Firenze della seconda metà del ‘400, quello dei Piagnoni, a forza di invettive e anatemi minacciosi perfino contro il Vicario di Cristo sulla Terra, finì per lasciare sul rogo le sue velleità. Grillo, che ha creato un movimento, quello degli Arrabbiati, con le sue esibizioni comiche e grottesche, non finirà sul rogo, finirà in pensione. Addio lo stesso sogni di gloria e… puzza di bruciato!
Al di là delle parole usate e del loro retropensiero, la sortita del fondatore di quello che è stato un originalissimo movimento politico nella pur fertile terra degli esperimenti politici, che è l’Italia, non si può non registrare una sorta di resa o qualcosa che precede la resa. Dopo meno di due anni dall’exploit elettorale (febbraio 2013), il Movimento è logoro, usurato, ridotto, incerto sia sul piano tattico che strategico.
Un passo indietro. Quando all’indomani del voto Bersani cercò invano di trovare un’intesa col Movimento di Grillo fu chiaro a tutti che il segretario del Pd cercava l’impossibile. E difatti fu spernacchiato in streaming, come ben ricordiamo, dagli scostumati e irriverenti grillini, che solo per poco non erano riusciti a fare il colpaccio di vincere le elezioni. Il Movimento risultò il primo partito, ma gli altri due erano coalizioni (centrodestra e centrosinistra).
A caldo il Movimento era euforico per lo straordinario successo. Chi poteva convincere la Senatrice Roberta Lombardi dall’astenersi dalla famosa battuta: «mi sembra di essere a Ballarò»? Era troppo presto forse perché il Movimento si rendesse conto che conveniva usare nei confronti del sistema politico italiano il bastone e la carota, non bastando il bastone, per così dire allitterando. L’Italia non era e non è un paese dove si possa veramente ipotizzare una rivoluzione in così breve tempo. L’ascesa al potere, da solo, del Movimento era una velleità; e resta tuttora una velleità.
Grillo ora sembra averlo capito. Le tante espulsioni di grillini, consumate per presunti o veri atti di insubordinazione, di dissenso politico o di atti non commendevoli all’etica del Movimento, come il profittarsi dello stipendio di parlamentare, si capiscono come vera e propria “fisiologica” erosione. Pretendere che le tre anime aristoteliche si riducano ad una, con l’abolizione della sensitiva e della vegetativa, è davvero troppo. I grillini intelligono, sentono, mangiano; come tutti, del resto. Sono uomini e nulla di umano può essere loro estraneo (Terenzio). Grillo lo ha capito tardi. Forse, stando alle illazioni e ai sospetti, che ora gli piovono sul capo come randellate, lo sapeva da sempre, ma era convinto che il possesso di più anime è privilegio di pochi.
Pur usando prudenza nel vendere anzitempo la pelle dell’orso, voglio dire del Movimento, la scelta di Grillo ha avuto un effetto disgregante. E’ tutto un fermento, perché sta venendo meno quel principio che aveva caratterizzato il Movimento, secondo cui ognuno non rappresentava che uno. Ora nella fattoria degli animali, in versione grillina, cinque rappresentano tutti gli altri, cioè una parte rappresenta il tutto. Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni, secondo la formula orwelliana, sono più uguali degli altri. Il Movimento si struttura in partito con una sua classe dirigente. E’ un bene, è un male? E’ normale.
La trasformazione non finisce qui. Ci sono processi nel corso dei quali ogni tappa produce la successiva. In politica  è inevitabile. Se non si porrà su questa strada, il Movimento è destinato a scomparire. Vada che non è più raggiungibile il potere da soli! Ma scomparire dalla scena francamente non è accettabile. Si salva sempre il salvabile. Tanto più vale per il Movimento di Grillo, che non nasce dalla tragedia, ma dalla commedia, all’italiana per giunta.
Per il Movimento sono più che mai importanti i prossimi mesi o forse le prossime settimane. Dove andranno a finire i parlamentari grillini e come si schiereranno per l’importante appuntamento dell’elezione del Presidente della Repubblica? E’ di tutta evidenza che, a parte le scatole di Grillo, che si sarebbero rotte, la scelta del Direttorio è un chiaro cambio di strategia. I grillini vogliono contare, vogliono eleggere il Presidente, vogliono prendere il posto di Berlusconi in un’ipotetica intesa col Pd. Poi, da cosa nasce cosa. E’ possibile che il Movimento trovi la quadra per stabilire percorsi politici meno velleitari e si accontenti di raggiungere traguardi più modesti e in compagnia.

Tutto questo, però, segna un punto importante: il tentativo di raggiungere il potere ponendosi fuori dal sistema è naufragato. L’idea della politica, secondo il verbo di Grillo-Casaleggio e della democrazia della Rete, si è dissolta. Il resto è un’altra storia.         

domenica 23 novembre 2014

Femminismo e giornali: adeguare la lingua alla realtà


Il motivo di fondo che ha legato ben sei interventi al seminario tenuto a Lecce, Palazzo dei Celestini venerdì, 21 novembre, dall’Associazione nazionale “Giulia Giornaliste” e dall’Ordine di Puglia, nell’ambito della Formazione Professionale Continua, cui gli Iscritti sono tenuti, è stato il femminile nel mondo dei media, cartacei e web.
Non c’è dubbio che l’avanzata delle donne nella società, in ogni settore fino a qualche decina di anni fa a loro precluso, pone dei problemi alla lingua italiana. Come chiamare il Presidente della Camera quando è una donna? Come chiamare il ministro? Come il preside di una scuola, il direttore, l’avvocato, il notaio, il consigliere quando sono donne? La stampa è chiamata a dare l’esempio, a tracciare il solco, non solo e non tanto per giungere ad una sorta di uniformità lessicale, che sarebbe lesiva della libertà e costituirebbe un impoverimento linguistico, quanto per non contrastare un processo in corso andando contro la realtà. 
La questione della lingua è forse la più antica delle questioni italiane. Essa si ripropone ogni qual volta c’è una sorta di trasformazione sociale e antropologica importante, come indubbiamente è l’attuale con l’ingresso sempre più massiccio delle donne nel mondo delle professioni, del lavoro e della politica.
Nilde Jotti, Presidente della Camera dal 1979 al 1992, voleva essere chiamata presidente e non presidentessa, accontentandosi dell’articolo davanti a presidente per la precisazione di genere. Anche la Boldrini oggi è dello stesso parere. In tanti altri casi l’articolo non basta, non accontenta. Occorre proprio dire ministra e non ministro, direttora, avvocata, magistrata, notaia e così via. Si rifiuta perfino “direttrice”, che è troppo dipendente dalla vecchia grammatica. Le donne rivendicano una desinenza di genere, specifica, inconfondibile. La lingua deve adeguarsi alla realtà.
Non si può dar loro torto. E nessuno glielo dà. Oltre tutto non serve. Né, a dire il vero, si tratta di dare torto o ragione. Comunicare significa servirsi di un codice condiviso per farsi comprendere in maniera semplice, compiuta e immediata. Già più di due secoli fa Melchiorre Cesarotti, nel suo Saggio sopra la lingua (1785), sosteneva che la lingua deve essere inclusiva delle novità, deve adeguarsi alla realtà per come questa si evolve. La componente dinamica della lingua che riguarda il lessico segue la realtà, a differenza della componente statica che è la grammatica e dell’estetica che è personale di chi scrive e parla.
Non sempre tuttavia è così facile e scontato. Nel caso per esempio dell’espressione “il politico italiano” si capisce subito che si tratta dell’uomo politico. Ma se io dico “la politica italiana” non si capisce davvero che il riferimento è a una donna; piuttosto alla politica in genere. In questo caso per non venir meno alla parità di genere bisognerebbe proprio dire “la donna politica italiana”, con ciò venendo meno però al criterio dell’economicità della comunicazione, che vuole l’impiego del minor numero di parole possibile per comunicare qualcosa.
Dai vari interventi di relatrici e relatori, tutti con qualche vena di rivendicazionismo, si è capito una cosa, in parte condivisibile e in parte no. Le femmine vorrebbero come gli illuministi nel Settecento rivedere lo scibile; gli illuministi alla luce della ragione, le femmine alla luce della lingua al femminile. Non c’è dubbio, nemmeno qui, che c’è un universo di espressioni che pone la donna in posizione penalizzante. Non solo e non tanto – qui la pena è addirittura pacchiana – “tutte le donne sono …”, espressione dalla quale si è partiti nel seminario, quanto anche da più innocenti e coloriti stereotipi, del tipo “moglie e buoi dei paesi tuoi”, altro punto di partenza nel seminario.
Qui, in verità, il discorso si fa meno condivisibile. Appare manifesto un certo fondamentalismo. Non si può, infatti, rinunciare a tutto un patrimonio lessicale, che riproduce e ripropone saggezza, cultura, filosofia, specialmente della realtà popolare nei millenni, solo per non commettere “atti impuri” di presunto antifemminismo. Si dovrebbe rivedere lo scibile e cancellare tutto ciò che “offende” la donna. Ma qui il repulisti sarebbe veramente assurdo: tanta letteratura antica e moderna dovrebbe essere mandata al rogo, stile nazionalsocialista. Sarebbe il trionfo di una controriforma che mette le brache ai nudi del Rinascimento.

Sono convinto che certi processi non si possono né frenare né accelerare. La femminizzazione del linguaggio è un processo in corso, che segue il trasformarsi della società. Come l’acqua anche la lingua scava e trova il suo percorso. Lo fa in maniera spontanea, al di là di resistenze degli oppositori e di forzature dei favorevoli. Avrei dovuto dire degli oppositori e delle oppositore, dei favorevoli e delle favorevoli, giacché il femminismo della comunicazione rifiuta la grammatica che impone il maschile plurale a due  vocaboli di diverso genere. Ma si può appesantire la comunicazione con simili inutili ripetizioni, solo per tenere contente le donne? Io credo che prima o poi saranno proprio le donne a rendersene conto.

domenica 16 novembre 2014

Per i cristiani rischio catacombe


E’ incredibile come dopo 1700 anni dall’Editto di Costantino i cristiani, per il loro essere tali, stiano per essere ricacciati nelle catacombe, da dove erano finalmente usciti. Oggi non è tanto il credere o meno in un Dio creatore di tutte le cose e nel suo figliuolo Gesù Cristo, che comporta la persecuzione, quanto quell’insieme di principi e di valori che ne conseguono sul piano morale, politico e sociale. Il cristiano, mentre in alcune zone della Terra, è ucciso e bruciato vivo – vedi Pakistan e Nigeria – in Italia è costretto a comportarsi come quel tifoso che per tifare per la sua squadra si deve nascondere tra i tifosi avversari se non vuole essere insultato e pestato. E’ tornato ad essere Pietro che nega il suo Maestro.  
Giorni fa l’ennesimo episodio di intolleranza. La Diocesi di Milano aveva mandato una comunicazione a tutti gli insegnanti di religione cattolica per segnalare quelle scuole nelle quali si parla di gay e di identità di genere per delegittimare la differenza sessuale. Dio liberi! Si è scatenata in men che non si dica la canea delle associazioni gay, accompagnata dai latrati delle forze politiche ormai quasi tutte convertite al gaysmo. Come in ogni buriana che si rispetti ci sono state interrogazioni parlamentari e minacce di manifestazioni di piazza. Subito, per arginare la bomba gay, sono giunte le scuse della Curia. E’ stato un errore, anzi un equivoco hanno fatto sapere, Cardinal Bagnasco in testa.
In Italia ormai siamo messi così: chi è gay può e deve vantarsene; chi non lo è deve tacere e chi è contrario deve nascondersi, vergognarsi. Nemmeno ai tempi del fascismo la Chiesa era stata così prona al regime del partito unico. Pio XI escogitò la formula del “bona mixta malis”, come dire “per le cose buone accettiamo anche le cattive che sono ad esse unite”. Salvo ad alzare ogni tanto la voce, perché a tutto c’è un limite.
E solo due giorni dopo è arrivata la timida risposta dell’Arcivescovo Scola, che dopo aver riconosciuto che in materia la Chiesa è stata lenta, ha rivendicato il diritto di poter esprimere quel che pensa su gay e dintorni.
In pieno regime democratico tutto ciò che è contrario al pensiero unico dominante è proibito, anzi è perseguito come un’abominevole infamia e i responsabili del misfatto puniti. Appellarsi al Papa, nemmeno per sogno! Chi è lui per giudicare? Il Papa va a corrente alternata, segue una sua coerenza, che però è misteriosa. Oggi dice una cosa e il giorno dopo un’altra. A volte se ne esce con dichiarazioni che hanno il tono della battuta accattivante.
La verità è che ormai i cristiani non possono neppure difendere la loro morale, la loro visione della vita, i loro modelli sociali, per non incappare nelle ire della piazza incontrastata.
Le poche manifestazioni che ancora riescono a fare i cristiani d’Italia vengono attaccate, anche materialmente, da centri sociali e associazioni gay, come è successo alle “Sentinelle in piedi”, che in qualche piazza hanno testimoniato il loro disagio e la loro protesta, a rischio di essere pestate.
Il Papa, che Dio l’abbia in gloria – come diceva il Giusti (non il comico, ma il poeta Giuseppe Giusti) – si lamenta per le persecuzioni che i cristiani subiscono nel mondo. Ma che oggi in Italia e in Europa il cristianesimo venga perseguitato non sembra punto avvedersene. Divorzio, aborto, omosessualità, maternità eterologa, uteri in affitto, vendita di seme maschile e di ovuli femminili, traffici vari, sono tutte pratiche criminali ridotte a peccatucci, che il Signore – dice Papa Francesco – non si stanca di perdonare.
Nei social network a qualche povero disgraziato che accenna a difendere il suo punto di vista arriva di tutto, contumelie e perfino minacce fisiche al punto che gli conviene chiudere il sito, cambiare account, sparire o mimetizzarsi.
Il governo, presieduto da un cattolico, proveniente dagli scout, non sembra minimamente interessato o preoccupato, in tutt’altre faccende affaccendato. Il paese rischia così una deriva di intolleranza religiosa, oltre che politica, che potrebbe portare a conseguenze disastrose. 
Per ora la gente è come spaventata, risponde come può, nel privato, alle continue minacce e provocazioni. I medici si trincerano dietro l’obiezione di coscienza, a cui li sollecita il Papa in un momento in cui la luce gli si accende.
Manca al grande esercito di cristiani un capo che li guidi, dei generali che non temano di mettersi alla testa dei loro credenti. Mancano i preti di strada e di piazza, di forum, come una volta, per prendere parte con coraggio e chiarezza ai dibattiti, per difendere la loro fede religiosa, i loro modelli di famiglia e di società.

Per fortuna non ci sono più i circhi per buttarli lì dentro e darli in pasto alle belve feroci. Ma se le piazze si trasformano in circhi le bestie feroci si materializzano, come già è accaduto. Oggi è più facile che uno dica sono gay e me ne vanto anziché uno che dica io sono contrario ai gay perché credente e cristiano. Gli pioverebbero addosso accuse di omofobia, di sessismo e correrebbe il rischio di essere perfino accusato di discriminazione razziale. Il giorno in cui fosse pure linciato saremmo al capolinea di una nuova storia con un altro Stefano protomartire.

domenica 9 novembre 2014

Il caso Cucchi e lo Stato risarcitore


Il caso Cucchi rischia di diventare un caso emblematico di come lo Stato in Italia si deve far carico, sborsando risarcimenti milionari, delle colpe, delle negligenze e delle nefandezze dei suoi rappresentanti ai più vari livelli e nei più vari settori.
Morire in ospedale dopo un’operazione o un parto; non essere soddisfatti di un intervento chirurgico dal quale non si è guariti del tutto; morire in un carcere, cadere dalle scale di un edificio pubblico, inciampare per strada ad un sanpietrino fuori livello, scivolare su un marciapiede, urtare contro una barriera – si potrebbe continuare con una casistica infinita – tutto può essere motivo di una richiesta milionaria per risarcimento danni. E chi paga? Paga lo Stato, quando ne è il diretto interlocutore; l’ente pubblico in tutti gli altri casi.
Lo spettacolo a cui stiamo assistendo da qualche giorno in qua per il caso Cucchi è odioso in sé. Per un verso è la prova provata che lo Stato non funziona, per un altro è la strumentalizzazione di un giovane morto, forse per percosse ricevute nel carcere, forse per altre cause, che la giustizia non è stata in grado di provare. Quel giovane non doveva morire, non doveva essere picchiato in carcere, nemmeno se si fosse ribellato agli agenti, se avesse bestemmiato loro i morti, se li avesse offesi a morte nei loro affetti più cari, se li avesse presi a calci, a morsi, a unghiate. Questo è indiscutibile. Purtroppo qualche volta accade che gli agenti si lascino trasportare dall’ira e si abbandonino a violenze. Poi, per una serie di complicità, di solidarietà di corpo, di omertà diventa difficile, quando non impossibile giungere ad individuare i colpevoli.  
E’ scandaloso che un caso simile non sia stato chiarito, individuando i responsabili, che ci sono sicuramente. Di fronte all’assoluzione di tutti gli imputati la famiglia, la mamma e la sorella, la sorella soprattutto, ha fatto l’ira di Dio, spalleggiata dai media e perfino da alcuni eminenti personaggi delle istituzioni civili e della Chiesa, come il Presidente del Senato Grasso e il Presidente della Cei, Cardinal Bagnasco. La famiglia Cucchi non ha torto, vuole giustizia. La giustizia gliela deve garantire lo Stato e se non è in grado di farlo deve risponderne.
Ma intanto quel povero giovane è ostentato come una macabra icona tante volte al giorno, per giorni e giorni, quanti sono i telegiornali delle televisioni nazionali e locali. Non so, ma meriterebbe rispetto. C’è una legge, in Italia, sulla privacy che vieta perfino di fotografare e pubblicare un morto per incidente stradale mentre giace esanime sulla strada. Non vale per i famigliari, i quali possono dell’immagine del proprio congiunto farne pubblico uso? Meditiamo su certi eccessi.    
Il processo comunque si rifarà. Probabilmente non troveranno i responsabili, ma siccome quel giovane è morto in una struttura dello Stato, quando era sotto tutela dello Stato, lo Stato sarà chiamato a pagare risarcimenti milionari.
Questo può diventare un problema per lo Stato, che non versa certo in condizioni felici per fare fronte a salassi del genere. Di giudici politicizzati o mediocri, di medici disattenti e faciloni, di dirigenti e manager che sbagliano, ce ne sono tanti che il risarcimento può diventare un business, una vera moderna acchiatura. Pensano gli avvocati, che in questo genere di vicende sguazzano una meraviglia. In questo paese, che si vuole dire europeo, infatti, cerca che trovi, perché si vive nella strafottenza più diffusa. Europei lo siamo nelle leggi, che ormai siamo obbligati ad adottare; ma nella loro applicazione siamo da paese di terzo mondo, assai particolare per giunta. Non c’è ente pubblico che curi il territorio con diligenza e senso della legalità per evitare danni e disastri. Lo vediamo ogni anno in autunno quando le piogge sconvolgono intere città. Non c’è rispetto del cittadino, a cui spesso qualche cialtrone di impiegato dice di ringraziare Dio per qualcosa che era suo dovere fare.
Nel diffuso senso di incolpevolezza e di impunibilità, che regna in Italia, può accadere che ad un povero malato dei medici alla buona facciano l’intervento alla me ne fotto con conseguenze a volte anche mortali, che un arrestato riottoso e maleducato venga picchiato a sangue dagli agenti, che in una strada dissestata e mai riparata qualcuno possa cadere e farsi male, può accadere questo ed altro. Lo Stato è chiamato poi a pagare, come se fosse il nemico pubblico, il malvagio in agguato, il colpevole di tutte le nefandezze diffuse nel paese.
Ma a nessuno viene in mente di prenderne le difese? Il pubblico ufficiale, il dirigente, l’impiegato, il politico, il rappresentante delle istituzioni fanno a gara a chi più e meglio lo aggredisce. Se qualcuno si azzarda ad accennare ad una difesa, viene zittito, come è accaduto al Presidente della Corte d'Appello. Quando il Presidente del Senato si schiera dalla parte del cittadino, che può avere torto o ragione, non pensa minimamente che sta oltraggiando lo Stato, perché una sentenza,  di assoluzione o di condanna, è stata emessa da un suo organo, non da un’assemblea di condominio. Quando il Cardinal Bagnasco, mischiando il sacro e il profano, chiede giustizia terrena, si rende o no conto che sta colpevolizzando lo Stato? 
Ma se tutto questo accade, evidentemente c’è una ragione. La convinzione che in questo paese non funziona più nulla. Gli operatori scolastici sanno che la scuola non funziona, i magistrati sanno che la giustizia è una favola senza morale, i politici pensano agli interessi propri, di soldi e di carriera, i preti pensano, con Elsa Morante, che in fondo la storia è tutta uno scherzo. Ecco perché, quando lo Stato viene accusato, per le manchevolezze dei suoi rappresentanti, non c’è chi ne prenda le difese. 
Per tornare al caso Cucchi. Le parti in causa, la famiglia da una parte e i responsabili, finora ignoti dall’altra, faranno di tutto per scaricare sullo Stato le responsabilità, che invece sono di persone singole e ben individuabili. Penseranno gli avvocati e i giudici, ancora una volta, a raccontare la favola senza morale della giustizia italiana.

domenica 2 novembre 2014

Destra: liberarsi dalle parole e uscire in campo aperto


La crisi che ha colpito la politica non ha risparmiato nessuno dei grandi partiti, nessuna delle grandi ideologie, al punto che in crisi è entrata anche la terminologia, fino a far perdere a destra e sinistra i connotati culturali e storici tradizionali. La destra, intesa come conservazione e all’uopo reazione, presenta una condizione devastata. Oggi tutto l'universo della destra è in dissoluzione: l’individuo, la famiglia, la nazione, lo stato, la legge, dio, la chiesa. Chi si attarda a difendere l’individuo nel suo genere, maschile e femminile; la famiglia formata da padre, madre e figli; la nazione con la sua sovranità, i suoi confini, il suo jus sanguinis; lo stato nel suo primato; la legge come garanzia di giustizia, di difesa dei diritti; dio, giudice misericordioso ma anche severo; la chiesa, come universo di valori indiscutibili; insomma, chi si ostina a difendere simili principi e valori, tradizionalmente di destra, perde tempo. La destra è stata sconfitta su tutti i fronti. Oggi sono legittimamente accettati maschi, femmine, gay, transgender nel più assoluto egualitarismo; la famiglia può essere formata da due e magari più in là da una cooperativa dello stesso sesso, i quali possono adottare bambini, che peraltro possono essere costruiti in laboratorio; la nazione è de facto se non ancora de jure una provincia di una sorta di nuovo sacro romano impero della nazione germanica, senza confini segnati e rigorosamente difesi; lo stato si è devoluto in favore di pezzi e pezzetti territoriali e amministrativi e considerato una sorta di freno alle libertà e allo sviluppo dei cittadini; la legge costituita è continuamente violata, anche da chi dovrebbe difenderla, allo scopo di farne approvare una nuova; dio non ha identità, ciascuno ha un suo dio e nessuno può dire che il proprio sia l’unico o il migliore; la chiesa è un’azienda che si preoccupa del fatturato non di anime ma di potere economico e politico, apre a tutti pur di non perdere nessuno; il papa a Roma sta come a Macondo.
Di fronte a simile scenario, chi autenticamente fosse di destra dovrebbe scatenare la reazione, riportare l’ordine delle cose allo status quo ante. Ma già pensarlo è assurdo. Bisogna sempre partire dall’esistente, dalla realtà. E già questo significa ragionare di destra. Ma non basta: la destra deve uscire in campo, con parole nuove, categorie di pensiero nuove, con una propaganda nuova. Deve rispondere ai cittadini, alle loro domande, ai loro bisogni, alle loro aspettative. Ancora una volta è la realtà a dettare i tempi e l’agenda. E la realtà – lo ricorda ogni tanto il filosofo Emanuele Severino – è la tecnologia che avanza senza sosta.
La realtà dice che oggi non ci sono più le classi sociali, c’è una sola classe all’interno della quale si diversificano posizioni individuali, al massimo categoriali, peraltro in continua mobilità. Da questo punto di vista la destra è avvantaggiata, perché ha dalla sua parte due grandi esperienze storiche: il cattolicesimo e il fascismo, che, in attesa di giungere strategicamente all’annullamento delle classi, erano per una collaborazione tra le stesse in nome di superiori interessi, morali e spirituali per il cattolicesimo, politici e sociali per il fascismo.
Una parte del cattolicesimo si ritrova oggi nel Pd, partito di centrosinistra, in posizione egemonica rispetto alla componente veteroclassista. Un’altra parte si ritrova in alcune formazioni di destra o di centrodestra, fra cui Forza Italia e Ncd, in cui vive una condizione di incertezza e di spaesamento. E il fascismo? Si potrebbe dire che non esiste più come partito o movimento strutturato, con la consapevolezza del suo essere stato, del suo essere e del suo voler essere. Quel che resta è un residuo dell’unico partito neofascista del Novecento, ossia il Msi. Chi a questo partito si rifà anche per un’esigenza genealogica deve prendere atto che gran parte del suo bagaglio ideologico e politico, quello per così dire di destra, è in questo momento indifendibile. Gli resta quell’importante componente che fu nel fascismo e che è stato nel Msi, ossia il pensiero e la prassi sociali. Oggi numerose formazioni si rifanno ad un nuovo nazionalismo pragmatico e di corto respiro (immigrazione clandestina, cittadinanza italiana, antieuropeismo) senza effetto rilevante, se non per testimoniare una presenza sempre più velleitaria. La loro azione è vanificata dal loro essere divise e facilmente delegittimabili quali residui di fascismo. Forza Nuova, il Fronte Nazionale, Casa Pound, Fratelli d’Italia, la Destra sono formazioni che si ostinano in modo diverso a tenere accesa la fiamma della destra. Su queste istanze dovrebbero mettere un coperchio sopra, almeno per il momento; torneranno queste ad essere vincenti quando ci sarà il fallimento dell’attuale ubriacatura individualistica ed edonistica. Dovrebbero invece puntare su quel che può essere utilizzato del loro patrimonio, che è il radicalismo sociale del lavoro e della prospettiva, del benessere materiale e sociale, dell’ordine e del rispetto, che è qualcosa di condivisibile anche fuori dagli steccati tradizionali.
Per questa nuova esperienza politica ogni riferimento al passato è freno e impedimento. Occorre inventare un lessico politico nuovo, in cui si ritrovino quanti anche di opposta provenienza, nemici storici anch’essi in difficoltà nei loro steccati ideologici, sono fermamente convinti dell’efficacia del nuovo percorso. Allora al primo punto non ci può essere che la liberazione dalle parole, di cui finora si è stati prigionieri. Almirante, negli anni Settanta, parlò di guerra delle parole, vinta dalla sinistra perché disponeva di enormi strumenti di propaganda; oggi dalle parole ci si deve semplicemente liberare, se esse invece di far stare con altri dividono e respingono dagli altri.

domenica 26 ottobre 2014

Dove andremo a parare di questo passo


La domanda che pochissimi si fanno in Italia ma che moltissimi avvertono come condizione psicologica è dove andremo a parare di questo passo; voglio dire procedendo a tentoni e a più o meno estemporanee e stravaganti proposte renziane. Fra le ultime, di mettere in busta paga i soldi del trattamento fine rapporto, più conosciuto come buona uscita o liquidazione, per dare l’illusione ai lavoratori di avere più soldi da spendere, di poter consumare di più e di tenere in moto la catena della produzione e del commercio. Così, liquidando nei cittadini – è il caso proprio di dirlo – quella speranza di poter disporre a fine rapporto lavorativo di un bel gruzzolo per realizzare finalmente qualcosa di importante per sé o per i figli. Oppure di dare 80 Euro al mese anche alle mamme, con un reddito sotto i novantamila Euro, per ogni neonato per i primi tre anni di vita, che rievoca politiche augustee e mussoliniane. Si dirà: ma i tempi sono quelli che sono ed è dannoso più che inutile immaginare giornate primaverili sotto la pioggia, la neve e il gelo. Insomma, stiamo male e a mali estremi, estremi rimedi, sia pure improvvisati ed estemporanei.
Il guaio è che i rimedi estremi che vengono agitati non sono tali da scongiurare veramente i mali estremi. Che sono, come ognuno sa, quelli che potrebbe infliggerci la troika europea se non dovessimo risolvere la brutta situazione in cui ci siamo cacciati per altrui e nostre colpe. Quali potrebbero essere i mali estremi? Il taglio, senza pietà e misericordia, come è accaduto altrove, di stipendi e pensioni, di unità lavorative senza porsi tanti scrupoli di articoli 18 o cose del genere. Di fronte a questa infelice prospettiva è lecito chiedersi: ma Renzi ci porterà davvero fuori o ci incasinerà di più?
Se la risposta, pur col beneficio dell’alea, è positiva, allora dovremmo tutti stringerci attorno a Renzi e seguirlo in questa sua reconquista come cavalieri dietro al Cid Campeador. Ovvio che non tanto noi semplici cittadini, la cui massima forza è il voto, dobbiamo sostenerlo nell’impresa ma tutte le forze vive del Paese, dalle politiche alle economiche, alle sindacali, passando da quelle assai importanti delle strutture burocratiche.
Se, viceversa, si ha più di qualche ragionevole dubbio che Renzi possa farcela, allora si ha il dovere di metterlo da parte e di tornare a far politica seria, attraverso una assunzione di responsabilità collettiva degna dei più drammatici momenti del Paese e della Repubblica. Penso a Caporetto del 1917, all’8 settembre del ’43, al terrorismo delle Brigate Rosse degli anni Settanta. Penso ad iniziative forti e lealmente coese perché credo che l’Italia di oggi sia paragonabile a quelle disgraziate situazioni, col minimo vantaggio di essere oggi prima della catastrofe e non dopo.  
Fino ad oggi la situazione, lungi dal migliorare, è peggiorata. Nel Paese non c’è dibattito politico autentico. Il Parlamento è semidelegittimato e impotente al punto che non riesce ad eleggere due giudici per la Consulta, come già non riuscì ad eleggere un nuovo Presidente della Repubblica. Un’intera classe politica è annichilita, incapace di avere un confronto serio e concreto al suo interno. Gli osservatori politici più autorevoli insistono nell’avere seri dubbi sull’operato di Renzi e sia pure con un linguaggio diverso si sono uniti ai critici d’assalto per dire che il governo Renzi è vuoto, che il personaggio si agita, straparla, strainsulta, ma intorno ha pressoché il deserto. I suoi ministri e soprattutto le sue ministre sono di bella presenza, ma di scarsa efficacia. Dall’ironia di Prodi per il “bellu guaglione” rivolto a Rutelli siamo passati a quella assai più velenosa della Bindi per le ministre di Renzi, tali – a suo dire – perché belle, quasi dovessero limitarsi a comunicare atmosfere concorsuali di bellezza e che la bellezza fosse di per sé “vaso d’elezione”.
Intanto non ci poniamo il problema nei giusti termini: affidarci a Renzi senza riserve o metterlo da parte perché quel che doveva mostrare lo ha mostrato in tutta la sua inadeguatezza? Tiriamo a campare tra le caricature esilaranti di Crozza e le crescenti manifestazioni di piazza.  Ci limitiamo a parlare e a straparlare pure noi, a sfotterci e a tifare pro e contro Renzi e non ci accorgiamo di scivolare sempre più verso la soluzione meno desiderabile.
Il secondo quesito pesante che dovremmo porci è se restare o meno in un’Europa che ci penalizza, che ci impoverisce, che ci declassa.
In Francia Hollande, che certo non gode di grande consenso, ha avuto il coraggio e la forza di sfidare l’Europa in nome di un sacrosanto diritto, quello di fare il bene del proprio paese, a prescindere da accordi precedentemente sottoscritti. Noi in Italia, invece, abbiamo il complesso di non apparire sufficientemente europeistici e prima di dire mezza parola di dissenso nei confronti della politica europea di rigore ci profondiamo in una serie di interminabili salamelecchi di fede europeistica. Renzi fa bene a dire che la Merkel non deve trattare i suoi partner da scolaretti che non fanno i compiti a casa; che l’Europa la deve smettere con le reprimende epistolari; ma un conto è dirlo da professore a professore, come fa Hollande, un altro da scolaretto discolo e punito a professore severo, come fa Renzi col gelato in mano.

Più di un esperto insiste nel dire che noi italiani non torneremo più alle condizioni pre-crisi, quasi a farci mettere l’animo in pace per l’infelice condizione. Ma se è assodato che stare dentro l’Europa, così come oggi è, significa per noi la povertà e la sottomissione, fino a che punto conviene restarci? Forse è giunto il momento di fare dei calcoli come si deve, senza complessi e senza paure e di incominciare ad operare per una uscita che ci consenta di recuperare la nostra condizione economica, ma soprattutto la dimensione culturale e politica.

domenica 19 ottobre 2014

Fassino, Renzi e l'eutanasia della politica


Ha detto Piero Fassino, sindaco Pd di Torino ed ex segretario dei Ds (l’ultimo ad esserlo stato prima del Pd), nonché ex Ministro della Giustizia e del Commercio con l’Estero, attualmente presidente dell’Anci, che «se il Parlamento restasse chiuso sei mesi, potrebbe perfino capitare che nessuno se ne accorga», perché «ha perso la sua centralità». Ed è, secondo lui, cosa normale, ancorché dolorosa, perché «dobbiamo ripensare le forme della democrazia politica», non dobbiamo rifugiarci «nella nostalgia di quel che c’era prima. Di nostalgia non si vive, si muore» (Intervista di Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera” di sabato, 11 ottobre). Poi una irrilevante rettifica sul “Corriere della Sera” del 14 successivo: «Ho posto un tema politico e culturale che sta sotto gli occhi di tutti: vi è una crisi […] delle forme politiche e istituzionali di rappresentanza» e via di seguito con altre considerazioni, condivisibili sul piano diagnostico, di meno su quello terapeutico.
Fassino va capito nell’economia della sua situazione. In quanto sindaco di Torino è espressione della più ampia platea del centrosinistra e se punta ad essere confermato alla scadenza del mandato – come punta – non può dire o fare cosa che in questo momento urti quella platea, larghissimamente renziana. Non è un’interpretazione maligna; semplicemente la sua è una condizione che non gli consente di dire altro. Questo solo oggi può dire…
Resta tuttavia grave la filosofia politica che sottende il suo pensiero. Così ragionando, infatti, tutto ciò che è accaduto, che accade e che accadrà nella vita politica di un paese, finisce per essere giustificato. Fassino non è uno qualsiasi. Cariche politiche e governative a parte, è uno che solo qualche anno fa scrisse un libro “Per passione” (Rizzoli, 2003), in cui, a proposito di Giancarlo Pajetta, disse che «non volle mai arrendersi all’idea, che si è dimostrata inesorabilmente vera, che il comunismo fosse incompatibile con la libertà e la democrazia» (p. 49). E si diceva convinto che «il riformismo [fosse] la politica più “di sinistra”, mentre [riteneva] ingannevoli le lusinghe dell’estremismo e del massimalismo e demagogiche le loro accuse al riformismo di “svendere” le idee di progresso per debolezza e incapacità» (p. 53). Alla luce di queste e di altre affermazioni non c’è da sorprendersi se oggi è su posizioni lontane da D’Alema e Bersani, i quali, però, senza essere estremisti e massimalisti, difendono alcuni principi basilari della democrazia, come la si intende a sinistra; anzi, come la si intende e basta, dato che alcune reali derive sono tali da non avere dubbi sulla loro antidemocraticità o sono tendenzialmente antidemocratiche.
Eccone alcune, senza alcun bisogno di esagerarle: 1. c’è un Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, che ratifica, con voto di fiducia, quel che decide un governo che di fatto è un solo uomo, Renzi; 2. c’è un Senato, che si diceva andasse abolito, che non è più votato dai cittadini; 3. ci sono le province, che si diceva andassero abolite, che non sono più votate dai cittadini; col governo Renzi siamo in presenza del secondo governo extraparlamentare, non votato dai cittadini, con l’aggravante che né Monti né Renzi erano parlamentari all’atto dell’incarico; 4. il Parlamento è stato incapace di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, lasciando in carica Napolitano, di fatto in regime di prorogatio; i cittadini, nelle loro più diverse condizioni politiche, economiche e sociali, sono privi di rappresentanza, per cui non possono in alcun modo far sentire la loro voce; 5. il capo del governo è solo uno che fa quel che la Commissione Europea gli impone, a prescindere da ogni altra considerazione;  6. l’Italia ha ceduto pezzi di sovranità all’Europa senza aver sottoposto nulla al giudizio degli italiani; 7. la quasi generalità dell’informazione spaventa quotidianamente il Paese con notizie che hanno carattere intimidatorio e ricattatorio, enfatizza quelle poche funzionali alla propaganda governativa e nasconde quelle considerate nocive; 8. importanti conquiste sociali come le garanzie dei lavoratori sono abolite come se si trattasse di vecchie inservibili suppellettili; 9. la Costituzione ormai è carta straccia, vanificata da una realtà emergenziale; 10. la Presidenza della Repubblica è impelagata in “presunte” trattative con la mafia, devastanti sul piano della credibilità e dei valori istituzionali di cui deve godere lo Stato di diritto.
A fronte di una situazione del genere, che di democratico non ha che le macerie – le si voglia vedere o meno è un altro discorso – Fassino non ha da opporre che una risibilissima obiezione: «Viviamo l’epoca in cui un movimento arriva al 25 % dei voti senza una sezione, senza una tessera, senza un segretario. Vogliamo discuterne e capire perché?» (intervista citata).
Ma Fassino è troppo intelligente per non capire che un conto è il fine un altro il mezzo. Che oggi la politica abbia forme e percorsi diversi è un dato di fatto inoppugnabile, ma che le finalità democratiche debbano essere le stesse non bisognerebbe minimamente discuterlo. Anche nei paesini di poche migliaia di abitanti ci sono giovani che con i social network riescono alle elezioni amministrative a prendere una caterva di voti; e sono giovani praticamente sconosciuti ai luoghi urbani, alla frequentazioni pubbliche, nascosti alla politica quale ancora si fa, attraverso incontri, convegni, conferenze e dibattiti. E, allora? Allora vuol dire che oggi bisogna prendere atto dei cambiamenti formali e strumentali, ma per perseguire le finalità di sempre, che durano dalle origini della democrazia.

Non bisogna farsi abbacinare dai piccoli o grandi cambiamenti e perdere di vista i piccoli o grandi traguardi dell’uomo politico, del cittadino. Questo correre dietro a Renzi, se per il sindaco Fassino ha una ragione politica, per l’uomo Fassino, culturalmente provveduto, non ha alcuna ragione etica. Il renzismo dilagante è un vero impazzimento diffuso. Lo svilire i valori della politica incomincia a diventare pratica demenziale. I valori non sono alimenti che scadono, possono perdere la loro brillantezza, la loro luce, per le inevitabili traversie della realtà, ma restano validi. Essi sono come la lampada di Aladino, rottami buttati in un angolo, ma basta che li strofini ed ecco che ritrovi i grandi desideri-bisogni della vita politica.

domenica 12 ottobre 2014

Non credere, non obbedire, mandare a strafottere


L’Italia sta diventando il paese dove nessuno più riconosce lo Stato, la legge, le gerarchie, i normali passaggi decisionali, inevitabili perché ogni organizzazione, pubblica o privata che sia, funzioni. Il fenomeno non risparmia neppure i militari. Il comandante della Capitaneria di Livorno Gregorio De Falco, diventato famoso per quel “qui comando io” nella disgraziata notte del naufragio della “Costa Concordia”, ha respinto il trasferimento ad altro compito ipotizzando un reato di mobbing.
Gli esempi più negativi ed eclatanti procedono dall’alto in basso. Il Parlamento non nomina i due giudici mancanti della Corte Costituzionale. Impotenza o deliberata riottosità? Mettiamola come vogliamo. I senatori, che ormai sanno di avere i giorni contati, si vendicano nei confronti di un’istituzione che nulla ha fatto per impedire l’abolizione del Senato.
Lo spettacolo offerto da importanti magistrati – vedi il caso della Procura di Milano – è indecoroso per le accuse reciproche e le reciproche delegittimazioni tra i procuratori-capo e i procuratori aggiunti. E dovrebbero essere loro i custodi della legge! Stanno dimostrando, essi giudici, di essere più colpevoli e più dannosi al paese dei loro giudicati.
Il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ex magistrato, non accetta la condanna inflittagli per abuso d’ufficio, respinge la sospensione comminatagli dal Prefetto, continua a riunire la sua Giunta in un luogo più ameno e manda a strafottere tutti.
Il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, dichiara di non voler obbedire alla politica estera nazionale, che in linea con l’Europa ha comminato sanzioni alla Russia di Putin, e dice che prenderà contatti direttamente con le autorità russe per riallacciare i rapporti economici con quel paese.
I sindaci di molte città italiane, tra cui Milano, Bologna, Roma, non intendono obbedire alle disposizioni dei Prefetti e del Ministero degli Interni in materia di trascrizione di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero perché illegali per la legge italiana.
A Melendugno si parva licet – il Sindaco con qualche cavillo amministrativo blocca i lavori della Tap, un’importante opera strategica per la politica energetica nazionale, deliberati dal governo.
Ci sono zone di alcune città, come Napoli e Bari, dove i cittadini impediscono alla Polizia di catturare o solo identificare un pregiudicato. Il caso della sollevazione popolare a Napoli in seguito alla morte di quel giovane sullo scooter, che non si era fermato all’alt dei Carabinieri, è una delle pagine più eloquenti del discredito di cui gode lo Stato in alcune regioni italiane.
Alla disobbedienza, ormai diffusa come costume imperante, si aggiunge un continuo insultare il diretto superiore. Ormai il cittadino, a cui non piaccia una legge, si sente legittimato a non osservarla, a disobbedire, convinto che la sua disobbedienza basti a far abrogare quella legge. Non il contravventore della legge, dunque, deve essere punito, ma la legge. 
Sta venendo a mancare la base del Contratto Sociale, ipotizzato da filosofi e giuristi tra il Sei e il Settecento per tenere insieme il corpo sociale nell’ambito di un reciproco riconoscersi in un’autorità superiore. Il popolo – ma a questo punto è perfino improprio definirlo così – si è disgregato in un numero infinito di monadi che non riconoscono l’autorità dello Stato; lo Stato, da parte sua, non ha né la volontà né la forza di imporre il rispetto del Contratto. Chi dovrebbe dare l’esempio coi suoi comportamenti fa l’opposto, convincendo i cittadini di poter fare tutto quello che vogliono perché tutto è permesso, e se non permesso quanto meno concesso o graziosamente affrancato. Peggio: chi dovrebbe intervenire per far rispettare la legge non c’è; e dunque in assenza del guardiano tutto è a disposizione di tutti.
Di fronte alla situazione catastrofica che si sta delineando, non solo sotto il profilo economico-finanziario – questo è quotidianamente iperpropagandato e purtroppo pesantemente sentito – ma anche e soprattutto sotto il profilo culturale e sociale, invece di correre ai ripari si fa finta di niente. Si vive nell’indifferenza, se non in una reciproca ignoranza.
Renzi dice di voler cambiare l’Italia. Ma perché cambiare l’Italia, e non piuttosto gli italiani, immeritevoli assegnatari di un bene che andrebbe altrimenti gestito e vissuto? Per cambiare gli italiani, però, occorre quello che nessuno di loro vuole. Del resto, come li si può cambiare assecondandoli? Li si può cambiare usando esattamente il contrario di ciò che essi vogliono. Vogliono l’anarchia, l’impunibilità, il faccio quello che mi pare e piace? E allora, a questo punto, occorre la bacchetta! Sissignori, quella bacchetta invocata da Pier Paolo Pasolini nelle sue “Lettere Luterane”.
Come per altre situazioni, anche in questa, Pasolini seppe essere una formidabile spia di allarme fin da quarant’anni fa. Gli italiani vanno riportati nell’ordine nazionale e sociale; devono recuperare il senso dello Stato. Nessuno si spaventi per repressioni di massa, bastonature, incarcerazioni. Nessuno pensi a bibliche deportazioni. Non ce ne saranno. Gli italiani hanno dimostrato di essere docili e obbedienti ai primi colpi di bacchetta. L’italiano è uno che si uniforma all’anarchia come all’ordine, lesto e capacissimo di cambiare, passando da un regime all’altro, appena si accorge che è in atto il cambiamento.

Preoccupa, in una simile congiuntura, l’assenza degli intellettuali a lanciare l’allarme. Essi hanno trasformato una torre di vedetta in una torre d’avorio. La stretta economica e la crisi di rappresentanza politica stanno facendo passare in secondo ordine la vera emergenza nazionale, che è quella di un paese che ormai non si riconosce in niente e in nessuno.    

domenica 5 ottobre 2014

Berlusconi-Fitto, per quanto ci riguarda


Si possono dire tante cose di Berlusconi, ma non si può dire che si sia mai nascosto dietro una maschera. Certo, ha fatto di tutto per apparire gradevole, ricorrendo a tutti i trucchi delle apparenze tipiche degli uomini di spettacolo; ma il volto, il suo vero volto, quello di un Mastro don Gesualdo milanese, quello del padrone che fa e disfa, che invita e caccia, che dona e prende, che ride e fa ridere, che si diverte e fa divertire, che usa e getta, che con una mano fa finta di nascondere e con l’altra mostra, quello non lo ha mai nascosto. Perché per Berlusconi non c’è piacere, non c’è potere senza ostentazione.
Il guaio è che il suo volto non è più quello di una volta. Forse oggi la maschera se la dovrebbe proprio mettere, incollarsela, perché il suo volto di oggi è devastato dalle rughe di un invecchiamento malvagio, impietoso che rivela non solo l’età – a quella ancora può in qualche modo rimediare – ma soprattutto la natura intima, tra il grottesco e il tragico; e qui non può fare proprio niente. Grottesco, quando pensa a finalità giovanili e spera in ricandidature importanti, ed è un vecchio di ottant’anni, graziato dai suoi nemici solo perché serve a tenere in piedi la baracca di Napolitano-Renzi; tragico, perché pensa di poter rinascere mentre sta solamente morendo.
Quanto è accaduto all’Ufficio di Presidenza di Forza Italia giovedì, 2 ottobre, tra lui e Raffaele Fitto è la rappresentazione del suo vero stato di salute mentale e politica. E purtroppo non solo sua. La corte che gli sta attorno suscita, ormai da qualche tempo, quel pietoso rispetto che in genere si deve a dei poveri malati, straniti e spaesati, che hanno perso la via di casa e stanno, come si dice, più di là che di qua.
Aver attaccato Raffaele Fitto, uno dei suoi più votati leader politici, perché in dissenso dalla sua linea politica, ritenuta ambigua e suicida, con rozze e volgari minacce, non è da uomo assennato, da padre nobile, come lui ogni tanto dice di essere. Avere esplicitamente cacciato Fitto paragonandolo a Fini non sminuisce Fitto ma riabilita senza merito Fini e lo fa apparire quello che non è. Aver accusato Fitto di fargli perdere consenso nel paese con le sue critiche alla linea politica del partito, anfibia rispetto al governo Renzi, ha dimostrato solo che Forza Italia è un partito personale, che la politica che fa serve solo al suo padrone. Un padrone che, ormai prossimo alla fine, decide, come quell’altro personaggio verghiano, di portarsi con sé la sua roba.
Ha rimproverato a tutti di essere stati fedeli quando lui era il dominus assoluto e li faceva ministri ed uomini importanti, per abbandonarlo quando poi si è trovato in difficoltà, perseguitato e non più candidabile. Ecco, ancora una volta ammette di essere quello che i suoi nemici gli hanno sempre contestato: un despota! Ecco, ancora una volta dimostra di non capire che il partito non è un’azienda e che è perfettamente normale che ognuno persegua il proprio interesse nell’ambito del più ampio interesse del partito e del supremo interesse del paese. Che c’è di strano che un politico si preoccupi delle prospettive del partito a prescindere da quelle del capo, quando questi non è più nelle condizioni di guidarlo con successo? Un partito politico non è una comitiva di scapocchioni, leali e fedeli nei felici bagordi e leali e fedeli nelle tristi penitenze. Berlusconi non ha cultura politica: è digiuno per costituzione mentale come Marco Pannella lo è per calcolo e scelta.   
Fitto – e lo diciamo a prescindere se ha torto o ragione nella sua analisi e nei suoi calcoli – crede davvero che Forza Italia sia il suo partito e che la sua vita politica possa continuare in quel partito. La sua è una lealtà calcolata quanto si vuole, ma è lealtà. Forse, alla luce di quanto sta accadendo, incomincia a riconsiderare il suo più recente passato per giungere ad altre conclusioni; ma non v’è dubbio che al punto in cui è giunto non può pensare a Forza Italia come ad un porto dal quale salpare per allontanarsene così dall’oggi al domani.
Berlusconi lo ha chiamato “prete di Lecce”. Ché i preti di Milano sono diversi? Abbiamo visto chi sono i Gelmini e i Verzè. Berlusconi andrebbe silenziato per il suo bene, se continua di questo passo, altro che rivelazioni di pentiti!    
Ha rimproverato a Fitto di essere figlio di un vecchio democristiano, come se si può rimproverare a qualcuno di essere figlio del proprio genitore, sia pure politicamente parlando. Ma Salvatore Fitto, padre di Raffaele, aveva 47 anni quando morì di incidente stradale; democristiano sì, dunque, ma non vecchio, comunque volesse intenderlo Berlusconi. Ma anche qui l’ex cavaliere dimostra di essere incapace di dominarsi.
E’ forse figlio di nessuno lui? Può anche non avere riguardo per la dignità personale e per la morale pubblica – i Mastro don Gesualdo in genere non hanno né una cosa né l’altra – ma fa un torto a tanta gente che, sbagliando o costretta da un sistema elettorale bipartitico, ha avuto fiducia in lui e lo ha seguito per diversi anni; gente che alla dignità personale e alla morale pubblica tiene.
Lo scontro dell’altro giorno in Forza Italia, al di là dell’esito del voto sulla relazione di Berlusconi, con due soli voti contrari, Fitto e Capezzone, lascia il segno non solo e non tanto nel partito, ma soprattutto nell’elettorato di centrodestra.

In una stagione di riposizionamenti anche elettorali il Pd potrebbe catturare, tramite il renzismo, tanti moderati di Forza Italia e del fu PdL, e tramite le istanze sociali della sinistra tanti ex missini autenticamente convinti della bontà di una giusta politica sociale. Berlusconi rischia, con le sue stravaganti chimere, con le sue folli resistenze, di ricostruire – proprio lui! – la vecchia Democrazia Cristiana. E chissà che per lui non sia un ritorno alla pietosa grande madre Terra, dalla quale è uscito!

domenica 28 settembre 2014

L'abolizione dell'articolo 18 è un inutile regresso


I diciottisti una volta erano nel gergo universitario quegli studenti che si accontentavano del 18, il voto minimo per superare un esame, pur di passare da Italiano uno a Italiano due; da Analisi uno ad Analisi due e giungere quanto prima alla laurea. Poi sapeva Dio a chi dare i guai! In verità i diciottisti erano pochi; la gran parte degli studenti consideravano il 18 un’onta e lo rifiutavano. Ma quelli di stomaco tosto c’erano, c’erano!
Oggi i diciottisti sono i difensori dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300 del 20 maggio 1970), quello che obbliga il datore di lavoro al reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa.
Questa norma appare anche ad un orbo mentale essere una sacrosanta e irrinunciabile conquista a tutela della libertà e della dignità del lavoratore. Libertà, perché il lavoratore deve essere libero di votare partito comunista anche se il suo datore di lavoro è fascista e direttamente interessato alle votazioni; e viceversa. Ovvio, ho estremizzato per rendere più chiara l’importanza della norma. La dignità, perché il lavoratore, licenziato senza giusta causa, riceve un’offesa universalmente inaccettabile.
Ma, poiché non si vive nell’Iperuranio ipotizzato da Platone, in tempi di sindacatocrazia e sinistrocrazia – e ci sono stati, oh se ci sono stati! – un giudice poteva far passare senza giusta causa un licenziamento più che legittimo e supermotivato. Non stiamo qui ad elencare tutte le possibili situazioni. I tempi e i luoghi – si sa – dettano legge oltre la legge. Sappiamo che i datori di lavoro prepotenti ci sono sempre stati e ci sono; ma sappiamo anche che i giudici di sinistra, cosiddetti democratici, non ci sono sempre stati, ma sono giunti a partire dalla fine degli anni Sessanta, in così forte numero da configurare una sorta di invasione. Sicché in forza dell’art. 18 un imprenditore non poteva praticamente licenziare mai, neppure se l’azienda era in crisi e occorreva ridurre il numero dei dipendenti, rischio fallimento. Neppure se un lavoratore era stato colto nel mentre boicottava l’azienda. Questo spiega perché gli imprenditori e la parte sociale e politica che li rappresenta se la siano presa tanto con l’art. 18. A maggior ragione quest’articolo è stato colpevolizzato da cinque anni in qua per la nota crisi economica e finanziaria che si è abbattuta sull’Italia.
Già nel 2012, col governo Monti e con la riforma del lavoro del Ministro Fornero, l’art. 18 è stato modificato in maniera non banale perché al posto del reintegro del lavoratore, ove licenziato senza giusta causa, sono state previste delle opzioni risarcitorie, a seconda dei casi. Insomma, invece del reintegro, soldi per un certo numero di mensilità, fino a ventiquattro. L’indennizzo al posto del reintegro già lo prevedeva il punto XVII della Carta del Lavoro del 1927 previa conciliazione tra le parti. Figurarsi che passo…avanti!
Pare – non se ne discuterebbe tanto altrimenti! – che la riforma Fornero non abbia sortito gli effetti sperati e che l’art. 18, come un killer imprendibile, una sorta di primula rossa, continui a mietere vittime nel mondo dell’imprenditoria. Così il governo Renzi, che è dipendente dal centrodestra come un rimorchio dalla motrice, col cosiddetto Jobs act – non si capisce più un cazzo, in quest’Italia che ha rinunciato perfino alla sua lingua! – vuole addirittura abolirlo. Basta con gli abusi da una parte e dall’altra: gli imprenditori più liberi di licenziare; i giudici non più liberi di reintegrare. Contro l’ipotesi abolizione si sono scagliati i difensori, una cospicua parte, diciamo la sinistra, del Partito democratico; e ovviamente i sindacati, specialmente la Cgil, che oggi ha in Landini, segretario della Fiom, più che nella Camusso, segretario generale, il portabandiera più agguerrito.
In Italia, come sempre, è sorta la nuova contrapposizione: diciottisti-antidiciottisti. I difensori del governo Renzi, che a volte diventano più renziani di lui, per delegittimare le ragioni dell’opposizione interna, lanciano l’accusa di strumentalizzazione: voi siete contrari non all’abolizione dell’art. 18 ma al rinnovamento dell’Italia e sperate di giungere ad una resa dei conti con chi invece è più che intenzionato a cambiarla quest’Italia. Simile modo di confrontarsi è incivile oltre che impolitico; ma tant’è, ormai in Italia è cavalleria rusticana. Se n’è accorto perfino Ferruccio de’ Bortoli, direttore del “Corriere della Sera” (editoriale del 24 settembre).
Vero è che nel Pd nessuno spera in una conta, che sortirebbe solo l’effetto di rendere meno vivibile una convivenza che resta innaturale – ex democristiani ed ex comunisti hanno in comune solo la particella ex – e dunque le ragioni della sinistra dem appaiono oneste.
L’art. 18 è qualcosa che va ben oltre l’ideologia, pur scomodata da chi lo vuole abolire, è una conquista irrinunciabile. Che poi, sul piano dell’applicazione, possa avere delle storture o delle forzature, non giustifica la sua abolizione. Quando mai si abolisce una legge per l’incapacità di applicarla correttamente?

Invece di rispondere, menando il can per l’aia, chi pensa di risolvere il problema della crisi del lavoro, dell’occupazione e della crescita abolendo una norma di civiltà e minacciando gli avversari, farebbe bene a crearlo il lavoro. Ove, infatti, di lavoro ce ne fosse a sufficienza chi starebbe a battersi per una norma che sul piano pratico non avrebbe più importanza? Il problema vero è che questo governo, come quelli precedenti, è incapace di fare una politica di diminuzione delle tasse, di accesso al credito, di investimenti, di abbattimento delle pastoie burocratiche, di accorciamento dei contenziosi giudiziari, di tempestivo pagamento dei debiti da parte delle pubbliche amministrazioni. Incapace di creare lavoro, il governo se la prende con una norma, che, a questo punto, c’è o non c’è, conta poco. Se scarseggia la materia del contendere, ossia il lavoro, abolire l’art. 18, è uno sfregio all’idea stessa di progresso, è un precipitare all’indietro di quasi un secolo. E per che cosa? Per nulla! 

domenica 21 settembre 2014

Napolitano e l'impotenza della politica


Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto bene ad incazzarsi di brutto per l’incapacità del Parlamento di eleggere due giudici della Corte Costituzionale e due membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Di fronte all’indecoroso spettacolo offerto da un parlamento riottoso è doveroso che un presidente della repubblica si adiri. Ma occorre anche saper inserire il fenomeno nel più vasto quadro della situazione italiana quale si è determinata in questi ultimi due-tre anni. Giusto per capire!
Il Parlamento che fuma nero per tredici volte è lo stesso Parlamento che non riuscì nell’aprile del 2013, poco meno di un anno e mezzo fa, ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, offrendo uno spettacolo altrettanto indecoroso con le fumate nere per Marini e per Prodi. Saremmo tentati di dire, senza per questo mancare di rispetto a Napolitano, a cui vogliamo sinceramente bene, che la sua elezione formale fu una “non elezione” politica. Un altro Parlamento avrebbe votato senza problemi il nuovo Presidente e Napolitano oggi starebbe mettendo a punto memorie e riflessioni.
La questione, perciò, come sempre, è politica. Cosa c’è dietro la riottosità del Parlamento, o per lo meno di chi, nel segreto del voto, impedisce l’elezione dei membri mancanti a due delle più importanti istituzioni nazionali? A noi sembra ci sia la volontà di rivendicare un diritto, che è una funzione imprescindibile in una democrazia, quella di legiferare nel pieno delle competenze riconosciute dalla Costituzione. Votare le persone indicate dai leader politici su loro diktat, in ossequio ad un patto, quello del Nazareno, che nessuno conosce, tranne i due diretti interessati, è l’occasione propizia, forse irripetibile, per dire no, basta, vogliamo contare per quello che la superiore legge dello Stato ci riconosce; non possiamo essere parlamentari usa e getta. I veti, neppure tanto in filigrana, non sono a Violante e a Bruno, ma a Renzi e a Berlusconi.
Posta così la questione, appare di tutta evidenza che ormai a livello di partiti c’è una sorta di ammutinamento nei confronti dei loro capi, per ora contrastato dai loro fedelissimi. Un ammutinamento vile, subdolo quanto si vuole, ma “à la guerre comme à la guerre”. Semmai c’è da chiedersi: perché si è giunti a tanto, mentre il Paese boccheggia ed è esposto al ludibrio internazionale, con le oche del Campidoglio che starnazzano e più che richiamare l’attenzione di chi deve difenderlo richiamano l’attenzione di chi lo deride oggi, e forse domani lo minaccia?
Matteo Renzi dice spesso che lui in certe cose mette la faccia. Non so cos’altro potrebbe mettere, se per faccia intende la dignità della persona e del ruolo pubblico che ha. Ma gli altri non hanno faccia? Non hanno dignità? Per lui, evidentemente, gli altri non contano niente. Incapaci, inconcludenti, gufi, rosiconi, parlano per avere visibilità, esistono solo per fare da contrappunto al suo mercuriale agitarsi e muoversi sulla scena.
Renzi ha bisogno non di collaboratori e di amici alleati, ma di avversari, acidi preferibilmente; e quando non ce ne sono alle viste lui se li inventa. Quale politico dice ai partner che se vogliono la guerra avranno la guerra? Un politico che si rispetti cerca di evitarla la guerra, di evitare i contrasti; cerca alleanze, consensi. Lui i consensi li cerca in un elettorato che finora si è dimostrato riconoscente nei suoi confronti per l’elargizione degli ottanta euro in saccoccia e perché non vede altro cui aggrapparsi.
Il suo muoversi sulla scena ricorda certe opere dello scrittore latino Plauto e il suo metateatro, quando il protagonista ammicca agli spettatori con cenni di intesa, come a dire: mo’ vi mostro io cosa combino a questi fessacchiotti. Renzi pensa ai fessacchiotti della scena e ai fessacchiotti della platea. Gli uni – secondo lui – più fessacchiotti degli altri.
Non so se incominci a rendersi conto che la festa sta andando verso l’epilogo. Sta di fatto che nel Pd se ne sono accorti e gli stanno prendendo le misure. Non c’è ancora una presa di posizione definita e compatta. Si procede occasionalmente e in ordine sparso. Oggi D’Alema, qua Bersani, là la Bindi e via di seguito. Ma, pur nella preoccupazione di non commettere passi falsi, che potrebbero essere politicamente letali, ognuno sta ipotizzando scenari diversi da quelli attuali. Di recente Matteo Orfini, un habitué del cambio di casacca, volto da cospiratore ottocentesco – l’ho sentito con le mie orecchie a Taurisano qualche giorno fa in un pubblico incontro – ha detto che se il governo fallisce nell’impresa delle riforme la colpa è del Pd, perché è il Pd che si è fatto l’intero carico dell’impresa. Un’esagerazione, perché tutti sanno che il governo va avanti con l’alleato interno del Ncd e con quello esterno, per le riforme istituzionali, di Fi. Ma, come tutte le esagerazioni, anche quella di Orfini nasconde qualcosa, nasconde la testa di Renzi. Perché se il governo fallisce, è scontato che tutti cercano la sua faccia, quella che lui ci mette ad ogni piè sospinto.
In casa di Fi le cose stanno anche peggio. Credo che ormai tutti, anche i berlusconiani più fedeli si stiano rendendo conto di essersi messi su una strada che non ha sbocchi. Il disobbedirgli in maniera così insistita, a proposito dell’elezione dei membri mancanti della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, è la prova provata che ormai l’ex Cavaliere non dispone più neppure della forza politica del centrodestra rimasto dopo l’uscita di Alfano e amici. Fitto, che continua a dire che lui non lascerà il partito, dimostra anche con il suo dissenso di non riconoscere più  il suo leader storico.

Per tornare a Bomba. Napolitano si arrabbia, ma la situazione della quale in un certo senso è padre e figlio, è quella che è. Una situazione che somiglia ad una rete attraverso la quale i pesci entrano ed escono e c’è il rischio che tirata su lasci a mani vuote i pescatori, che siamo noi, popolo italiano, alla fin fine.   

sabato 20 settembre 2014

Francesco Piccolo ovvero il desiderio di essere come tutti


Si può dire così: la leggerezza dell’essere fa bene alla salute del singolo; fa male alla società. Ha scritto recentemente Luca Goldoni in un elzeviro: «Preferisco chi fa un dramma di tutto a chi non fa mai un dramma di niente» (Corsera del 18 settembre).
Dello stesso avviso non è Francesco Piccolo, che col suo ultimo romanzo ha scoperto la leggerezza dell’essere e ha sposato la filosofia del “Chesaramai”. Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013) con cui ha vinto l’ultima edizione del “Premio Strega”, la LXVIII, quella appunto del 2014, è un libro plurale. Può essere letto in vari modi; e se tanto vale per ogni libro – il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha recentemente affermato che Le città invisibili di Italo Calvino è uno straordinario saggio di sociologia (“L’eco della storia”, Rai Storia, 16 agosto 2014) – a maggior ragione vale per questo.
E’ un romanzo di formazione, un Bildungsroman, è un saggio di politica, è un saggio di antropologia; a corollario: un contributo celebrativo di Berlinguer nel trentesimo della sua morte, l’ennesimo attacco di un antiberlusconista militante nel momento in cui l’ex Cavaliere è con un piede dentro e l’altro fuori della galera, pardon dei servizi sociali.
Romanzo di formazione, dove ricorrono le due fondamentali componenti del genere: l’autobiografismo e la riflessione introspettiva, nella crescita spirituale e civile del protagonista. Narrazione autodiegetica. L’io narrante attraversa a partire dai primi anni Settanta il periodo della fanciullezza, dell’adolescenza, della prima giovinezza, della giovinezza e della maturità, passando attraverso eventi famigliari, scolastici, politici, sportivi, naturali, attraverso libri e film, da tutti prendendo qualcosa che va ad alimentare il suo processo formativo, come uomo, come cittadino, come scrittore. Sotto questo aspetto, che è il più  per così dire narrativo e che giustifica il premio, il romanzo accusa qualche stanchezza verso la fine, dove diventa ripetitivo e nel tentativo di trarre le somme, quasi ce ne fosse bisogno, l'autore tradisce una non ben trattenuta tentazione di saggista. Era proprio necessario dimostrare? Il romanzo cede al teorema. La narrazione alla geometria. Filo conduttore il mito di Diana e Atteone sbranato dai cani rappresentato nella fontana della Reggia di Caserta, che viene assunto come chiave di lettura esemplare, insieme con altri desunti da libri e film. Lo stesso da dove parte il suo astio per Berlusconi, che in visita con capi di governo e di stato stranieri si era lasciato sfuggire una delle sue solite battute erotico-allusive, chiaramente inopportuna.
Saggio di politica. Nel bel mezzo di un confronto tra i più duri ed esclusivi del dibattito politico nazionale, berlusconiani-antiberlusconiani, il protagonista, che è di buona famiglia della media borghesia, figlio di un missino che vota An, è un comunista e si schiera contro Berlusconi, associato all’impurità. Il suo idolo, che gli fa tanto detestare Craxi e perfino Bertinotti, pur votato, è Berlinguer, associato alla purità. Trova intollerabile l’accoglienza riservata dai socialisti a Berlinguer qualche mese prima che questi morisse. La posizione di Piccolo è quella mediana di minoranza comunista e minoranza democristiana, berlingueriani e morotei, convinti della bontà e della fattibilità del compromesso storico e della realizzazione in Italia di quelle riforme di cui il Paese aveva bisogno fino al rapimento di Moro e alla sua tragica morte per mano delle Brigate Rosse. Una posizione banale se pensiamo che è stata quella di circa l’ottanta per cento di intellettuali, giornalisti, scrittori, registi, attori e via elencando, quella che una volta si chiamava l’intellighenzia, nonostante il Paese fosse diviso in buona sostanza a metà, con addirittura una lieve tendenza a destra, a Berlusconi. Ma, del resto Piccolo vuole «essere come tutti». Tutti, per Piccolo, sono i buoni, i puri, quelli di sinistra, colti e votati ad esprimere il meglio del Paese. Una conferma che gli intellettuali italiani non sanno rappresentare il popolo e che il popolo italiano non segue i suoi intellettuali. Dall’altra parte, infatti, all’incirca l’altra metà, c’è l’Italia berlusconiana, che conta pure intellettuali e artisti, ma cattivi maestri di pragmatismo, se non proprio di cinismo.
Saggio di antropologia. L’approdo dell’eroe piccoliano, dopo la morte tragica di Moro (1978) e quella improvvisa di Berlinguer (1984), è il cittadino grigio, un po’ Villaggio e un po’ Kundera, personaggio un po’ veltroniano e un po’ deamicisiano, che trova nella compagna della quale si innamora e con la quale si sposa la stella polare di una visione della vita di basso profilo, ancor più banale di quella del politico. La donna si chiama Chesaramai, che la dice tutta già nel nome. Perché indignarsi, arrabbiarsi se Berlusconi vince le elezioni? Ma sì, che sarà mai! Una filosofia di vita che conduce il nostro eroe a ripensare criticamente i momenti più significativi trascorsi e alcune azioni compiute. Passati al vaglio di Chesaramai producono se non pentimenti, qualche piccolo senso di colpa; per esempio, per aver mancato di rispetto a delle persone tutto sommato oneste, quando finge di essere di An per andare a fare un reportage ad una manifestazione di questo partito; a partire da suo padre, missino, che però raccoglie e conserva di nascosto tutti gli articoli di giornale del figlio comunista.

L’uomo che viene fuori da questo libro plurimo è il cittadino carrierista, che si mimetizza nel colore che ben si associa a tutti, come iperbolicamente si indica la parte vincente. Ha fiuto quando segue il successo e le opportunità fino a diventare giornalista e scrittore apprezzato e richiesto. Ma ha fiuto soprattutto quando con un libro, che può essere tante cose insieme, si assicura il “Premio Strega”. Nell’anno in cui si fa l’apoteosi di Berlinguer, la cui morte dispiacque a tutti, ma la cui politica entrò in decrescita già nelle elezioni del 1979, ossia dall’anno successivo alla morte di Moro, il romanzo di Piccolo è la celebrazione più significativa del veltronismo, ancora di più di quanto non sia riuscito a fare lo stesso Veltroni, col suo libro Quando c’era Berlinguer (Rizzoli 2014). In questo libro almeno non si risparmiano voci discordi a Berlinguer.