sabato 20 settembre 2014

Francesco Piccolo ovvero il desiderio di essere come tutti


Si può dire così: la leggerezza dell’essere fa bene alla salute del singolo; fa male alla società. Ha scritto recentemente Luca Goldoni in un elzeviro: «Preferisco chi fa un dramma di tutto a chi non fa mai un dramma di niente» (Corsera del 18 settembre).
Dello stesso avviso non è Francesco Piccolo, che col suo ultimo romanzo ha scoperto la leggerezza dell’essere e ha sposato la filosofia del “Chesaramai”. Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013) con cui ha vinto l’ultima edizione del “Premio Strega”, la LXVIII, quella appunto del 2014, è un libro plurale. Può essere letto in vari modi; e se tanto vale per ogni libro – il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha recentemente affermato che Le città invisibili di Italo Calvino è uno straordinario saggio di sociologia (“L’eco della storia”, Rai Storia, 16 agosto 2014) – a maggior ragione vale per questo.
E’ un romanzo di formazione, un Bildungsroman, è un saggio di politica, è un saggio di antropologia; a corollario: un contributo celebrativo di Berlinguer nel trentesimo della sua morte, l’ennesimo attacco di un antiberlusconista militante nel momento in cui l’ex Cavaliere è con un piede dentro e l’altro fuori della galera, pardon dei servizi sociali.
Romanzo di formazione, dove ricorrono le due fondamentali componenti del genere: l’autobiografismo e la riflessione introspettiva, nella crescita spirituale e civile del protagonista. Narrazione autodiegetica. L’io narrante attraversa a partire dai primi anni Settanta il periodo della fanciullezza, dell’adolescenza, della prima giovinezza, della giovinezza e della maturità, passando attraverso eventi famigliari, scolastici, politici, sportivi, naturali, attraverso libri e film, da tutti prendendo qualcosa che va ad alimentare il suo processo formativo, come uomo, come cittadino, come scrittore. Sotto questo aspetto, che è il più  per così dire narrativo e che giustifica il premio, il romanzo accusa qualche stanchezza verso la fine, dove diventa ripetitivo e nel tentativo di trarre le somme, quasi ce ne fosse bisogno, l'autore tradisce una non ben trattenuta tentazione di saggista. Era proprio necessario dimostrare? Il romanzo cede al teorema. La narrazione alla geometria. Filo conduttore il mito di Diana e Atteone sbranato dai cani rappresentato nella fontana della Reggia di Caserta, che viene assunto come chiave di lettura esemplare, insieme con altri desunti da libri e film. Lo stesso da dove parte il suo astio per Berlusconi, che in visita con capi di governo e di stato stranieri si era lasciato sfuggire una delle sue solite battute erotico-allusive, chiaramente inopportuna.
Saggio di politica. Nel bel mezzo di un confronto tra i più duri ed esclusivi del dibattito politico nazionale, berlusconiani-antiberlusconiani, il protagonista, che è di buona famiglia della media borghesia, figlio di un missino che vota An, è un comunista e si schiera contro Berlusconi, associato all’impurità. Il suo idolo, che gli fa tanto detestare Craxi e perfino Bertinotti, pur votato, è Berlinguer, associato alla purità. Trova intollerabile l’accoglienza riservata dai socialisti a Berlinguer qualche mese prima che questi morisse. La posizione di Piccolo è quella mediana di minoranza comunista e minoranza democristiana, berlingueriani e morotei, convinti della bontà e della fattibilità del compromesso storico e della realizzazione in Italia di quelle riforme di cui il Paese aveva bisogno fino al rapimento di Moro e alla sua tragica morte per mano delle Brigate Rosse. Una posizione banale se pensiamo che è stata quella di circa l’ottanta per cento di intellettuali, giornalisti, scrittori, registi, attori e via elencando, quella che una volta si chiamava l’intellighenzia, nonostante il Paese fosse diviso in buona sostanza a metà, con addirittura una lieve tendenza a destra, a Berlusconi. Ma, del resto Piccolo vuole «essere come tutti». Tutti, per Piccolo, sono i buoni, i puri, quelli di sinistra, colti e votati ad esprimere il meglio del Paese. Una conferma che gli intellettuali italiani non sanno rappresentare il popolo e che il popolo italiano non segue i suoi intellettuali. Dall’altra parte, infatti, all’incirca l’altra metà, c’è l’Italia berlusconiana, che conta pure intellettuali e artisti, ma cattivi maestri di pragmatismo, se non proprio di cinismo.
Saggio di antropologia. L’approdo dell’eroe piccoliano, dopo la morte tragica di Moro (1978) e quella improvvisa di Berlinguer (1984), è il cittadino grigio, un po’ Villaggio e un po’ Kundera, personaggio un po’ veltroniano e un po’ deamicisiano, che trova nella compagna della quale si innamora e con la quale si sposa la stella polare di una visione della vita di basso profilo, ancor più banale di quella del politico. La donna si chiama Chesaramai, che la dice tutta già nel nome. Perché indignarsi, arrabbiarsi se Berlusconi vince le elezioni? Ma sì, che sarà mai! Una filosofia di vita che conduce il nostro eroe a ripensare criticamente i momenti più significativi trascorsi e alcune azioni compiute. Passati al vaglio di Chesaramai producono se non pentimenti, qualche piccolo senso di colpa; per esempio, per aver mancato di rispetto a delle persone tutto sommato oneste, quando finge di essere di An per andare a fare un reportage ad una manifestazione di questo partito; a partire da suo padre, missino, che però raccoglie e conserva di nascosto tutti gli articoli di giornale del figlio comunista.

L’uomo che viene fuori da questo libro plurimo è il cittadino carrierista, che si mimetizza nel colore che ben si associa a tutti, come iperbolicamente si indica la parte vincente. Ha fiuto quando segue il successo e le opportunità fino a diventare giornalista e scrittore apprezzato e richiesto. Ma ha fiuto soprattutto quando con un libro, che può essere tante cose insieme, si assicura il “Premio Strega”. Nell’anno in cui si fa l’apoteosi di Berlinguer, la cui morte dispiacque a tutti, ma la cui politica entrò in decrescita già nelle elezioni del 1979, ossia dall’anno successivo alla morte di Moro, il romanzo di Piccolo è la celebrazione più significativa del veltronismo, ancora di più di quanto non sia riuscito a fare lo stesso Veltroni, col suo libro Quando c’era Berlinguer (Rizzoli 2014). In questo libro almeno non si risparmiano voci discordi a Berlinguer.   

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