Da poco sono state celebrate due
date importanti, il Giorno della Memoria 27 gennaio, nel 70° anniversario della
liberazione di Auschwitz, e la
Giornata del Ricordo 10 febbraio, per commemorare le vittime
delle Foibe e per ricordare l’esodo delle popolazioni istriano-giuliano-dalmate.
A mio avviso sarebbe augurabile
che le due “tragedie” venissero celebrate insieme, per evitare una distinzione
che sa tanto di politica par condicio. Non è un caso che la Giornata del Ricordo sia
stata istituita con la legge del 30 marzo 2004, stante un governo di
centrodestra, pur votata quasi all’unanimità sia alla Camera che al Senato, per
fare il pari col Giorno della Memoria, in cui si è sempre riconosciuta la
sinistra.
Di più. Si dovrebbe istituire una
sola giornata nel mondo per ricordare le persecuzioni e i genocidi consumati in
ogni parte del pianeta. Sarebbe decisamente più efficace mettere insieme
perseguitati appartenenti a popoli, a razze, a religioni, a situazioni diversi,
per far risaltare ancor più l’abominio del gesto persecutorio e criminale in sé
chiunque lo compia.
Le due tragedie, della Shoah e
delle Foibe, in sé non sono paragonabili, ma hanno una componente comune, che è
quella dello sterminio sistematico, nell’ordine di milioni in un caso, di
migliaia nell’altro, di persone solo per la loro appartenenza ad una razza, ad
un’etnia, ad una religione o ad una nazionalità.
Non sono purtroppo solo queste le
barbarie; ce ne sono state altre, anche più recenti, ce ne sono all’ordine del
giorno. Penso alle ultime nell’ex Jugoslavia e a quelle che si consumano ai
danni dei cristiani in regioni controllate dai musulmani, vedi Nigeria e
Pakistan; ci sono le lotte tribali in Africa. Il fatto però che di persecuzioni
e di stragi ce ne siano purtroppo tante non lenisce minimamente lo sdegno pubblico
nei confronti delle più grandi tragedie del Novecento, quelle che sono
diventate emblematiche della ferocia umana, ed anzi deve tenere desta
l’attenzione di chi ha i mezzi per intervenire per prevenire o per punire simili
aberrazioni. Non sono paragonabili perché mentre la persecuzione nazista fu una
pianificazione per sterminare gli ebrei (soluzione finale, in tedesco Endlösung der Judenfrage), le foibe
furono un fatto, altrettanto grave, ma insorto in circostanze impreviste, una
sorta di crimine paragonabile ad un delitto d’impeto, secondo una codificata
distinzione giuridica. Non sono
paragonabili anche per la loro dimensione nello spazio e nel tempo. La
questione degli ebrei è planetaria e storica; la questione degli italiani in
Istria e nella Dalmazia riguarda l’Italia e la Jugoslavia in un
segmento temporale circoscritto.
Altro discorso è il negazionismo.
Tra tutti gli ismi è il più abominevole specialmente quando è riferito a fatti
acclarati, a prescindere dai loro dettagli. Negare il vero è un atto di
autolesionismo gravissimo che espone chi lo compie ad una dura condanna
sociale.
Non sono d’accordo tuttavia che il
negazionismo sia reato. Come tale tradisce quasi la preoccupazione che possa
produrre effetti lesivi non sulla persona che lo esercita ma sulla conoscenza
generale, nel senso che possa produrre opinione. E’ peraltro un limite alla
ricerca storiografica. Un rischio, questo, che uno storico non dovrebbe
correre. Lo storico ha il dovere di non fermarsi mai davanti alla verità acquisita,
ma cercare sempre oltre e sempre animato dalla stessa spinta deontologica di
chi cerca il vero. Perciò non si possono porre limiti alla sua libertà di
approfondire la ricerca per giungere al più vero possibile, in un percorso che
non deve conoscere interruzioni e limiti. La verità storica, finora conosciuta
della shoah o delle foibe, nel momento in cui la si vuole imporre come statica
e immodificabile equivale ad un vero e proprio dogma.
Un mio amico, che stimavo molto,
voleva convincermi un po’ di anni fa, che la shoah è un’invenzione, che sì
c’erano state delle vittime, ma che non erano lontanamente paragonabili alle
cifre di cui si parlava e che alla fine era diventata una forza culturale da
esibire ed esercitare contro tutti coloro che fossero di opinione diversa. Fu
un vulnus nella stima che avevo sempre avuto per lui e perfino l’amicizia si
incrinò. Non solo e non tanto per le ragioni maldestramente esibite quanto per
il retropensiero, per ciò che motivava quelle ragioni. Che fossero sei milioni gli
ebrei trucidati o che fossero solo sei, il giudizio di condanna non cambia,
perché non si può accettare né il fatto né tanto meno l’idea che uno venga
ucciso senza aver fatto nulla di male, ma solo per la sua condizione naturale.
Si può capire perché si sia giunti
in alcuni paesi del mondo a considerarlo reato, ma gli effetti, mentre non
vanno a colpire gli esaltati e i fanatici, più o meno ignoranti, i quali poco
si preoccupano di non incorrere in reati, pongono problemi agli intellettuali, ai
ricercatori, agli storici. I quali possono rischiare di travalicare un limite
facilmente travalicabile tra una verità acquisita e la ricerca che vuole che si
continui comunque a ricercare la verità.
Il negazionismo, inteso come
tendenza o metodo per la negazione di verità universalmente accettate, è da
condannare come manifestazione di ignoranza e di turpitudine, ma non può essere
reato in quanto afferisce, comunque sia, la sfera della libertà di opinione. Le
verità imposte inoltre producono sempre effetti negativi anche alla parte che
si vuole difendere e preservare. Chi gode di certi “privilegi” e difese finisce
per essere invidiato e odiato. Caino uccise Abele quando si accorse che il
Signore aveva un occhio di riguardo per lui.
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