domenica 23 novembre 2014

Femminismo e giornali: adeguare la lingua alla realtà


Il motivo di fondo che ha legato ben sei interventi al seminario tenuto a Lecce, Palazzo dei Celestini venerdì, 21 novembre, dall’Associazione nazionale “Giulia Giornaliste” e dall’Ordine di Puglia, nell’ambito della Formazione Professionale Continua, cui gli Iscritti sono tenuti, è stato il femminile nel mondo dei media, cartacei e web.
Non c’è dubbio che l’avanzata delle donne nella società, in ogni settore fino a qualche decina di anni fa a loro precluso, pone dei problemi alla lingua italiana. Come chiamare il Presidente della Camera quando è una donna? Come chiamare il ministro? Come il preside di una scuola, il direttore, l’avvocato, il notaio, il consigliere quando sono donne? La stampa è chiamata a dare l’esempio, a tracciare il solco, non solo e non tanto per giungere ad una sorta di uniformità lessicale, che sarebbe lesiva della libertà e costituirebbe un impoverimento linguistico, quanto per non contrastare un processo in corso andando contro la realtà. 
La questione della lingua è forse la più antica delle questioni italiane. Essa si ripropone ogni qual volta c’è una sorta di trasformazione sociale e antropologica importante, come indubbiamente è l’attuale con l’ingresso sempre più massiccio delle donne nel mondo delle professioni, del lavoro e della politica.
Nilde Jotti, Presidente della Camera dal 1979 al 1992, voleva essere chiamata presidente e non presidentessa, accontentandosi dell’articolo davanti a presidente per la precisazione di genere. Anche la Boldrini oggi è dello stesso parere. In tanti altri casi l’articolo non basta, non accontenta. Occorre proprio dire ministra e non ministro, direttora, avvocata, magistrata, notaia e così via. Si rifiuta perfino “direttrice”, che è troppo dipendente dalla vecchia grammatica. Le donne rivendicano una desinenza di genere, specifica, inconfondibile. La lingua deve adeguarsi alla realtà.
Non si può dar loro torto. E nessuno glielo dà. Oltre tutto non serve. Né, a dire il vero, si tratta di dare torto o ragione. Comunicare significa servirsi di un codice condiviso per farsi comprendere in maniera semplice, compiuta e immediata. Già più di due secoli fa Melchiorre Cesarotti, nel suo Saggio sopra la lingua (1785), sosteneva che la lingua deve essere inclusiva delle novità, deve adeguarsi alla realtà per come questa si evolve. La componente dinamica della lingua che riguarda il lessico segue la realtà, a differenza della componente statica che è la grammatica e dell’estetica che è personale di chi scrive e parla.
Non sempre tuttavia è così facile e scontato. Nel caso per esempio dell’espressione “il politico italiano” si capisce subito che si tratta dell’uomo politico. Ma se io dico “la politica italiana” non si capisce davvero che il riferimento è a una donna; piuttosto alla politica in genere. In questo caso per non venir meno alla parità di genere bisognerebbe proprio dire “la donna politica italiana”, con ciò venendo meno però al criterio dell’economicità della comunicazione, che vuole l’impiego del minor numero di parole possibile per comunicare qualcosa.
Dai vari interventi di relatrici e relatori, tutti con qualche vena di rivendicazionismo, si è capito una cosa, in parte condivisibile e in parte no. Le femmine vorrebbero come gli illuministi nel Settecento rivedere lo scibile; gli illuministi alla luce della ragione, le femmine alla luce della lingua al femminile. Non c’è dubbio, nemmeno qui, che c’è un universo di espressioni che pone la donna in posizione penalizzante. Non solo e non tanto – qui la pena è addirittura pacchiana – “tutte le donne sono …”, espressione dalla quale si è partiti nel seminario, quanto anche da più innocenti e coloriti stereotipi, del tipo “moglie e buoi dei paesi tuoi”, altro punto di partenza nel seminario.
Qui, in verità, il discorso si fa meno condivisibile. Appare manifesto un certo fondamentalismo. Non si può, infatti, rinunciare a tutto un patrimonio lessicale, che riproduce e ripropone saggezza, cultura, filosofia, specialmente della realtà popolare nei millenni, solo per non commettere “atti impuri” di presunto antifemminismo. Si dovrebbe rivedere lo scibile e cancellare tutto ciò che “offende” la donna. Ma qui il repulisti sarebbe veramente assurdo: tanta letteratura antica e moderna dovrebbe essere mandata al rogo, stile nazionalsocialista. Sarebbe il trionfo di una controriforma che mette le brache ai nudi del Rinascimento.

Sono convinto che certi processi non si possono né frenare né accelerare. La femminizzazione del linguaggio è un processo in corso, che segue il trasformarsi della società. Come l’acqua anche la lingua scava e trova il suo percorso. Lo fa in maniera spontanea, al di là di resistenze degli oppositori e di forzature dei favorevoli. Avrei dovuto dire degli oppositori e delle oppositore, dei favorevoli e delle favorevoli, giacché il femminismo della comunicazione rifiuta la grammatica che impone il maschile plurale a due  vocaboli di diverso genere. Ma si può appesantire la comunicazione con simili inutili ripetizioni, solo per tenere contente le donne? Io credo che prima o poi saranno proprio le donne a rendersene conto.

Nessun commento:

Posta un commento