domenica 19 aprile 2015

Le cose turche di Papa Francesco


Erdogan si è arrabbiato come un cane per l’affermazione di Papa Francesco sul genocidio degli Armeni. Ma come si permette? Non lo deve dire più il Papa che la Turchia è responsabile di quel genocidio. La storia la devono fare gli storici non i politici e i religiosi. E, tanto per far capire che non scherza, ha richiamato l’ambasciatore turco presso la santa sede. Non sappiamo se la diplomazia ha fatto sapere nelle segrete stanze che il Papa si è pentito e che la cosa gli è scappata come tante altre affermazioni, addirittura poco cristiane. Pare che Erdogan per ora abbia chetato la sua ira funesta.
Ma Papa Francesco ne ha fatta un’altra delle sue; una cosa che, nella classifica delle gaffe, sta quanto meno alla pari con la famigerata sortita di Papa Ratzinger all’Università di  Ratisbona nel 2006, quando, nel corso della sua lectio magistralis, disse che Maometto predicava la diffusione della fede per mezzo della spada, riportando letteralmente la frase dell’imperatore Manuele il Paleologo quale si legge in un suo scritto sulla guerra santa del 1400 circa.
Ma per Papa Francesco nessun anatema da parte dei cristiani e dei vaticanisti come accadde per Papa Benedetto. Gratta gratta viene fuori sempre il manicheismo di certi tardo comunisti nostrani, non solo laici. Papa Francesco dice di non essere comunista, ma è come se lo fosse; e tanto basta per godere di “parola franca”. Può dire quello che vuole, può perfino mettere a rischio la pace mondiale, resta sempre uno che sta tra i lupi, mentre Papa Benedetto è un lupo, ora in gabbia.
In realtà quella di Papa Francesco sul genocidio degli Armeni non è stata una gaffe, o per lo meno lo è sul piano giuridico, perché per genocidio nel linguaggio giuridico internazionale s’intende una cosa diversa dalla strage; e quella degli Armeni si conviene essere stata strage. Lo hanno precisato in molti, tra cui il Presidente Obama e il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
L’errore di Papa Francesco non sta nelle parole che dice ma nella condizione in cui le dice. La condizione è del politico. Ama la ribalta e sa che per rimanere all’attenzione di tutti deve usare il linguaggio dei politici, partecipare al dibattito politico, usare le loro categorie, intervenire sui fatti del giorno, sui fenomeni planetari.
I suoi interventi sulla corruzione – per carità, ben vengano, non sono mai troppi – ma se fatti in occupazione di spazi più religiosi, più spirituali, fanno legittimamente sospettare. I comandamenti di Dio sono dieci. Ma per Papa Francesco è come se fossero riconducibili ad uno: la corruzione e suoi corollari. Se si tratta infatti di peccati non collegabili a questo, che non è né più né meno grave di tanti altri – almeno sul piano spirituale – si limita a dire «chi sono io per condannarli?».
Viviamo forse la fase terminale dello sfascio morale dell’individuo e della famiglia, cristianamente intesa. Ma non pare che al Papa interessi più di tanto; sicuramente non più dei soldi dello Ior, delle lotte pretesche all’interno della curia, delle umane ambizioni dei preti, che – Papa Francesco dovrebbe saperlo – non sono monaci di clausura. Bene che vada in proposito dice delle cose generiche, senza insistenza e senza convinzione. E ci mancherebbe che non le dicesse. Ma da lui non si sente una sola condanna alle cause che determinano tante tragedie famigliari. Mai che dica alle mogli di non tradire i mariti e ai mariti di non tradire le mogli; ai figli di obbedire ai genitori e ai genitori di saper guidare i figli senza opprimerli. Mai un insegnamento ai giovani di lealtà, di onore, di purezza dello spirito. Papa Francesco va al sodo: soldi, ricchezza, corruzione, ambizione, stragi, genocidi. Tutte cose che rientrano inevitabilmente nella politica.
Dice – credo sia la più assurda delle sue affermazioni – «vorrei una chiesa povera per i poveri». E che significa? Se veramente ha a cuore i poveri dovrebbe volere una chiesa ricca per aiutarli. Chi può aiutare i poveri se non i ricchi? E una chiesa ricca è garanzia – e lo è concretamente come vediamo – per tanta povera gente che trova nelle sue organizzazioni qualche aiuto, spesso di che nutrirsi. Ma l’espressione “chiesa povera per i poveri” fa effetto, non dice nulla; ma crea nell’immaginario qualcosa di non afferrabile come concetto; e questo la rende forte e suggestiva.
Non vorrei sembrare un antifrancescano, magari anche per ragioni politiche, dico semplicemente che questo Papa sta esaurendo tutta la sua carica umana e religiosa in una battaglia che non è esattamente quella più indicata alla sua funzione storica, direi istituzionale.
Basta – ha detto – coi valori non negoziabili. E questo la dice lunga. Una chiesa che non intende far conoscere i suoi valori non negoziabili viene meno alla sua identità, la sacrifica per obiettivi più materiali, più fisici, più politici e sociali, più immediati. Come dire, si sacrifica l’essenza del proprio essere per il suo involucro esterno; il suo essere eterno per il momento contingente.
Fin dal suo primo apparire ha dato l’impressione di inadeguatezza. Un papa dovrebbe saper parlare a tutta l’ecumene, non ad una sua parte. E’ innegabile che la società occidentale, europea è una realtà assai diversa da molte altre nel mondo. Parlare solo ad essa è sbagliato, ma parlare prescindendo da essa è altrettanto sbagliato.
A prescindere dalla sua cultura, che francamente appare modesta, e dal suo carattere, che altrettanto francamente appare rozzo e alla buona, di cose turche – tali perché inconcepibili, da non credersi (De Mauro)  – Papa Francesco ne ha dette tante. Cosa turca è per un cristiano dire che ad un’offesa occorre rispondere con un pugno; che le donne non devono fare figli come conigli; che i bambini non sono falsi come i diplomatici, per citarne alcune. Non v’è dubbio che anche per questo a certa gente piace, complici i media che ne esaltano perfino gli errori di lingua e di pensiero.

Ma se il papa deve parlare come uno scaricatore di porto o un manovale edile, per piacere ad un certo popolo, non sorprendiamoci se il mondo va a scatafascio e a furia di dire e di fare cose turche va finire che prima o poi i turchi si arrabbiano.             

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