In questo nostro Paese, lasciato
allo spontaneismo più diffuso e alle iniziative più strampalate ed
estemporanee, accade di tutto; c’è da aspettarsi di tutto.
A Pontoglio, comune in provincia
di Brescia, il Sindaco di centrodestra Alessandro Seghezzi, ha aggiunto sotto le
due targhe d’ingresso al paese una terza targa, in cui si avvisa che trattasi
di «Paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana» e che «Chi
non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad
andarsene». Già la seconda targa traduceva Pontoglio in “Pontoi”, a dire che in
quel paese si è bilingui, italiano e dialetto bresciano, da intendersi, questo,
di pari dignità comunicativa. E’ come se all’ingresso del mio paese, Taurisano,
si aggiungesse una seconda targa per tradurlo nel dialetto “Tarusanu”. E
perché, poi? L’italiano ci va stretto? Sarebbe forse assai più opportuno che
questi neonazionalisti di Pontoglio e dintorni curassero di più l’italianità
del loro essere geografico, politico e culturale, invece di chiudersi nelle
gabbie dell’incomprensione.
Ma, dopo le prese di posizione di
sconsiderati dirigenti scolastici di impedire a scuola lo svolgimento delle
tradizioni natalizie cristiane per non offendere chi cristiano non è, ma, senza
ipocrisie, in riferimento esclusivo ai musulmani, c’era da aspettarsi che alle
cretinate di una parte si contrapponessero cretinate dall’altra. Anzi, doppie
cretinate.
Errore rinunciare alle proprie
tradizioni, millenarie, nella presunzione o nella paura di offendere degli
stranieri, i quali non hanno mai chiesto finora di non essere offesi, né si
sono mai lamentati di esserlo stati da un presepe o da un concerto di canti
natalizi. Perché creare un problema quando non ne esistono i presupposti? Già, perché? Perché si è fessi! Verrebbe di
dire.
Ancor più grave – e qui mi
riferisco al Sindaco di Pontoglio – quando dai ad intendere di avere tu un
problema dalla presenza di migranti, i quali hanno tutto il diritto di essere
musulmani o d’altro credo. Non solo il problema non esiste, ma inventarselo per
angustiarsi e minacciare è ancora più da fessi.
Ricordo che tra gli anni
Cinquanta e i Sessanta del Novecento l’Europa era piena di migranti italiani.
Ce n’erano in Svizzera, in Francia, in Germania, in Olanda, in Belgio. E nella
maggior parte erano lombardi, emiliani, friulani, veneti. C’erano pure i
meridionali, i quali finirono per essere chiamati “cìncali” omologati ai
settentrionali che, giocando a morra nei ristoranti, si facevano notare per
come pronunciavano il cinque: <cinq>.
Per cui tutti gli italiani erano <cìncali>,
un diminutivo per indicare piccoli italiani; come noi abbiamo chiamato anni
addietro i <vu’ cumprà>,
dall’approccio con cui i venditori ambulanti di origine africana si
proponevano.
A scuola nei primi anni Sessanta –
frequentavo la scuola pubblica a Berna – nella mia classe c’erano un campano
della provincia di Avellino, due salentini (io e un ragazzo di Aradeo) e un
piemontese della provincia di Alessandria. Nell’ora di religione, che cadeva
nella prima di ogni lunedì, noi cattolici entravamo un’ora dopo, perché la
religione che si osservava in quella scuola era protestante. Nessuno si sentiva
offensore e nessuno si sentiva offeso.
E’ ben vero che noi italiani rispettavamo
tutto quello che c’era da rispettare, pubblico e privato; e gli svizzeri nei
nostri confronti erano tolleranti nella rigorosa tutela delle loro cose, morali
e materiali. La cultura, quando non è solo somma di saperi e di nozioni, aiuta
e anzi promuove la convivenza.
Ora gli italiani del Nord si sono
arricchiti, stanno bene, molto meglio di quelli del Sud – a parte qualche
problema economico passeggero – si sono insuperbiti, hanno la puzza sotto il
naso, dicono allo straniero: se non rispetti il mio Dio te ne vai. Fino a ieri
o all’altro ieri certe cose le dicevano perfino a noi meridionali: non si
affittano camere ai meridionali.
C’è in questa gente, per molti altri
aspetti ammirevole, una sorta di tendenza ad una giustizia fai da te, ad un
rifiuto di accettare le regole della nazione, che non può ragionare in alcun
modo come il sindaco di Pontoglio. Lo Stato interloquisce con altri Stati, deve
porre domande e deve dare risposte assai più importanti e responsabili.
Si dirà: oggi esiste un problema,
che è sbagliato far finta che non esiste; ed è quello di una società che va
sempre più multiculturalizzandosi senza una guida sicura da parte delle
istituzioni. Voglio dire che l’immigrazione è un fenomeno molto serio, sia per
i risvolti economici sia per quelli politici e culturali. Sarebbe una tragedia
se diventasse serio anche per l’ordine pubblico.
Quale indicazione dà lo Stato per
gestire il processo senza che questo se ne vada per sue direzioni? Nessuna.
Nella più bella tradizione italica si lascia che tutto scorra spontaneamente.
Non so se si tratti di una scelta calcolata o di una condizione immodificabile
o inevitabile. Sta di fatto che lo Stato, mentre lascia che l’immigrazione
faccia il suo corso senza alcun limite e senza alcun freno, non aiuta né le
nostre istituzioni né i cittadini ad accogliere i migranti; né riconosce ai
migranti diritti e doveri ben definiti. Così da un lato le città si riempiono
di moschee abusive e adattate in locali di fortuna, incontrollate e
incontrollabili, da un altro si permette a dirigenti scolastici e a sindaci di
prendere iniziative, in un senso o nell’altro, ma sempre discutibili quando non
vietabili e sanzionabili.
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