domenica 20 settembre 2009

Afghanistan, dolore e verità di Gigi Montonato

Quanto è accaduto a Kabul, con la morte di sei nostri militari, in seguito ad un attacco kamikaze da parte dei talebani, fa prevalere in noi dolore ma anche verità. Dolore per i nostri caduti, verità sulla causa per la quale essi sono caduti; per la quale noi ci siamo impegnati al cospetto della comunità internazionale.
Quanto è accaduto ai nostri paracadutisti della Folgore era nell’ordine delle cose fin da quando il governo italiano ha deliberato di partecipare alla normalizzazione dell’Afghanistan dopo l’abbattimento del regime dei talebani.
Con le sei vittime di giovedì, 17 settembre, sono 21 i nostri caduti in Afghanistan dal 2001. Nella triste classifica noi veniamo dopo Stati Uniti (836), Gran Bretagna (216), Canada (130), Germania (35), Francia (31), Danimarca (25), Spagna (25), Olanda (21). A questi si aggiungono altri 63 morti di altre nazioni per un totale, ad oggi, 18 settembre, di 1.403 vittime di guerra. E purtroppo tutto lascia pensare che questo numero aumenterà, perché si può chiamare come si vuole una campagna armi in pugno, nella realtà si risolve sempre in combattimenti e morte. Poi questi possono avvenire in forme convenute e codificate o fuori da ogni regola e convenzione; non è la forma in guerra ciò che conta, specialmente quando si tratta di guerre asimmetriche, cioè insostenibili da una delle due parti con l’accettazione delle regole concordate.
La causa prioritaria, direi fondamentale, cui l’Italia partecipa insieme con altri Stati, non è di rendere liberi e democratici quei paesi in cui non c’è né libertà né democrazia. Nel mondo ce ne sono tanti altri, oltre all’Afghanistan, coi quali la comunità internazionale mantiene normali rapporti culturali, politici ed economici. Se l’Afghanistan non costituisse una minaccia al nostro mondo, attraverso gli attacchi della sua rete terroristica internazionale, potrebbe stare tranquillo nei suoi confini e partecipare alla vita civile insieme con tutti gli altri paesi del mondo. Ma l’Afghanistan è oggi il paese leader del radicalismo islamista e minaccia il mondo occidentale, abitato da pagani e infedeli, cioè noi in casa nostra.
La causa vera della nostra presenza in quel paese, perciò, è di garantire la nostra sicurezza dopo che Al Qaeda ha esportato il suo terrorismo nel mondo in un crescendo di gravità in questi ultimi anni, fino all’acme dell’11 settembre 2001, quando ha portato il più grave attacco nel cuore del più grande paese democratico del mondo. Noi in Afghanistan combattiamo per difendere noi stessi, attraverso l’eliminazione della minaccia terroristica. Questo è possibile solo attraverso la creazione in quel paese di uno stato di normalità, cui noi prestiamo la nostra organizzazione militare e politica e il nostro modello istituzionale.
Una volta ad un simile obiettivo si giungeva attraverso una guerra totale, definitiva, con la conquista del territorio e l’annientamento della popolazione fino a ridurla nelle condizioni di non poter più nuocere, mettendo a capo di quel paese un Quisling, secondo un modello collaudato dai romani ai nazisti. Ma oggi questo non è più possibile e perciò si sceglie la forma mista, volgarmente riducibile alla formula del bastone e della carota, cioè all’annientamento della componente armata e al convincimento della componente civile, per giungere alla creazione di uno Stato autonomo ma amico. E’ quanto si cerca di fare in Iraq e in Afghanistan. Che questa sia la sola strada percorribile e la più giusta è vero come è vero che è anche la più equivoca, lunga e accidentata.
Oggi si discute fino a quando le forze internazionali resteranno in Afghanistan. Già, fino a quando? Si dice fino a quando in quel paese non ci sarà un governo che sappia far fronte da solo al mantenimento dell’ordine e della legge. Che significa: mai. Perché l’islamismo radicale, che in Afghanistan ha una delle centrali più importanti, non rinuncerà mai alla sua guerra santa.
Questo vuol dire che la condizione transitoria in Afghanistan finirà per trasformarsi in uno stato di ”normale” continua guerriglia, cui i soldati della coalizione internazionale sono “normalmente” continuamente esposti. Italiani o di altri paesi della coalizione, essi rischiano la vita per la sicurezza dei loro paesi, dei loro connazionali in patria. Questo, purtroppo, è il prezzo pagato, da pagare.

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