domenica 29 giugno 2014

L'Italia e i Mondiali, è fallito il calcio multiuso


Al Mondiale di Calcio è finita come doveva finire. Espulsi per non aver giocato. Giocare al calcio significa correre con la rabbia in corpo per buttare il pallone dentro la porta avversaria. Che lo butti dentro un nero o un bianco non conta nulla, l’importante è fare goal. Anche i più digiuni di calcio lo hanno capito dopo aver visto tante altre squadre nazionali giocare. Noi no; noi in campo passeggiavamo, camminavamo, incerti come chi, smarrito in una grande città, non sapesse orientarsi per trovare la strada di casa. 
Ma la miserrima fine degli Azzurri ha marcato l’ennesima débâcle nazionale, voglio dire dell’intera nazione. “Fuori dai Mondiali. Un caso nazionale” ha titolato in prima pagina il “Corriere della Sera” di mercoledì, 25 giugno, tradendo un retropensiero. Attraverso il calcio volevamo fare altro, probabilmente, con l’operazione Balotelli, esibire la nostra politica di integrazione. Di questo si è trattato. E’ inutile girarla: siamo rimasti vittime delle nostre storiche ipocrisie, della nostra incapacità di essere seri, moderatamente e criticamente aperti, senza spalancamenti o abbattimenti di porte.
Il simbolo di quest’ultima furbata andata a male s’incentra sul calciatore di colore più discusso della storia del calcio italiano. Doveva essere lui a far trionfare gli Azzurri; è stato lui a farci perdere la faccia: lui, la rappresentazione plastica dell’Italia multirazziale, multietnica, del Paese migliore del mondo in fatto di accoglienza.
La commistione calcio-politica era già prima. Nelle sigle della Rai create per i Mondiali i ragazzi e le ragazze che palleggiavano, piroettando, erano quasi tutti di colore, tutti con la maglia azzurra; sembrava che in Italia non ci fossero più bambini e ragazzi bianchi. Si dirà: nell’ideazione non erano italiani, erano brasiliani, come il Cristo Redentore in maglia azzurra dall’alto del Corcovado. Ma il messaggio era un altro: coi Mondiali di Calcio l’Italia voleva far passare l’immagine di un’Italia nuova, aperta al mondo, chiusa alla storia e alla tradizione nazionali. L’ostinatezza di puntare su un giocatore come Balotelli da parte del Commissario Tecnico Prandelli, in ciò sostenuto dalla grancassa mediatica, è la prova che non sempre veniva mandato in campo per ragioni tecniche. E’ stato riconosciuto dallo stesso Prandelli. Il quale dovrebbe dire a questo punto quali altri condizionamenti e quali altre pressioni ha subito e da chi per mettere in campo una squadra da marcia della pace o da escursione di boy-scout piuttosto che da calciatori degni di quattro titoli mondiali, di un titolo olimpico e di un titolo europeo. “Il fatto è – ha detto in una breve dichiarazione dopo la sconfitta col Costa Rica – che certe squadre quando giocano lo fanno con lo spirito nazionalista, che a noi è estraneo”. Questo ha detto il tecnico che non ha impiegato poi nemmeno un’ora a dimettersi dopo la figuraccia rimediata sul campo con l’Uruguay.  
Ma scaricare tutte le colpe su Balotelli, esibirlo a testa all’ingiù nel suo Piazzale Loreto, è ancor più indegno di ogni altra cosa detta e pensata. Non si può incolpare una persona per quello che è. Balotelli ha dimostrato di essere un talento calcistico autentico ma anche un soggetto labile, con grossi problemi di inserimento e di adattamento. Una persona del genere andava lasciata ai fatti suoi. Una squadra di calcio, a qualsiasi livello, non può essere un’équipe di assistenti sociali. A Balotelli si è chiesto quello che lui non poteva dare. Nemo dat quod non habet, dicevano i latini. Già, ma noi dobbiamo dimenticare anche i latini se veramente vogliamo diventare il Paese più aperto del mondo.
Cacciati dal Mondiale, tutti si sono scagliati contro questo giocatore che non ha lesinato, a sua volta, accuse all’Italia e agli Italiani. “Gli Africani – ha detto – stanno più avanti di voi Italiani veri. In Africa non si tradisce un fratello”. Non gli si può dare torto. L’orgoglio di appartenenza, come la classe, non è acqua. Almeno in questo bisogna dargli atto di una maturità invidiabile.
Ma in Italia è così e non è detto che per saperlo occorra conoscere la storia. Bastano episodi come una sconfitta al calcio perché certe verità emergano in tutta la loro bruttezza e crudezza. Non si era tutti entusiasti fascisti durante il fascismo; tutti ostinatamente antifascisti dopo? E non è accaduta la stessa cosa con comunisti e anticomunisti, democristiani e antidemocristiani, socialisti e antisocialisti, berlusconiani e antiberlusconiani? E non accadrà così con  renzismo e antirenzismo?
Aspettiamo, aspettiamo; e vedremo! Già tanti che erano ostili a Renzi, anche del suo stesso partito, ora gli stanno accanto, lo difendono, lo lodano, lo esaltano. Per cui le cose che dicono e che fanno non sono criticamente meditate, ma rispondono a pulsioni emotive di comodo immediato. Proprio come Prandelli, che in quattro anni non si è mai sognato di dire: signori, una squadra si fa per vincere, con criteri tecnici; ogni altro criterio deve rimanere fuori, se non mi consentite di fare il mio lavoro come ritengo giusto, tanti saluti e grazie. No, non l’ha mai detto, perché, tutto sommato, il modo conventuale di fare le cose in Italia finisce per deresponsabilizzare, per lavarsi le mani al momento opportuno.

Ha detto: il mio progetto tecnico è fallito. Sicuri che era un progetto tecnico? Quattro anni di conduzione della Nazionale hanno dimostrato che non ai risultati si mirava ma a qualcosa di più politico e sociale, di più pedagogico e moraleggiante. Se è così, allora, meno male che è fallito. Perché almeno così il calcio può tornare ad essere uno sport con tutta la sua fisicità e la sua eticità, ma soprattutto con la sua più immediata finalità, che è gareggiare con onore, nella consapevolezza che si può vincere o perdere, ma senza mai perdere la faccia o perdere per ragioni, anche nobili se vogliamo, ma estranee allo sport. 

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