Carlo Lucarelli ha scritto un
libro su Pasolini in ricorrenza del quarantesimo anniversario della tragica
morte dello scrittore, PPP Pasolini, un
segreto italiano (Rizzoli, 2015). Tra le tante rievocazioni apparse
quest’anno sull’argomento da me intercettate è quella che ritengo la più
significativa. 220 pagine in cui l’autore riflette su Pasolini e su tante altre
gravi e misteriose vicende italiane del secondo dopoguerra. Per capire, però,
il suo punto di vista nei tornelli dei suoi tanti ragionamenti, espressi nel
suo stile di venditore di sensazioni, bastano otto righe a pag. 180.
“Ci sta che in quegli anni, che
dai pugni e gli schiaffi ai comizi e alle manifestazioni sono passati
rapidamente, attraverso le bombe, alle spranghe e ai coltelli e stanno andando
ancora più velocemente verso le pistole, uno così, uno come Pasolini, frocio, comunista e pure intellettuale
(nessuna cosa esclude l’altra), si ammazzi
con la furia e la ferocia di un agguato premeditato”.
Ecco: ci sta. Due gocce di parole
che spiegano il mare di una narrazione infinita. La penso anch’io così, ma
senza entrare ed uscire da supposizioni varie, che fanno pensare al delitto
politico perché Pasolini dava fastidio, come dava fastidio Enrico Mattei, come
dava fastidio Mauro De Mauro, come dava fastidio Aldo Moro e via di seguito
nella lunga scia di misteri o piuttosto, come suggerisce Lucarelli, segreti
italiani.
Sono del parere che, fatta salva
la verità processuale, secondo la quale, terzo grado di giudizio, fu il solo
Pino Pelosi ad uccidere Pasolini nel corso di un rapporto omosessuale
degenerato, altre verità, cosiddette storiche, non ne esistano in difetto di
prove o di argomentazioni serie, organiche e consequenziali; sono altresì
convinto che la verità processuale non esaurisce né chiude la vicenda, che si
presta sia alla soluzione semplicistica del delitto d’impeto in seguito ad un
alterco sia all’agguato di più persone per odio politico o razziale. Chi può
dire come siano andate veramente le cose?
A quei tempi – siamo alla fine
del 1975 – essere omosessuale non è lontanamente paragonabile all’essere
omosessuale oggi. Ricordo, se serve a dare l’idea che si aveva degli
omosessuali all’epoca, che quando della morte di Pasolini parlai con un anziano
signore di Taurisano intento a spazzare davanti al suo negozio – hai sentito?
Hanno ammazzato Pasolini, quel grande intellettuale – quello, senza minimamente
sorprendersi, continuando a spazzare, commentò testualmente: “sì, ma dice che
faceva le porcherie con la parte di dietro”, come se ciò potesse giustificare
il suo assassinio. La cosa faceva ridere gli amici quando gliela raccontavo,
quella castigatissima “parte di dietro” soprattutto.
Io Pasolini lo conobbi così.
Leggevo abitualmente “Il Borghese”, settimanale di destra diretto da Mario
Tedeschi, un ex repubblichino, e da una terribile Gianna Preda, una giornalista
tosta, esperta ed intrigante. Era proprio costei a tenere le polemiche più
violente nei confronti di Pasolini, che peraltro era stato espulso qualche anno
prima dal Pci proprio per motivi di omosessualità con ragazzini. Insomma
Pasolini, già scrittore e regista affermato, era particolarmente nel mirino
della stampa all’epoca definita tout
court fascista.
Di lui mi feci un’idea diversa.
Avevo letto “Le ceneri di Gramsci” e “Poesia in forma di rosa”; lo seguivo sul
“Corriere della Sera” all’epoca diretto da Piero Ottone. I suoi film no, non mi
piacevano. Troppo sesso, troppa degenerazione, troppa pornografia ed etica del
porcile. Nei confronti del mondo dei poveri, dei brutti, degli ignoranti, degli
sconfitti sociali Pasolini aveva una sorta di mistica.
Negli anni Settanta i giudizi su
Pasolini incominciarono a cambiare, anche negli ambienti di una certa destra,
per quella sua difesa della tradizione, delle persone e delle cose di una
volta, trasformate con l’omologazione borghese e progressista, piatta e
consumistica. Certo, non era la stampa di destra più immediatamente politica e
propagandistica, ma una destra più attenta e attrezzata culturalmente. Ne
nacque una questione: Pasolini di sinistra o di destra?, che ancora oggi
appassiona. E se uno rilegge i suoi “Scritti corsari” o le sue “Lettere
luterane” di dubbi che Pasolini fosse lentamente scivolato su posizioni
culturalmente, non politicamente, reazionarie ne ha più di uno.
Rocco Mangia difese il Pelosi con
la solita passione che metteva, come del resto fanno tutti gli avvocati – è il
loro mestiere, a volte odioso; ma è il loro mestiere! – nei confronti dei loro
assistiti. La sua difesa fece uscir bene il pur reo confesso assassino, ma fece
trionfare una verità mai accettata da tanti intellettuali, giornalisti e
perfino avvocati di sinistra. Per questo hanno decretato nei suoi confronti una
specie di damnatio nominis,
assolutamente incomprensibile specialmente da parte dei suoi colleghi. Che
doveva fare l’avv. Mangia, pilotare la difesa del Pelosi verso la difesa
contemporanea di Pasolini, posto che l’una fosse compatibile con l’altra?
Sarebbe assurdo semplicemente pensarlo. Un avvocato deve fare gli interessi del
suo assistito, non di altri, chiunque essi siano e quali che siano le
motivazioni, anche le più nobili. Nel film di Marco Tullio Giordana “Pasolini,
un delitto italiano”, dell’avv. Mangia viene fatta una caricatura, come a voler
vendicare un torto subito: tu hai tanto infierito contro Pasolini e noi, suoi
grandi e irriducibili estimatori, infieriamo su di te; così impàri!
Pasolini è stato un grande della
nostra cultura. Poliedrico e radicale in tutte le sue manifestazioni: letteratura, giornalismo, cinema, impegno civile. Il che non
significa che non sia anche criticabile per certe sue posizioni, e non mi
riferisco alla sua omosessualità, che, peraltro, stando alle testimonianze di
chi lo conosceva bene, viveva con grande sofferenza. Mi riferisco a quel suo
aristotelismo dell’ipse dixit, che in
termini moderni si sintetizza in quel “io so, perché sono un intellettuale”. Un
intellettuale sa soltanto una cosa, che la verità, quale prodotto finito e
confezionato, non esiste; esiste come ricerca della verità. Tanto vale per gli
stessi giudici e storici. Dire “io so perché sono un intellettuale” significa
negare in radice la verità nel suo essere ricerca. Fuori dal suo essere ricerca
la verità non esiste.
Si continua e si continuerà
sempre a sostenere la tesi di Pasolini ucciso da nemici politici, con sempre
nuove presunte prove; ma sono fiori, che si portano ad un morto per affetto e
perenne ricordo. Queste mie riflessioni non sono fiori, ma all’eretico Pasolini
forse sarebbero piaciute.
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