Si definisce romanzo, ma non va
letto come tale. Un vescovo scomodo
di Francescantonio Lopriore Cariglia (Copertino, Besa 2011) è un saggio di
storia o se vogliamo di politica, che utilizza dei personaggi e dei fatti per
raccontare, come forse un autentico saggio storiografico o politologico non
potrebbe in difetto, questo, di affabulazione, l’intricato mondo ecclesiastico
e politico in una diocesi dell’alta
Puglia negli anni venti del Settecento, ai margini dell’antico regime. Il luogo
è Vieste, la bellissima cittadina posta sulla punta estrema del Gargano nel Viceregno
di Napoli, quando questo era nell’orbita imperiale austriaca.
Precisiamo alcuni dati editoriali.
L’autore, che è alla sua prima esperienza narrativa, utilizza un escamotage narrativo. Vede in sogno su
una bancarella di vecchi libri a Porta Portese un volume che, complici il vento
che volta le prime pagine e poi una mano che lo sfoglia, legge e tiene
interamente a memoria. E’ scritto in latino ed ha un lungo titolo, compreso di
autore e data di pubblicazione: «Nicholaus Castropetrus Episcopus Vestanus,
Otto Wolfgang Johannes Amadeus von Reipol, Roma A. D. 1768». L’autore lo
traduce, lo commenta e lo cura. Ed ecco il “romanzo”, così reso in italiano: Un vescovo scomodo (Nicholaus Castropetrus
parvulus episcopus ovvero Niccolò Castropietro un Vescovo piccolo piccolo).
Una complicata operazione, non c’è che dire!
Altrettanto intricata è la
vicenda. Il Castropietro è un avvocato al servizio di una nobile famiglia di
Barletta, legata al partito austriacante in ragione dei suoi commerci nelle
zone dell’alto Adriatico. La sua è una rapida e sfolgorante carriera, prima
civile e poi religiosa. Nel ruolo di consulente di questa famiglia, rifugiatasi
a Vienna nel quadro delle lotte tra avversi sostenitori degli austriaci e degli
spagnoli, risiede per diversi anni nella capitale dell'impero. Fa un’esperienza militare presso
lo Stato Maggiore dell’esercito imperiale a Milano, conosce il principe
Eugenio, entra al servizio del Cardinale Michael Friedrich von Althan viceré di
Napoli, il quale lo nomina Preposto alla Regia Chiesa collegiata di Canosa e
poi, per consensuale scambio di nomine con un suo vecchio conterraneo che
teneva a ritornare nella sua Canosa, diventa vescovo di Vieste. Insomma una
carriera incredibile per uno che non era nemmeno sacerdote, tra conoscenze, colpi
di fortuna e appartenenze alla società del “triangolo con l’occhio”, leggiamo
massoneria, non senza qualche disinvolto atteggiamento trasformistico. L’io
narrante del libro e personaggio esso stesso è Otto von Reipol, un giovane
austriaco che il Castropietro aveva voluto con sé come segretario e col quale aveva
stabilito un rapporto di omosessualità, che l’autore narra anche con scabrosa
disinvoltura, appena attenuata da curiali espressioni latine. I due li troviamo
a Roma nel 1728, chiamati a discolparsi dall’accusa di sodomia, che, stando a
quanto l’autore dice, non praticano più da quando l’uno è diventato vescovo e
l’altro il suo assistente. Ma sull’esito di questa chiamata a discolpa non c’è
un seguito narrativo. L’autore lo lascia sospeso, come a non dargli importanza
o a considerarlo un episodio nel più vasto clima di conflittualità, persistente,
a Vieste. L’autore fa un passo indietro di due anni. Vescovo e assistente
giungono a Vieste, prendono possesso della carica, ma entrano subito in
conflitto coi maggiorenti del posto, tra cui sindaco e governatore di
giustizia, che trovano nell’arcivescovo di Manfredonia, di cui il vescovo di
Vieste è suffraganeo, un difensore interessato. E’ una lotta senza esclusione
di colpi, fatta di inibizioni, minacce di scomuniche, multe da una parte e di
complotti e violenze dall’altra. Un attentato contro il vescovo “scomodo”
fallisce e si conclude con la morte per avvelenamento di due poveri disgraziati
che avevano intercettato involontariamente la ricotta avvelenata destinata al
vescovo, cui seguono imboscate ed assassini, inchieste giudiziarie e finalmente
l’intervento del Viceré che manda un suo uomo per risolvere la vicenda in
favore del Vescovo, che ha dalla sua parte anche il favore della gente,
angariata dal partito degli spagnoli.
Il romanzo, sotto il profilo
formale è zoppicante, come mutilo, perché dopo il lungo flashback, non c’è il ritorno per chiudere una vicenda che resta
aperta, con un esplicito ma inusitato “continua…”, che però fa pensare ad un
delitto consumato nella foresta umbra.
Interessante il messaggio
sull’esperienza politico-amministrativa austriaca nel Viceregno di Napoli, che
sembra lo scopo più significativo. Il Viceregno austriaco iniziò con la pace di
Utrecht del 1713 e durò fino al 1734, poco più di vent’anni, quando fu
riconquistato da Carlo di Borbone e divenne regno indipendente. Le vicende
narrate nel romanzo dimostrano come l’amministrazione austriaca non fosse ben
accetta agli italiani del Sud, i quali si opposero con tutti i mezzi, illeciti
soprattutto, agli uomini voluti dai nuovi signori ai posti chiave del potere
religioso e politico del Viceregno. E’ un periodo particolarmente conflittuale
anche tra Stato e Chiesa per la difesa di certe prerogative temporali che la
chiesa avocava a sé commettendo autentici abusi. L’amministrazione austriaca tendeva
a difendere le prerogative dello Stato dalle ingerenze della curia romana servendosi
perfino dei vescovi di nomina regia. Nel 1724 favorì la fuga di Pietro
Giannone, peraltro di Ischitella vicino a Vieste, lo storico che più di altri
in quegli anni prese le difese dello Stato, e gli offrì un tranquillo soggiorno
a Vienna. Doveva essere l’inizio di un processo di modernizzazione che in
realtà non ci fu per le forti resistenze di chi non ne voleva sapere di
cambiare e si riconosceva completamente nel partito spagnolo.
“In definitiva – scrive l’autore –
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