I diciottisti una volta erano nel
gergo universitario quegli studenti che si accontentavano del 18, il voto
minimo per superare un esame, pur di passare da Italiano uno a Italiano
due; da Analisi uno ad Analisi due e giungere quanto prima alla
laurea. Poi sapeva Dio a chi dare i guai! In verità i diciottisti erano pochi;
la gran parte degli studenti consideravano il 18 un’onta e lo rifiutavano. Ma
quelli di stomaco tosto c’erano, c’erano!
Oggi i diciottisti sono i
difensori dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300 del 20 maggio
1970), quello che obbliga il datore di lavoro al reintegro del lavoratore
licenziato senza giusta causa.
Questa norma appare anche ad un
orbo mentale essere una sacrosanta e irrinunciabile conquista a tutela della
libertà e della dignità del lavoratore. Libertà, perché il lavoratore deve
essere libero di votare partito comunista anche se il suo datore di lavoro è
fascista e direttamente interessato alle votazioni; e viceversa. Ovvio, ho
estremizzato per rendere più chiara l’importanza della norma. La dignità,
perché il lavoratore, licenziato senza giusta causa, riceve un’offesa
universalmente inaccettabile.
Ma, poiché non si vive nell’Iperuranio
ipotizzato da Platone, in tempi di sindacatocrazia e sinistrocrazia – e ci sono
stati, oh se ci sono stati! – un giudice poteva far passare senza giusta causa
un licenziamento più che legittimo e supermotivato. Non stiamo qui ad elencare
tutte le possibili situazioni. I tempi e i luoghi – si sa – dettano legge oltre
la legge. Sappiamo che i datori di lavoro prepotenti ci sono sempre stati e ci
sono; ma sappiamo anche che i giudici di sinistra, cosiddetti democratici, non
ci sono sempre stati, ma sono giunti a partire dalla fine degli anni Sessanta,
in così forte numero da configurare una sorta di invasione. Sicché in forza
dell’art. 18 un imprenditore non poteva praticamente licenziare mai, neppure se
l’azienda era in crisi e occorreva ridurre il numero dei dipendenti, rischio
fallimento. Neppure se un lavoratore era stato colto nel mentre boicottava
l’azienda. Questo spiega perché gli imprenditori e la parte sociale e politica
che li rappresenta se la siano presa tanto con l’art. 18. A maggior ragione
quest’articolo è stato colpevolizzato da cinque anni in qua per la nota crisi
economica e finanziaria che si è abbattuta sull’Italia.
Già nel 2012, col governo Monti e
con la riforma del lavoro del Ministro Fornero, l’art. 18 è stato modificato in
maniera non banale perché al posto del reintegro del lavoratore, ove licenziato
senza giusta causa, sono state previste delle opzioni risarcitorie, a seconda
dei casi. Insomma, invece del reintegro, soldi per un certo numero di
mensilità, fino a ventiquattro. L’indennizzo al posto del reintegro già lo
prevedeva il punto XVII della Carta del Lavoro del 1927 previa conciliazione
tra le parti. Figurarsi che passo…avanti!
Pare – non se ne discuterebbe
tanto altrimenti! – che la riforma Fornero non abbia sortito gli effetti
sperati e che l’art. 18, come un killer imprendibile, una sorta di primula
rossa, continui a mietere vittime nel mondo dell’imprenditoria. Così il governo
Renzi, che è dipendente dal centrodestra come un rimorchio dalla motrice, col
cosiddetto Jobs act – non si capisce
più un cazzo, in quest’Italia che ha rinunciato perfino alla sua lingua! –
vuole addirittura abolirlo. Basta con gli abusi da una parte e dall’altra: gli
imprenditori più liberi di licenziare; i giudici non più liberi di reintegrare.
Contro l’ipotesi abolizione si sono scagliati i difensori, una cospicua parte,
diciamo la sinistra, del Partito democratico; e ovviamente i sindacati,
specialmente la Cgil ,
che oggi ha in Landini, segretario della Fiom, più che nella Camusso,
segretario generale, il portabandiera più agguerrito.
In Italia, come sempre, è sorta
la nuova contrapposizione: diciottisti-antidiciottisti. I difensori del governo
Renzi, che a volte diventano più renziani di lui, per delegittimare le ragioni
dell’opposizione interna, lanciano l’accusa di strumentalizzazione: voi siete
contrari non all’abolizione dell’art. 18 ma al rinnovamento dell’Italia e
sperate di giungere ad una resa dei conti con chi invece è più che intenzionato
a cambiarla quest’Italia. Simile modo di confrontarsi è incivile oltre che
impolitico; ma tant’è, ormai in Italia è cavalleria
rusticana. Se n’è accorto perfino Ferruccio de’ Bortoli, direttore del
“Corriere della Sera” (editoriale del 24 settembre).
Vero è che nel Pd nessuno spera
in una conta, che sortirebbe solo l’effetto di rendere meno vivibile una
convivenza che resta innaturale – ex democristiani ed ex comunisti hanno in
comune solo la particella ex – e dunque le ragioni della sinistra dem appaiono
oneste.
L’art. 18 è qualcosa che va ben
oltre l’ideologia, pur scomodata da chi lo vuole abolire, è una conquista
irrinunciabile. Che poi, sul piano dell’applicazione, possa avere delle
storture o delle forzature, non giustifica la sua abolizione. Quando mai si
abolisce una legge per l’incapacità di applicarla correttamente?
Invece di rispondere, menando il
can per l’aia, chi pensa di risolvere il problema della crisi del lavoro,
dell’occupazione e della crescita abolendo una norma di civiltà e minacciando
gli avversari, farebbe bene a crearlo il lavoro. Ove, infatti, di lavoro ce ne
fosse a sufficienza chi starebbe a battersi per una norma che sul piano pratico
non avrebbe più importanza? Il problema vero è che questo governo, come quelli
precedenti, è incapace di fare una politica di diminuzione delle tasse, di
accesso al credito, di investimenti, di abbattimento delle pastoie
burocratiche, di accorciamento dei contenziosi giudiziari, di tempestivo
pagamento dei debiti da parte delle pubbliche amministrazioni. Incapace di
creare lavoro, il governo se la prende con una norma, che, a questo punto, c’è
o non c’è, conta poco. Se scarseggia la materia del contendere, ossia il
lavoro, abolire l’art. 18, è uno sfregio all’idea stessa di progresso, è un
precipitare all’indietro di quasi un secolo. E per che cosa? Per nulla!
Nessun commento:
Posta un commento