domenica 2 maggio 2010

Pasolini: il dubbio e la verità

Premesso che ci sono cose nella vita talmente grandi che finiscono per non appartenere più ai loro “proprietari”, materiali o morali che siano, non si può mai rinunciare alla difesa della più piccola verità e al rispetto di tutti i suoi protagonisti.
Facciamola breve: la morte orribile di Pasolini nella notte tra l’uno e il due novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia, i processi che ne seguirono e soprattutto le polemiche sulle strategie difensive e sui presunti complotti, hanno adombrato, a volte anche pesantemente, non meglio definite accuse nei confronti dell’avv. Rocco Mangia, difensore unico del giovane allora diciassettenne Pino Pelosi, detto “la rana”, reo confesso del delitto. Accuse non esplicitate ma sospese nella “dispositio” dei servizi giornalistici e televisivi, con informazioni e domande efficacemente rivolte verso una verità come rigagnoli d’acqua verso il canale di gronda.
Da allora, periodicamente si torna sul caso Pasolini, in specifico sulla sua morte, per avvalorare l’ipotesi del complotto, sempre esclusa dalla verità processuale, e per chiedere la riapertura del caso, benché la sentenza definitiva sia stata chiara: “E’ estremamente improbabile che Pelosi abbia potuto avere uno o più complici”; e benché il caso, più volte riaperto, sia stato chiuso senz’altro, l’ultima volta nel 2008.
Alla ciclicità di interesse per il caso Pasolini si giunge per due motivi: primo, il fatto che Pasolini, essendo quel grande intellettuale che indiscutibilmente fu, non poteva morire in maniera così banale, vittima delle sue stesse avventure erotico-esistenziali; secondo, ad affacciare l’attendibilità di una tesi diversa da quella uscita dai processi concorre il continuo ritorno dell’unico accusato e condannato, il Pelosi appunto, che cerca quasi di mungere attenzione mediatica e probabilmente qualcos’altro con rivelazioni, che finora sono rimaste sempre indimostrate.
Sul primo motivo si spese fin dal primo momento tutto l’ambiente politico-culturale di sinistra, da Alberto Moravia, il quale disse pubblicamente che un poeta come Pasolini non poteva fare la fine che gli veniva attribuita, ad Oriana Fallaci, che in aula affermò di avere le prove del complotto, rischiando di essere arrestata quando si rifiutò di esibirle. Quanto al secondo motivo, sono i mass media ad insistere, per comprensibili motivi, a rifare il processo nelle aule di giustizia perché poi questo alimenterebbe il processo nei loro salotti.
Di recente – e siamo a quasi trentacinque anni da quel disgraziato 2 novembre del 1975 – si è tornati sul caso, con alcuni importanti interventi. Tra cui, per citare i più recenti, quello di Walter Veltroni con una lettera al Ministro di Giustizia Alfano per chiedergli di riaprire il caso (“Corriere della Sera” del 22 marzo); e quello della trasmissione “Chi l’ha visto?” di lunedì, 19 aprile su RaiTre. A parte quello di Veltroni che con molto garbo chiede di riaprire il caso perché “la scienza oggi può dirci la verità” su alcuni non irrilevanti dubbi mai definitivamente e completamente fugati, gli altri tornano ad insinuare che l’avv. Mangia, già difensore dei mostri del Circeo e di altri imputati dell’estrema destra, fosse stato proposto al Pelosi per impedire che gli avvocati d’ufficio impostassero la sua difesa non sulla sua dichiarata esclusiva colpevolezza ma sull’ipotesi del complotto, come gli avvocati di parte civile, Calvi e Marazzita, volevano. Insomma, per far passare l’idea che quella dell’avv. Mangia non fu un impegno deontologicamente ineccepibile, ma un’operazione politica per evitare che si giungesse ad una verità scomoda al Palazzo, siccome il penalista salentino apparteneva all’ala più conservatrice della Democrazia Cristiana romana. Fin dal primo momento, dunque, sul corpo martoriato di Pasolini s’ingaggiò una violenta battaglia politica “a prescindere”, dall’ipse dixit di Moravia all’io so ma non dico della Fallaci.
Da allora l’avv. Mangia, nel frattempo scomparso (ottobre del 2000), originario di Taurisano e all’epoca del delitto Pasolini già celebre penalista a Roma, viene attaccato in maniera subdola per aver fatto esclusivamente il suo dovere professionale senza farsi condizionare dalla grandezza del personaggio e dall’enorme clamore del caso. Fermo restando che ognuno è libero di avere le sue idee e coerentemente osservarle nel rispetto delle situazioni e degli uomini. Se questo vale per Calvi e Marazzita, perché non dovrebbe valere per Mangia?
Ora, è sicuramente condivisibile che non si smetta mai di cercare la verità su Pasolini. E’ perfino comprensibile che, per l’enormità del personaggio in questione, non si smetta mai di nutrire dei dubbi. Ma non è ammissibile che si debba continuare a gettare discredito su chi ha fatto, nel caso in questione, solo il suo sacrosanto e civilissimo dovere. L’avv. Rocco Mangia lo fece con quella passione, che, come possiamo vedere ogni volta che un avvocato difende un accusato di un crimine orribile, lo rende inviso ad una parte dell’opinione pubblica. Così è stato in tempi recenti per delitti come quello del bambino di Cogne, della ragazza di Garlasco, della strage di Erba, della giovane Meredith Kercher a Perugia; e come accadrà tutte le volte che l’opinione pubblica è emotivamente partecipe di un processo. Nel caso Pasolini, poi, sono in gioco contrapposizioni ideologiche, tanto irriducibili quanto inestinguibili, come dimostra lo studio più completo ed obiettivo sul caso Pasolini fatto dallo scrittore americano Barth David Schwartz nel 1995 significativamente intitolato “Pasolini Requiem”.

[ ]

Nessun commento:

Posta un commento