domenica 16 maggio 2010

Due-tre cose sull'Università del Salento

Prima cosa. Una volta l’Università del Salento si chiamava Università di Lecce. Così è nel mio diploma di laurea conseguito nell’aprile del 1973; così fino a pochissimi anni fa. Quell’Università non esiste più. Sotto il profilo giuridico nulla da eccepire: il soggetto è lo stesso, ha solo cambiato nome. Sotto il profilo politico e culturale è un’altra cosa. Prima di tutto non è più di Lecce, ma del Salento; il cambio non è senza significato. La nuova dicitura indica una pluralità di sedi, con alcuni corsi di laurea espatriati, per ora solo a Brindisi, nel nome del Grande Salento. Entità, questa, che non si sa bene se geografica o politica. Peraltro, già a Lecce, l’Università è dispersa in tante sedi diverse, fatta a pezzi e sparpagliata. Inevitabile, del resto, data la crescita. Ma ha perso il suo fascino e la sua funzionalità. Molte di queste sedi sono in locali adattati e perciò inadeguate, dove invece di aule o uffici universitari potrebbero esserci uffici delle case popolari o della previdenza sociale. MacLuhan diceva che il mezzo è il messaggio. Mi piace dire, da insegnante, magari anche esagerando, che la sede è la scuola.
Seconda cosa. L’intitolazione. Sembrava quasi che non ci fosse alternativa alla proposta del Prof. Pankievicz di intitolarla a Giuseppe Codacci Pisanelli, tra i fondatori e primo rettore dell’Università. E invece l’amico Mario Carparelli, ricercatore di filosofia, ha lanciato la proposta su facebook di intitolarla a Giulio Cesare Vanini (1585-1619), filosofo di Taurisano, condannato al rogo per ateismo dal Parlamento di Tolosa, uno degli autori salentini più famosi al mondo, proprio per la vicenda biografica che lo innalza ai livelli di Giordano Bruno e di altre eccellenti vittime del potere politico e religioso.
Benché Vanini sia mio concittadino e nel mio esercizio giornalistico io operi all’insegna del suo motto “Fraudes detegere – figmenta patefacere” (scoprire le frodi – svelare gli inganni), non mi dico d’accordo, per alcune considerazioni. Non mi sorprenderebbe se ora venissero fuori altre proposte, che so, Quinto Ennio, il Galateo, l’Ammirato, qualche bella figura degli Altavilla, e doversi bisticciare a difesa di un campanile o di un improbabile remoto riferimento politico. Credo, invece, che un’istituzione importante come l’Università debba avere il nome e i simboli del suo tempo. Giuseppe Codacci Pisanelli, pur con tutte le obiezioni del mondo, resta un nome a cui è difficile contrapporne un altro a saldo, per quanto meritevole possa essere l’altro.
Terza cosa. Lo spettacolo che Rettore e Presidi da una parte ed esponenti del governo nazionale dall’altra stanno dando in questi giorni a causa dei tagli finanziari, previsti in ragione dei criteri selettivi, lascia quanto meno perplessi. Il livello dello scontro è biasimevole per l’una e per l’altra parte, sia per toni che per argomentazioni.
Il Rettore Domenico Laforgia e alcuni Presidi, chiamati in causa (Strazzeri, Invitto, Dattoma), dicono che hanno già tagliato tutti gli sprechi tagliabili. Il ministro Raffaele Fitto e il sottosegretario Alfredo Mantovano ribattono, indicano le cattedre-doppioni e suggeriscono una politica universitaria di contenimento delle cattedre umanistiche, i cui laureati non sono richiesti nel mercato del lavoro, almeno non nel numero che quelle cattedre producono. Si controbatte dicendo che l’Università non è una scuola professionale e che deve dare a tutti l’opportunità di studiare in libertà d’indirizzo e di scelta a prescindere dal mercato del lavoro. Si controcontrobatte accusando chi difende una simile Università di essere fuori dal mondo e che chiedere soldi per soddisfare capricci personali è assurdo in un momento in cui le vacche sono più magre di quelle sognate dal Faraone d’Egitto e l’Europa attraversa una crisi finanziaria piuttosto grave.
E’ un dibattito serio, questo? Si assiste piuttosto non ad un concorso di forze per aiutare l’Università, che versa in cattive condizioni, non solo di soldi, ma ad un concorso di forze per danneggiarla, sia pure con intenzioni e metodiche diverse. Da una parte si vuole mantenere i rami secchi fino a quando non fanno seccare anche il tronco verde; dall’altra si vorrebbe colpire l’albero dove para-para, tanto un ramo vale l’altro.
E’ di tutta evidenza che non si può da un giorno all’altro azzerare tutte quelle situazioni ormai consolidatesi che hanno fatto dell’Università un luogo d’irresponsabilità culturale e finanziaria: cattedre fantasiose, insegnamenti con pochissimi studenti, altri con elargizioni di voti per intercettare il favore degli stessi, corsi corsini e corsetti “profumo”, che comunque costano danaro e via di seguito. Ma non si può neppure tollerare che un simile atteggiamento dai rappresentanti dell’Università venga considerato giusto anche in prospettiva nonostante i fallimenti prodotti.
Da parte loro i due autorevoli rappresentanti salentini del governo sbagliano a rapportarsi con chi rappresenta l’Università come se questi fossero degli avversari politici. Sembrerebbe quasi che gliela vogliono far pagare per qualche “torto” subito. La sconfitta alle Regionali?
Di certo c’è che né gli uni né gli altri intendono trovare un punto di accordo e che tutti puntano al commissariamento, palleggiandosi per ora le responsabilità.
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