domenica 17 ottobre 2010

Ahi Serbia Italia...

E’ assai sconveniente in democrazia procedere per elogi sommari o condanne indistinte; modo tipico delle dittature. L’impresa compiuta dai tifosi serbi, in occasione della partita di calcio Italia-Serbia a Genova di martedì 12 ottobre, valida per la qualificazione alla fase finale degli Europei del 2012, è senz’altro da condannare sul piano sportivo e civico. Non si va allo stadio per mettere in atto comportamenti tali da impedire il normale svolgersi della gara fino al punto da minacciare l’incolumità dei calciatori e di migliaia di tifosi e spettatori; e poi mettere a ferro e a fuoco una città. Quei bravacci e delinquenti andavano affrontati sul “campo” e non lasciati fare per aspettarli poi per un pestaggio che aveva tutto il sapore della vendetta postuma.
Probabilmente in qualche altro paese europeo si sarebbe proceduto diversamente: con gli idranti, coi cani, con qualche carica, dopo aver invitato gli “estranei” ad allontanarsi da quel settore-gabbia. Noi invece abbiamo lasciato che un energumeno lavorasse tranquillamente con la tronchesina a tagliare la rete di protezione per poter poi lanciare petardi e bengala sul terreno di gioco come se fosse un operaio chiamato a fare delle riparazioni. Siamo in Italia, che diamine! Appena una ventina di poliziotti, fra cui alcune donne, a fare la guardia davanti alle due porte della rete di protezione. Intorno alla statua del Santo Patrono durante la processione se ne vedono di più. Ci è andata di lusso che quelli erano già soddisfatti della dimostrazione. Fossero entrati sul terreno di gioco, chissà che cosa sarebbe successo.
Dicono testimoni che i tifosi italiani erano perquisitissimi all’ingresso dello stadio, che ad un bambino che voleva portare con sé una bottiglietta di acqua gliel’avevano impedito. I tifosi serbi, invece, erano attrezzatissimi di tutto. Spiegazione ufficiale: erano talmente pericolosi per quello che avrebbero potuto continuare a fare in città che erano stati fatti entrare tutti nello stadio in fretta e furia. Vigilanza, insomma, zero. E zero vigilanza perfino alla frontiera, dopo che qualche giorno prima gli stessi tifosi avevano dato l’assalto al Gay Pride di Belgrado, provocando numerosi feriti. Spiegazione ufficiale: la polizia serba non aveva informato quella italiana della presenza tra i tifosi di elementi pericolosi. Siamo alle comiche. Polizie efficienti avrebbero impedito, quella serba di farli uscire; quella italiana di farli entrare, pur in difetto di informazioni preventive.
Giustamente le autorità calcistiche europee hanno fatto sapere che a termini di regolamento anche l’Italia è responsabile di quanto è accaduto. Saranno diverse le sanzioni, ma sanzioni ci saranno pure per l’Italia. E intanto non si è svolta la partita, circa centomila euro di danni allo stadio ed una figuraccia dell’Italia in mondovisione. E dire che ci proponiamo per organizzare Olimpiadi e Mondiali!
Questo è un aspetto. Ne vogliamo esaminare separatamente altri? Un altro è l’opportunità mediatica colta dai tifosi serbi per qualcosa che col calcio non ha niente a che fare. Nazionalisti ed estremisti volevano portare davanti ad una vasta platea il problema del Kossovo. Lo stesso energumeno, battezzato dai media italiani, in cerca sempre di personaggi da mitizzare, Ivan il Terribile, aveva tatuato sul braccio fra le altre cose una data, 1389, l’anno di una famosa battaglia dei Serbi cristiani per arginare l’invasione balcanica dei Turchi mussulmani, una sconfitta per la cristianità, ma rimasta nella tradizione serba come una data sacra. Ma neppure questa ragione può giustificare i comportamenti dei tifosi serbi. Uno stadio non è il luogo per fare dimostrazioni simili, certo non per scatenare una guerriglia, inscenare proteste violente e impedire che si svolgesse un evento sportivo per un evento politico. L’obiettivo è stato rggiunto, ma è stato controproducente.
Un terzo aspetto, che non è meno importante degli altri due e che dal secondo discende, è appunto politico. Oggi il Kossovo è stato dichiarato stato indipendente sotto la protezione della Nato e dei nostri soldati. Gli abitanti di etnia albanese mussulmana ne stanno combinando di tutti i colori, fino a distruggere chiese secolari, testimonianze di civiltà, a violare e distruggere tombe, a perseguitare la gente serba, lì ormai in minoranza. Si dirà: loro ne hanno subite tante dai Serbi nel corso di alcuni secoli. E allora, che facciamo? Ieri a noi ed ora a voi? E le grandi organizzazioni politiche e militari si prestano a favorire forme di revanscismo selvaggio?
L’Italia, peraltro, fu tra gli stati che nel 1999 bombardarono la Serbia, in seguito agli ultimatum dell’Onu, ed è stata tra le prime a riconoscere l’indipendenza del Kossovo. Si può essere d’accordo o meno con le ragioni dei Serbi, ma non si può non riconoscere che le loro ragioni sono comunque da rispettare. Invece, da parte della stampa italiana, si è fatto di ogni erba un fascio e la condanna è stata sommaria e totale in un mix di tifo calcistico, delinquenza comune ed estremismo politico.
La gran parte dei nostri commentatori, sempre pronti ad adeguarsi al vento che tira, hanno scritto che i nazionalisti serbi, rivendicando il Kossovo, perseguono obiettivi antistorici, senza peraltro spiegare perché “antistorici”. Le ragioni dello spirito non sono soggette a scadenza e valgono assai di più di quelle del corpo. Queste sì soggette a scadenza: riempita la pancia si può andare a dormire.
Siamo forse noi antistorici quando chiediamo che la scuola di Adro, nel Bresciano, torni ad intitolarsi ai Fratelli Dandolo, eroi del Risorgimento, dopo che era stata intitolata al professor Gianfranco Miglio? O non è legittima difesa di una identità storica e politica insieme? E che cosa diremmo noi se ad un certo punto, in seguito a sommosse e a guerre civili, venissero da fuori, armati di tutto punto, e ci imponessero questa o quella regione come indipendente? E permettessero che monumenti e tracce di italianità venissero cancellati dai nuovi padroni?
Stupisce e indigna in questo paese la superficialità di tanti intellettuali che non riescono, per difetto d’intelligenza, per opportunismo o per viltà, a capire che ci sono anche le ragioni degli altri e che queste vanno analizzate e rispettate piuttosto che incartate e buttate come pesce putrido.
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