In Italia accadono
quotidianamente fatti che lasciano a dir poco allibiti. A Napoli, alle tre di
notte, tre ragazzi in scooter non si fermano ad un posto di blocco dei
Carabinieri. Inizia l’inseguimento. Inizia cioè la cosa più normale che possa
accadere in casi del genere. L’inseguimento si conclude tragicamente: uno dei
ragazzi, Davide Bifolco di sedici anni, è colpito da un proiettile sparato da
un carabiniere. Un altro ragazzo cade e viene catturato, l’altro riesce a
fuggire. Secondo i Carabinieri fra i tre c’era un latitante, a cui da tempo
davano la caccia, e il colpo che ha ucciso il ragazzo è partito accidentalmente
dalla pistola. Versione dei ragazzi, fra cui quello che era riuscito a scappare
e che poi si è consegnato (ma è lo stesso?): non c’era nessun latitante e il
carabiniere ha sparato alle spalle dopo aver preso la mira, dunque con
l’intenzione di uccidere.
L’analisi dei fatti ha confermato
che il colpo del carabiniere era al petto e non alla schiena e che la
traiettoria del proiettile era dal basso in alto e non orizzontalmente: dunque,
il colpo è partito accidentalmente, dato che il ragazzo era in piedi quando è
stato colpito e il carabiniere era inciampato. Ma, al di là dei cavilli, sui
quali si daranno battaglia gli avvocati delle parti, c’è che a Napoli si
rivendica il diritto di non fermarsi ad un posto di blocco delle forze di
polizia e che se proprio inseguimento deve esserci va fatto a piedi e la
cattura deve effettuarsi a mani nude, come al vecchio gioco
dell’acchiappa-acchiappa.
Va da sé che Napoli non ha niente
a che fare con nessuna altra città europea. Non c’è bisogno di dirlo. A Napoli
e in tutta la Campania
si spara per le strade in pieno giorno e si ammazzano persone occasionalmente,
che alla fine, poveracce, erano al posto sbagliato al momento sbagliato. Con
queste parole, qualche tempo fa, è stata liquidata l’uccisione a Portici, alle
porte di Napoli, di un povero pensionato che era andato a fare la spesa per la
famiglia.
L’episodio di Napoli presenta
quattro fasi, una più grave dell’altra, una causa dell’altra in progress. La prima è quando i ragazzi
non si sono fermati al posto di blocco, mettendo in allarme i Carabinieri, che
partivano subito all’inseguimento.
La seconda, quando il carabiniere
ha impugnato l’arma in maniera maldestra e ha ucciso il ragazzo inciampando. La
morte del giovane è sicuramente il fatto umanamente più grave di tutta la
vicenda. Morire a sedici anni per non essersi fermati all’alt dei Carabinieri è
mille volte tragico, né il contesto del rione Traiano, notoriamente ricettacolo
di criminalità diffusa, può rendere più comprensibile l’accaduto. Alla morte
non c’è giustificazione che tenga.
La terza, quando la gente di
Napoli si è scagliata contro il carabiniere. Consegnatecelo – hanno chiesto al
Comandante dei Carabinieri – quasi si trattasse di un mostro reo di aver
stuprato, seviziato e ucciso
quattro-cinque bambine. In questo modo la gente di Napoli ha trasformato
un episodio di inciviltà propria in un’autentica rivendicazione sociale,
ribaltando le responsabilità.
La quarta, quando nessuna
importante autorità, dal Capo del Governo al Sindaco di Napoli (ex magistrato),
dal Ministro degli Interni al Ministro della Difesa, ha detto mezza parola per
difendere l’operato dei Carabinieri e per ribadire una legge che è vecchia
quanto il mondo: se un’autorità di polizia ti indica di fermarti, ti devi
fermare; se non lo fai ti metti fuori della legge e ti assumi tutte le
responsabilità di quello che accade da quel momento in poi.
Questo triste episodio deve far
riflettere più di altri, di tantissimi altri, purtroppo. Qui non ci troviamo di
fronte alla violazione della legge per il diritto naturale di campare, come a
Napoli accade da sempre, ma di fronte alla sollevazione di un’intera città che
pretende e rivendica il diritto di agire e di comportarsi fuori dalle leggi più
elementari del vivere civile. Secondo i napoletani i Carabinieri e le altre
Forze di Polizia a Napoli sono forze di occupazione, estranee alla popolazione,
che avrebbe tutto il diritto di resistere. Quei ragazzi erano per la gente di
Napoli tre bravi figliuoli. Se non si sono fermati all’intimazione dei
Carabinieri è perché si sono spaventati non avendo il casco in testa né
l’assicurazione allo scooter; e se erano per la strada alle tre di notte era
solo per una bravata giovanile in una sera d’estate. I Carabinieri, che non
hanno saputo leggere l’episodio in questo modo, sono da condannare. Essi non
avrebbero dovuto effettuare nessun inseguimento. La loro giustificazione,
secondo cui c’era il sospetto che fra i tre ci fosse un latitante, per i
napoletani è un’assurda pretesa, una squallida bugia, dato che nessuno dei tre
ragazzi aveva ben visibile la scritta “sono un latitante”, come usano in genere
a Napoli i latitanti.
Ironia a parte – ma non si
capisce cos’altro usare per capire questa gente! – le giustificazioni di chi
difende i tre ragazzi, privi di casco, loro, e di assicurazione lo scooter,
sono delle aggravanti. Si può ridurre a ragazzate l’andare in scooter in tre
senza casco in testa? Si può ridurre a cosa da niente l’andare in giro con uno
scooter privo di assicurazione? Si può dire con disarmante nonchalance che per un ragazzo di sedici anni è normale andare in
giro alle tre di notte? Se tutto questo si pretende di farlo passare per cosa
normale, allora Napoli si dichiara fuori dal mondo civile dell’ordine e delle
leggi.
Invece di fare un mea culpa
collettivo i napoletani, ancora una volta, se la prendono con le autorità,
secondo loro, di occupazione. In questo caso non i tre giovani erano al posto
sbagliato al momento sbagliato, ma i Carabinieri. Essi, a quell’ora, dovevano
stare a letto o a giocare a dama in caserma.
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