domenica 15 febbraio 2015

Il negazionismo come reato è controproducente


Da poco sono state celebrate due date importanti, il Giorno della Memoria 27 gennaio, nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, e la Giornata del Ricordo 10 febbraio, per commemorare le vittime delle Foibe e per ricordare l’esodo delle popolazioni istriano-giuliano-dalmate.
A mio avviso sarebbe augurabile che le due “tragedie” venissero celebrate insieme, per evitare una distinzione che sa tanto di politica par condicio. Non è un caso che la Giornata del Ricordo sia stata istituita con la legge del 30 marzo 2004, stante un governo di centrodestra, pur votata quasi all’unanimità sia alla Camera che al Senato, per fare il pari col Giorno della Memoria, in cui si è sempre riconosciuta la sinistra.
Di più. Si dovrebbe istituire una sola giornata nel mondo per ricordare le persecuzioni e i genocidi consumati in ogni parte del pianeta. Sarebbe decisamente più efficace mettere insieme perseguitati appartenenti a popoli, a razze, a religioni, a situazioni diversi, per far risaltare ancor più l’abominio del gesto persecutorio e criminale in sé chiunque lo compia.
Le due tragedie, della Shoah e delle Foibe, in sé non sono paragonabili, ma hanno una componente comune, che è quella dello sterminio sistematico, nell’ordine di milioni in un caso, di migliaia nell’altro, di persone solo per la loro appartenenza ad una razza, ad un’etnia, ad una religione o ad una nazionalità.
Non sono purtroppo solo queste le barbarie; ce ne sono state altre, anche più recenti, ce ne sono all’ordine del giorno. Penso alle ultime nell’ex Jugoslavia e a quelle che si consumano ai danni dei cristiani in regioni controllate dai musulmani, vedi Nigeria e Pakistan; ci sono le lotte tribali in Africa. Il fatto però che di persecuzioni e di stragi ce ne siano purtroppo tante non lenisce minimamente lo sdegno pubblico nei confronti delle più grandi tragedie del Novecento, quelle che sono diventate emblematiche della ferocia umana, ed anzi deve tenere desta l’attenzione di chi ha i mezzi per intervenire per prevenire o per punire simili aberrazioni. Non sono paragonabili perché mentre la persecuzione nazista fu una pianificazione per sterminare gli ebrei (soluzione finale, in tedesco Endlösung der Judenfrage), le foibe furono un fatto, altrettanto grave, ma insorto in circostanze impreviste, una sorta di crimine paragonabile ad un delitto d’impeto, secondo una codificata distinzione giuridica.  Non sono paragonabili anche per la loro dimensione nello spazio e nel tempo. La questione degli ebrei è planetaria e storica; la questione degli italiani in Istria e nella Dalmazia riguarda l’Italia e la Jugoslavia in un segmento temporale circoscritto.
Altro discorso è il negazionismo. Tra tutti gli ismi è il più abominevole specialmente quando è riferito a fatti acclarati, a prescindere dai loro dettagli. Negare il vero è un atto di autolesionismo gravissimo che espone chi lo compie ad una dura condanna sociale.
Non sono d’accordo tuttavia che il negazionismo sia reato. Come tale tradisce quasi la preoccupazione che possa produrre effetti lesivi non sulla persona che lo esercita ma sulla conoscenza generale, nel senso che possa produrre opinione. E’ peraltro un limite alla ricerca storiografica. Un rischio, questo, che uno storico non dovrebbe correre. Lo storico ha il dovere di non fermarsi mai davanti alla verità acquisita, ma cercare sempre oltre e sempre animato dalla stessa spinta deontologica di chi cerca il vero. Perciò non si possono porre limiti alla sua libertà di approfondire la ricerca per giungere al più vero possibile, in un percorso che non deve conoscere interruzioni e limiti. La verità storica, finora conosciuta della shoah o delle foibe, nel momento in cui la si vuole imporre come statica e immodificabile equivale ad un vero e proprio dogma.
Un mio amico, che stimavo molto, voleva convincermi un po’ di anni fa, che la shoah è un’invenzione, che sì c’erano state delle vittime, ma che non erano lontanamente paragonabili alle cifre di cui si parlava e che alla fine era diventata una forza culturale da esibire ed esercitare contro tutti coloro che fossero di opinione diversa. Fu un vulnus nella stima che avevo sempre avuto per lui e perfino l’amicizia si incrinò. Non solo e non tanto per le ragioni maldestramente esibite quanto per il retropensiero, per ciò che motivava quelle ragioni. Che fossero sei milioni gli ebrei trucidati o che fossero solo sei, il giudizio di condanna non cambia, perché non si può accettare né il fatto né tanto meno l’idea che uno venga ucciso senza aver fatto nulla di male, ma solo per la sua condizione naturale.
Si può capire perché si sia giunti in alcuni paesi del mondo a considerarlo reato, ma gli effetti, mentre non vanno a colpire gli esaltati e i fanatici, più o meno ignoranti, i quali poco si preoccupano di non incorrere in reati, pongono problemi agli intellettuali, ai ricercatori, agli storici. I quali possono rischiare di travalicare un limite facilmente travalicabile tra una verità acquisita e la ricerca che vuole che si continui comunque a ricercare la verità.

Il negazionismo, inteso come tendenza o metodo per la negazione di verità universalmente accettate, è da condannare come manifestazione di ignoranza e di turpitudine, ma non può essere reato in quanto afferisce, comunque sia, la sfera della libertà di opinione. Le verità imposte inoltre producono sempre effetti negativi anche alla parte che si vuole difendere e preservare. Chi gode di certi “privilegi” e difese finisce per essere invidiato e odiato. Caino uccise Abele quando si accorse che il Signore aveva un occhio di riguardo per lui.

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