Il Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano ha fatto bene ad incazzarsi di brutto per l’incapacità del
Parlamento di eleggere due giudici della Corte Costituzionale e due membri del Consiglio
Superiore della Magistratura. Di fronte all’indecoroso spettacolo offerto da un
parlamento riottoso è doveroso che un presidente della repubblica si adiri. Ma
occorre anche saper inserire il fenomeno nel più vasto quadro della situazione
italiana quale si è determinata in questi ultimi due-tre anni. Giusto per
capire!
Il Parlamento che fuma nero per
tredici volte è lo stesso Parlamento che non riuscì nell’aprile del 2013, poco
meno di un anno e mezzo fa, ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica,
offrendo uno spettacolo altrettanto indecoroso con le fumate nere per Marini e
per Prodi. Saremmo tentati di dire, senza per questo mancare di rispetto a
Napolitano, a cui vogliamo sinceramente bene, che la sua elezione formale fu
una “non elezione” politica. Un altro Parlamento avrebbe votato senza problemi
il nuovo Presidente e Napolitano oggi starebbe mettendo a punto memorie e
riflessioni.
La questione, perciò, come
sempre, è politica. Cosa c’è dietro la riottosità del Parlamento, o per lo meno
di chi, nel segreto del voto, impedisce l’elezione dei membri mancanti a due
delle più importanti istituzioni nazionali? A noi sembra ci sia la volontà di
rivendicare un diritto, che è una funzione imprescindibile in una democrazia,
quella di legiferare nel pieno delle competenze riconosciute dalla
Costituzione. Votare le persone indicate dai leader politici su loro diktat, in
ossequio ad un patto, quello del Nazareno, che nessuno conosce, tranne i due
diretti interessati, è l’occasione propizia, forse irripetibile, per dire no,
basta, vogliamo contare per quello che la superiore legge dello Stato ci
riconosce; non possiamo essere parlamentari usa e getta. I veti, neppure tanto
in filigrana, non sono a Violante e a Bruno, ma a Renzi e a Berlusconi.
Posta così la questione, appare
di tutta evidenza che ormai a livello di partiti c’è una sorta di ammutinamento
nei confronti dei loro capi, per ora contrastato dai loro fedelissimi. Un
ammutinamento vile, subdolo quanto si vuole, ma “à la guerre comme à la guerre”. Semmai c’è da chiedersi: perché si
è giunti a tanto, mentre il Paese boccheggia ed è esposto al ludibrio
internazionale, con le oche del Campidoglio che starnazzano e più che
richiamare l’attenzione di chi deve difenderlo richiamano l’attenzione di chi lo
deride oggi, e forse domani lo minaccia?
Matteo Renzi dice spesso che lui
in certe cose mette la faccia. Non so cos’altro potrebbe mettere, se per faccia
intende la dignità della persona e del ruolo pubblico che ha. Ma gli altri non
hanno faccia? Non hanno dignità? Per lui, evidentemente, gli altri non contano
niente. Incapaci, inconcludenti, gufi, rosiconi, parlano per avere visibilità,
esistono solo per fare da contrappunto al suo mercuriale agitarsi e muoversi
sulla scena.
Renzi ha bisogno non di collaboratori
e di amici alleati, ma di avversari, acidi preferibilmente; e quando non ce ne
sono alle viste lui se li inventa. Quale politico dice ai partner che se
vogliono la guerra avranno la guerra? Un politico che si rispetti cerca di
evitarla la guerra, di evitare i contrasti; cerca alleanze, consensi. Lui i
consensi li cerca in un elettorato che finora si è dimostrato riconoscente nei
suoi confronti per l’elargizione degli ottanta euro in saccoccia e perché non
vede altro cui aggrapparsi.
Il suo muoversi sulla scena
ricorda certe opere dello scrittore latino Plauto e il suo metateatro, quando
il protagonista ammicca agli spettatori con cenni di intesa, come a dire: mo’
vi mostro io cosa combino a questi fessacchiotti. Renzi pensa ai fessacchiotti
della scena e ai fessacchiotti della platea. Gli uni – secondo lui – più
fessacchiotti degli altri.
Non so se incominci a rendersi
conto che la festa sta andando verso l’epilogo. Sta di fatto che nel Pd se ne
sono accorti e gli stanno prendendo le misure. Non c’è ancora una presa di
posizione definita e compatta. Si procede occasionalmente e in ordine sparso.
Oggi D’Alema, qua Bersani, là la
Bindi e via di seguito. Ma, pur nella preoccupazione di non
commettere passi falsi, che potrebbero essere politicamente letali, ognuno sta
ipotizzando scenari diversi da quelli attuali. Di recente Matteo Orfini, un habitué del cambio di casacca, volto da
cospiratore ottocentesco – l’ho sentito con le mie orecchie a Taurisano qualche
giorno fa in un pubblico incontro – ha detto che se il governo fallisce
nell’impresa delle riforme la colpa è del Pd, perché è il Pd che si è fatto
l’intero carico dell’impresa. Un’esagerazione, perché tutti sanno che il
governo va avanti con l’alleato interno del Ncd e con quello esterno, per le riforme
istituzionali, di Fi. Ma, come tutte le esagerazioni, anche quella di Orfini
nasconde qualcosa, nasconde la testa di Renzi. Perché se il governo fallisce, è
scontato che tutti cercano la sua faccia, quella che lui ci mette ad ogni piè
sospinto.
In casa di Fi le cose stanno
anche peggio. Credo che ormai tutti, anche i berlusconiani più fedeli si stiano
rendendo conto di essersi messi su una strada che non ha sbocchi. Il
disobbedirgli in maniera così insistita, a proposito dell’elezione dei membri
mancanti della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della
Magistratura, è la prova provata che ormai l’ex Cavaliere non dispone più
neppure della forza politica del centrodestra rimasto dopo l’uscita di Alfano e
amici. Fitto, che continua a dire che lui non lascerà il partito, dimostra
anche con il suo dissenso di non riconoscere più il suo leader storico.
Per tornare a Bomba. Napolitano
si arrabbia, ma la situazione della quale in un certo senso è padre e figlio, è
quella che è. Una situazione che somiglia ad una rete attraverso la quale i
pesci entrano ed escono e c’è il rischio che tirata su lasci a mani vuote i
pescatori, che siamo noi, popolo italiano, alla fin fine.
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