Si può dire così: la leggerezza
dell’essere fa bene alla salute del singolo; fa male alla società. Ha scritto
recentemente Luca Goldoni in un elzeviro: «Preferisco chi fa un dramma di tutto
a chi non fa mai un dramma di niente» (Corsera del 18 settembre).
Dello stesso avviso non è
Francesco Piccolo, che col suo ultimo romanzo ha scoperto la leggerezza
dell’essere e ha sposato la filosofia del “Chesaramai”. Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013) con cui ha vinto
l’ultima edizione del “Premio Strega”, la LXVIII , quella appunto del 2014, è un libro
plurale. Può essere letto in vari modi; e se tanto vale per ogni libro – il
sociologo polacco Zygmunt Bauman ha recentemente affermato che Le città invisibili di Italo Calvino è
uno straordinario saggio di sociologia (“L’eco della storia”, Rai Storia, 16
agosto 2014) – a maggior ragione vale per questo.
E’ un romanzo di formazione, un Bildungsroman, è un saggio di politica,
è un saggio di antropologia; a corollario: un contributo celebrativo di
Berlinguer nel trentesimo della sua morte, l’ennesimo attacco di un
antiberlusconista militante nel momento in cui l’ex Cavaliere è con un piede
dentro e l’altro fuori della galera, pardon
dei servizi sociali.
Romanzo di formazione, dove
ricorrono le due fondamentali componenti del genere: l’autobiografismo e la
riflessione introspettiva, nella crescita spirituale e civile del protagonista.
Narrazione autodiegetica. L’io narrante attraversa a partire dai primi anni
Settanta il periodo della fanciullezza, dell’adolescenza, della prima
giovinezza, della giovinezza e della maturità, passando attraverso eventi
famigliari, scolastici, politici, sportivi, naturali, attraverso libri e film,
da tutti prendendo qualcosa che va ad alimentare il suo processo formativo,
come uomo, come cittadino, come scrittore. Sotto questo aspetto, che è il
più per così dire narrativo e che
giustifica il premio, il romanzo accusa qualche stanchezza verso la fine, dove diventa
ripetitivo e nel tentativo di trarre le somme, quasi ce ne fosse bisogno, l'autore tradisce una non ben trattenuta tentazione di saggista. Era proprio necessario
dimostrare? Il romanzo cede al teorema. La narrazione alla geometria. Filo
conduttore il mito di Diana e Atteone sbranato dai cani rappresentato nella
fontana della Reggia di Caserta, che viene assunto come chiave di lettura
esemplare, insieme con altri desunti da libri e film. Lo stesso da dove parte
il suo astio per Berlusconi, che in visita con capi di governo e di stato
stranieri si era lasciato sfuggire una delle sue solite battute
erotico-allusive, chiaramente inopportuna.
Saggio di politica. Nel bel mezzo
di un confronto tra i più duri ed esclusivi del dibattito politico nazionale,
berlusconiani-antiberlusconiani, il protagonista, che è di buona famiglia della
media borghesia, figlio di un missino che vota An, è un comunista e si schiera
contro Berlusconi, associato all’impurità. Il suo idolo, che gli fa tanto
detestare Craxi e perfino Bertinotti, pur votato, è Berlinguer, associato alla
purità. Trova intollerabile l’accoglienza riservata dai socialisti a Berlinguer
qualche mese prima che questi morisse. La posizione di Piccolo è quella mediana
di minoranza comunista e minoranza democristiana, berlingueriani e morotei,
convinti della bontà e della fattibilità del compromesso storico e della
realizzazione in Italia di quelle riforme di cui il Paese aveva bisogno fino al
rapimento di Moro e alla sua tragica morte per mano delle Brigate Rosse. Una posizione
banale se pensiamo che è stata quella di circa l’ottanta per cento di
intellettuali, giornalisti, scrittori, registi, attori e via elencando, quella
che una volta si chiamava l’intellighenzia,
nonostante il Paese fosse diviso in buona sostanza a metà, con addirittura una
lieve tendenza a destra, a Berlusconi. Ma, del resto Piccolo vuole «essere come
tutti». Tutti, per Piccolo, sono i buoni, i puri, quelli di sinistra, colti e
votati ad esprimere il meglio del Paese. Una conferma che gli intellettuali
italiani non sanno rappresentare il popolo e che il popolo italiano non segue i
suoi intellettuali. Dall’altra parte, infatti, all’incirca l’altra metà, c’è
l’Italia berlusconiana, che conta pure intellettuali e artisti, ma cattivi
maestri di pragmatismo, se non proprio di cinismo.
Saggio di antropologia. L’approdo
dell’eroe piccoliano, dopo la morte tragica di Moro (1978) e quella improvvisa
di Berlinguer (1984), è il cittadino grigio, un po’ Villaggio e un po’ Kundera,
personaggio un po’ veltroniano e un po’ deamicisiano, che trova nella compagna
della quale si innamora e con la quale si sposa la stella polare di una visione
della vita di basso profilo, ancor più banale di quella del politico. La donna
si chiama Chesaramai, che la dice
tutta già nel nome. Perché indignarsi, arrabbiarsi se Berlusconi vince le
elezioni? Ma sì, che sarà mai! Una filosofia di vita che conduce il nostro eroe
a ripensare criticamente i momenti più significativi trascorsi e alcune azioni
compiute. Passati al vaglio di Chesaramai
producono se non pentimenti, qualche piccolo senso di colpa; per esempio, per
aver mancato di rispetto a delle persone tutto sommato oneste, quando finge di
essere di An per andare a fare un reportage ad una manifestazione di questo
partito; a partire da suo padre, missino, che però raccoglie e conserva di
nascosto tutti gli articoli di giornale del figlio comunista.
L’uomo che viene fuori da questo
libro plurimo è il cittadino carrierista, che si mimetizza nel colore che ben
si associa a tutti, come iperbolicamente si indica la parte vincente. Ha fiuto
quando segue il successo e le opportunità fino a diventare giornalista e
scrittore apprezzato e richiesto. Ma ha fiuto soprattutto quando con un libro,
che può essere tante cose insieme, si assicura il “Premio Strega”. Nell’anno in
cui si fa l’apoteosi di Berlinguer, la cui morte dispiacque a tutti, ma la cui
politica entrò in decrescita già nelle elezioni del 1979, ossia dall’anno
successivo alla morte di Moro, il romanzo di Piccolo è la celebrazione più significativa
del veltronismo, ancora di più di quanto non sia riuscito a fare lo stesso
Veltroni, col suo libro Quando c’era
Berlinguer (Rizzoli 2014). In questo libro almeno non si risparmiano voci
discordi a Berlinguer.
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