venerdì 8 febbraio 2013

Un vescovo scomodo a Vieste ai primi del Settecento



Si definisce romanzo, ma non va letto come tale. Un vescovo scomodo di Francescantonio Lopriore Cariglia (Copertino, Besa 2011) è un saggio di storia o se vogliamo di politica, che utilizza dei personaggi e dei fatti per raccontare, come forse un autentico saggio storiografico o politologico non potrebbe in difetto, questo, di affabulazione, l’intricato mondo ecclesiastico e politico in una  diocesi dell’alta Puglia negli anni venti del Settecento, ai margini dell’antico regime. Il luogo è Vieste, la bellissima cittadina posta sulla punta estrema del Gargano nel Viceregno di Napoli, quando questo era nell’orbita imperiale austriaca.
Precisiamo alcuni dati editoriali. L’autore, che è alla sua prima esperienza narrativa, utilizza un escamotage narrativo. Vede in sogno su una bancarella di vecchi libri a Porta Portese un volume che, complici il vento che volta le prime pagine e poi una mano che lo sfoglia, legge e tiene interamente a memoria. E’ scritto in latino ed ha un lungo titolo, compreso di autore e data di pubblicazione: «Nicholaus Castropetrus Episcopus Vestanus, Otto Wolfgang Johannes Amadeus von Reipol, Roma A. D. 1768». L’autore lo traduce, lo commenta e lo cura. Ed ecco il “romanzo”, così reso in italiano: Un vescovo scomodo (Nicholaus Castropetrus parvulus episcopus ovvero Niccolò Castropietro un Vescovo piccolo piccolo). Una complicata operazione, non c’è che dire!
Altrettanto intricata è la vicenda. Il Castropietro è un avvocato al servizio di una nobile famiglia di Barletta, legata al partito austriacante in ragione dei suoi commerci nelle zone dell’alto Adriatico. La sua è una rapida e sfolgorante carriera, prima civile e poi religiosa. Nel ruolo di consulente di questa famiglia, rifugiatasi a Vienna nel quadro delle lotte tra avversi sostenitori degli austriaci e degli spagnoli, risiede per diversi anni nella capitale dell'impero. Fa un’esperienza militare presso lo Stato Maggiore dell’esercito imperiale a Milano, conosce il principe Eugenio, entra al servizio del Cardinale Michael Friedrich von Althan viceré di Napoli, il quale lo nomina Preposto alla Regia Chiesa collegiata di Canosa e poi, per consensuale scambio di nomine con un suo vecchio conterraneo che teneva a ritornare nella sua Canosa, diventa vescovo di Vieste. Insomma una carriera incredibile per uno che non era nemmeno sacerdote, tra conoscenze, colpi di fortuna e appartenenze alla società del “triangolo con l’occhio”, leggiamo massoneria, non senza qualche disinvolto atteggiamento trasformistico. L’io narrante del libro e personaggio esso stesso è Otto von Reipol, un giovane austriaco che il Castropietro aveva voluto con sé come segretario e col quale aveva stabilito un rapporto di omosessualità, che l’autore narra anche con scabrosa disinvoltura, appena attenuata da curiali espressioni latine. I due li troviamo a Roma nel 1728, chiamati a discolparsi dall’accusa di sodomia, che, stando a quanto l’autore dice, non praticano più da quando l’uno è diventato vescovo e l’altro il suo assistente. Ma sull’esito di questa chiamata a discolpa non c’è un seguito narrativo. L’autore lo lascia sospeso, come a non dargli importanza o a considerarlo un episodio nel più vasto clima di conflittualità, persistente, a Vieste. L’autore fa un passo indietro di due anni. Vescovo e assistente giungono a Vieste, prendono possesso della carica, ma entrano subito in conflitto coi maggiorenti del posto, tra cui sindaco e governatore di giustizia, che trovano nell’arcivescovo di Manfredonia, di cui il vescovo di Vieste è suffraganeo, un difensore interessato. E’ una lotta senza esclusione di colpi, fatta di inibizioni, minacce di scomuniche, multe da una parte e di complotti e violenze dall’altra. Un attentato contro il vescovo “scomodo” fallisce e si conclude con la morte per avvelenamento di due poveri disgraziati che avevano intercettato involontariamente la ricotta avvelenata destinata al vescovo, cui seguono imboscate ed assassini, inchieste giudiziarie e finalmente l’intervento del Viceré che manda un suo uomo per risolvere la vicenda in favore del Vescovo, che ha dalla sua parte anche il favore della gente, angariata dal partito degli spagnoli.
Il romanzo, sotto il profilo formale è zoppicante, come mutilo, perché dopo il lungo flashback, non c’è il ritorno per chiudere una vicenda che resta aperta, con un esplicito ma inusitato “continua…”, che però fa pensare ad un delitto consumato nella foresta umbra.
Interessante il messaggio sull’esperienza politico-amministrativa austriaca nel Viceregno di Napoli, che sembra lo scopo più significativo. Il Viceregno austriaco iniziò con la pace di Utrecht del 1713 e durò fino al 1734, poco più di vent’anni, quando fu riconquistato da Carlo di Borbone e divenne regno indipendente. Le vicende narrate nel romanzo dimostrano come l’amministrazione austriaca non fosse ben accetta agli italiani del Sud, i quali si opposero con tutti i mezzi, illeciti soprattutto, agli uomini voluti dai nuovi signori ai posti chiave del potere religioso e politico del Viceregno. E’ un periodo particolarmente conflittuale anche tra Stato e Chiesa per la difesa di certe prerogative temporali che la chiesa avocava a sé commettendo autentici abusi. L’amministrazione austriaca tendeva a difendere le prerogative dello Stato dalle ingerenze della curia romana servendosi perfino dei vescovi di nomina regia. Nel 1724 favorì la fuga di Pietro Giannone, peraltro di Ischitella vicino a Vieste, lo storico che più di altri in quegli anni prese le difese dello Stato, e gli offrì un tranquillo soggiorno a Vienna. Doveva essere l’inizio di un processo di modernizzazione che in realtà non ci fu per le forti resistenze di chi non ne voleva sapere di cambiare e si riconosceva completamente nel partito spagnolo.
“In definitiva – scrive l’autore – la Corona austriaca non riuscì a far accettare agli Italiani del Meridione gli stessi criteri d’ammodernamento della macchina statale già praticati tranquillamente ai suoi numerosi Devoti Popoli (…). E ciò, bisogna dirlo, soprattutto per la sorda opposizione del Partito Spagnolo sempre vivo in tutto il Vicereame”. “Gli Austriaci – spiega ancora Lopriore Cariglia – esibivano una strana coscienza dello Stato morale ma, colmo dei colmi, pretendevano leggi uniformi e rispettate da tutti i popoli sotto la comune dinastia. Una follia inapplicabile al popolo dell’Italia meridionale. E ciò non già per una predisposizione congenita a recitare un ruolo di razza inferiore. Bensì … per la disgrazia  d’essere dominati e sfruttati dallo straniero. Fra una servitù vecchia di secoli e perciò di consolidate sicurezze e una nuova che si avverte piena d’incognite sovvertitrici di valori ormai accettati, il dominato preferisce non cambiare, a meno che non gli si offra di cambiare qualcosa per non cambiare niente”. E’ la tesi dell’autore, che, nativo di Vieste, vive a Gorizia, in area ex austro-ungarica. Fu anche quella, il viceregno austriaco, un’occasione persa per ammodernarci? Venti anni, francamente, sono nulla per certi processi di trasformazione politica e soprattutto culturale.

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