Le battaglie di Joan Baez. La voce della nonviolenza (Il Margine,
Trento 2015, pp. 142, € 12,00) di Paolo Caroli è un libro che non lascia
indifferenti, a prescindere da gusti musicali o appartenenze politiche.
L’autore, giovane avvocato e pubblicista, è figlio d’arte; viene da famiglia di
antica cultura musicale, i Caroli di Taurisano.
Joan Baez è troppo nota perché si
sprechino parole per presentarla. Cantante grandissima e grandissima persona
impegnata per i diritti umani e la non violenza. Il suo nome si lega alle
grandi battaglie della seconda metà del Novecento, in gran parte legate agli
Stati Uniti d’America, alle sue vicende interne (razzismo, leva obbligatoria,
pena di morte) e soprattutto estere (guerra in Vietnam, fino alle più recenti
guerre del Golfo). La sua vicenda artistica e sentimentale con Bob Dylan ne ha
amplificato l’immaginario popolare e ne ha fatto un’icona mondiale.
Ciò non significa che abbia avuto
il consenso universale. Quando si parla di politica scattano meccanismi
complessi, tutto diventa di parte, anche le cose più belle e più buone.
Per capirci, il suo mondo non è
il mio, benché io abbia più o meno la sua stessa età; e non lo è non solo
perché di musica non capisco un’acca, ma anche e soprattutto perché non
condivido il fondamentalismo e l’esclusivismo di alcune sue posizioni politiche
che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno avuto radici e
ragioni, consensi e incomprensioni, delusioni ed entusiasmi negli eventi che si
sono susseguiti, spesso tragicamente, sulla Terra.
La non violenza non è ovviamente
un fine, è un modo per perseguire dei fini. L’ambiente artistico e politico
della Baez era tale che il suo impegno si prestasse a strumentalizzazioni di
altri soggetti che i fini li perseguivano con la violenza. Il
carattere di molti movimenti per i diritti umani della seconda metà del
Novecento si collocavano decisamente a sinistra, più spesso nei comunismi
locali. Per questo non di rado si creavano incomprensioni tra i non violenti
come Martin Luther King e i violenti come Malcom X prima maniera.
Anche la Baez è stata più volte
contestata per il suo essere per la non violenza senza se e senza ma, come
diciamo noi in Italia, con un’espressione un po’ abusata. Rispettosa del
proprio talento di artista e coerente con le proprie idee politiche e perciò
libera da qualsiasi “vincolo di mandato”,
la Baez è entrata spesso in rotta di collisione con marxisti e
comunisti, che da lei s’aspettavano un impegno illimitato e incondizionato.
Organico, per dirla con Gramsci. Alcuni suoi gesti, fra cui quello di cantare
in Polonia per Lech Walesa, sono stati perciò clamorosi e hanno creato
incomprensioni e proteste nel variegato mondo della contestazione. L’ultima
cosa che voleva fare la Baez era l’essere strumentalizzata.
I giovani di oggi fanno fatica a
capire quel che succedeva cinquant’anni fa, perché figli di un’altra cultura.
Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta o si stava sulle posizioni dei diritti
umani, comunque intesi e declinati, e si era di sinistra, o si stava su altre
posizioni e si era di destra. Chi stava a destra dava priorità alle tre grandi
sintesi: lo Stato, la Nazione, la Società; e quindi la tradizione, l’ordine, la
difesa della patria, il servizio militare e, ove occorresse, l’andare in
guerra. Ai diritti dell’individuo si contrapponevano i diritti dell’insieme. Al
sogno, all’evasione, all’utopia si contrapponeva la veglia, lo star dentro alle
cose anche in maniera scomoda, il realismo. Una contrapposizione ideologica
netta, tra il particolare e il tutto, che così si fenomenizzava: da una parte
la droga, la musica, la non violenza, la pace; dall’altra il sacrificio, la
lucidità e la concretezza nel perseguire risultati di produttività e di forza,
la difesa del benessere sociale raggiunto. Da una parte i giovani dall’altra i
matusa, come venivano chiamati gli anziani e i benpensanti; da una parte la
spensieratezza dei “figli dei fiori”, Woodstock, le marce della pace,
dall’altra le catene di montaggio, le banche, gli eserciti. Non era solo una
questione politica, ma anche di sensibilità, di carattere, di cultura.
Capisco che questo è un parlar
brutale e per schemi; ma così stavano le cose o così erano percepite negli anni
in cui Joan Baez combatteva le sue battaglie in una posizione comoda e scomoda
allo stesso tempo, comoda per il benessere e il glamour che l’accompagnava e scomoda per essere accusata da
entrambe le parti in lotta. Va da sé che in quegli anni si cercavano icone che
rappresentassero la lotta per la libertà, ovvero per il comunismo, contro
l’imperialismo e il fascismo; e furono individuate nel Che, in Mao, in Ho Chi
Min.
In quegli anni di scontri, a
volte anche selvaggi, non potevi avere né il tempo né l’opportunità per capire
le ragioni degli avversari, per cui rifiutarsi di prestare il servizio militare
per uno di destra era inconcepibile. Mentre obbligare uno a partire in guerra o
solo a prestare il servizio di leva era inconcepibile per uno di sinistra. Si
potrebbe continuare con tante altre contrapposizioni, che in quegli anni,
formidabili come li ha definiti Mario Capanna in un suo libro, riferendosi agli
anni Settanta, mettevano giovani contro.
Ecco, il libro di Caroli sulla
Baez ci riporta a quel mondo, a quei tempi. Chi li visse dal di dentro li
ritrova nel libro e li rivive con nostalgia; chi da quel mondo era fuori ed
ostile ha l’opportunità di conoscerlo e finalmente di capirlo assai più di
quanto non l’avesse capito prima, pur continuando a rimanerne fuori. Caroli
racconta quel mondo direi di risulta, è il contesto necessario per capire,
essendo Baez il centro della narrazione. Non lo fa con una guida politica, con
un pensatore, con un Marcuse per esempio, tra assemblee e scontri, ma con una
guida formidabile e gradevole, un personaggio forte, determinato,
incredibilmente virtuoso, a suon di musica e di canto, in cui i tanti titoli di
canzoni, che segnarono quegli anni, hanno la forza di far rivivere e di
scandire momenti epici di lotte politiche o gioiose circostanze di intimità. Lo
fa con un monumento all’udito e agli occhi, essendo la Baez una stupenda
cantante ed una bella donna, la “madonna scalza”, l’ “usignolo” contro
l’ingiustizia. Caroli, peraltro, per ragioni anagrafiche, quel mondo non lo ha
conosciuto direttamente; e forse per questo la sua narrazione è lieve e fresca
quasi come una fiaba. Ne vien fuori un profilo che, senza nascondere nulla del
personaggio – il che depone in favore dell’autore, di cui traspare un profilo
ideologico ben definito ma non settario –, è esaustivo e accattivante.
La mia probabilmente è una
lettura parziale e inadeguata del libro, per le ragioni anzidette, ma mi
consola il fatto che uno, come Furio Colombo, che è grande amico della Baez fin
dai suoi esordi, che conosce la musica e appartiene a quel mondo, a proposito del
libro di Caroli apprezza “il fatto che l’autore abbia portato al centro della
narrazione, non la musica sempre splendida della Baez, ma la nonviolenza” (“Il
Fatto quotidiano” del 13 aprile 2015). Mi consola, perché io il libro di Caroli
lo apprezzo per entrambe le cose, col rammarico, tutto personale, di non aver
potuto godere di tutti i piaceri musicali che Caroli ha evocato parlando delle
sue canzoni, anche di quelle cantate in circostanze drammatiche e di forte
denuncia. Perché – sia chiaro – la non violenza, insisto a separare il nome
dall’articolo, è un sentimento nobilissimo, è la poesia della vita; che spesso
però deve fare i conti con la realtà della vita, che ne costituisce la prosa –
ahimè – amara. Musica
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