domenica 24 aprile 2016

Davigo versus Cantone


Il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo ha dichiarato guerra all’universo mondo italiano della politica e della corruzione. Procede come una pala meccanica. L’avevo già sentito a “Otto e Mezzo” dalla Gruber su “La Sette” prima di leggere la sua intervista sul “Corriere della Sera” di venerdì, 22 aprile.
Difficile dargli torto. Un buon cittadino sta dalla sua parte, che è quella della giustizia impegnata contro la corruzione di tutti, politici in primis. Direi che con lui sta l’uomo qualunque, qualunque non in senso deleterio, ma il cittadino che lavora e vuole che le cose funzionino e che i ladri, chiunque essi siano, vengano messi nella condizione di non rubare. Come? Fate voi, dicono i cittadini agli operatori della giustizia; siete voi gli esperti di delitti e castighi.
Senonché Davigo attacca anche i magistrati e getta qualche sospetto perfino su Raffaele Cantone, il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, nominato da Renzi nel marzo del 2014, magistrato pure lui. Dice: “Lo capisco. E non aggiungo altro”, in relazione al fatto che prima Cantone sosteneva che coi politici corrotti bisognerebbe fare “come si fa coi trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti ad offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta”. L’allusione di Davigo è agli amoreggiamenti politici di Cantone.
Cantone in Italia è invocato come un santo taumaturgo. Ognuno lo vorrebbe al vertice di tutto; perfino della chiesa se si potesse. Non c’è che lui. L’attacco di Davigo è suonato come una bestemmia. All’ex dottor sottile del pool milanese di Mani Pulite evidentemente non piacciono i magistrati che poi vanno a finire per fare i ministri o addirittura i presidenti delle Camere, come Grasso che è l’attuale Presidente del Senato. Un magistrato, che miri a fare il politico, difficilmente sa fare il magistrato fino in fondo coi politici corrotti. L’ira funesta di Davigo s’impernia proprio qui. Perché – a suo dire – mai come oggi imperversa la corruzione; e c'è bisogno di magistrati-magistrati.   
Per lui i politici “non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto”. Se ciò è vero, è gravissimo. Saremmo di fronte a vera e propria tracotanza.
Davigo è uno che ha buona memoria. Ricorda perciò che prima che esplodesse il processo di Mani Pulite c’era stato il tentativo da parte di alcuni ministri e grossi esponenti del Psi di legalizzare le tangenti. Che è come legalizzare la camorra, dato che essa si riserva una quota dei guadagni da ogni attività lavorativa sotto forma di protezione o copertura.   
Ma l’aspetto grave e gravissimo della corruzione pubblica in Italia è che neppure se si arrivasse alla legalizzazione della tangente, il fenomeno corruttivo cesserebbe. Abbiamo l’età per ricordare come prima della legge del finanziamento pubblico dei partiti (Legge Piccoli del 1974) si diceva esattamente che la corruzione dei politici nasceva dal fatto che la politica costa denaro e che in difetto di una legge che ne regolasse il finanziamento era giocoforza prenderlo dagli imprenditori. Fatta la legge, si continuò a prendere soldi, in modo più o meno mafioso o camorristico. Ti do l’appalto se mi dai il tot per cento. E così andarono per anni le dazioni, fino a quando non diventarono ambientali; quando cioè non c’era più bisogno neppure di chiederla la tangente; partiva da sola. La politica oggi in Italia è la lupa dantesca che “mai non empie la bramosa voglia, / e dopo il pasto ha più fame che pria”.
A distanza di tanti anni – è passato quasi un quarto di secolo – siamo perciò punto e daccapo. Anzi, stando a quanto dice Davigo – e a quanto vediamo e sentiamo – le cose sono peggiorate; stiamo a due punti e aperte virgolette. E’ come se un coniuge fedifrago, che prima tradiva di nascosto, ad un certo punto pretenda di farlo coram populo, magari perfino davanti ai figli, perché imparino come si fa.
Contro Davigo si è sollevato gran parte del mondo giudiziario, perfino la stessa associazione di cui ha la presidenza e che probabilmente dovrà lasciare. La partita è importante, si gioca su due tavoli: uno è quello della corruzione, l’altro è quello dei magistrati in politica.
Sul tavolo della corruzione fra Davigo e Cantone chi ragiona più da magistrato è Davigo; chi ragiona più da politico è Cantone. Il quale sembra avviato a finire tra qualche anno ad una altissima carica istituzionale, non si esclude la presidenza della repubblica; già se ne parlava all’ultima elezione. Si esprime come un politico di grande equilibrio e cerca di accattivarsi le simpatie dei politici. “Non si risolve tutto con le manette” dice e riconosce che del marcio anche nella magistratura.
Sul tavolo della politica Davigo ha detto: “Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica”. Non così Cantone, che, a stretto giro di stampa, gli ha replicato: “E’ sbagliata l’idea che un magistrato non possa fare politica; è sbagliato semmai che dopo aver fatto politica torni a fare il magistrato” (“Corriere della Sera” del 23 aprile). E se uno facendo il magistrato si costruisce l’esito politico, come la mettiamo?
Sta di fatto che ora Cantone è in una posizione ibrida. In quanto presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, fa il magistrato o fa il politico o fa entrambe le cose? Formalmente, come magistrato è in aspettativa e ha dichiarato che al termine del suo mandato, 2020, tornerà a fare il magistrato. La sua posizione non sembra proprio molto comprensibile e lineare.
Ne sentiremo ancora tra questi due magistrati, che ce l’hanno con la politica, uno per troppo disprezzarla, l’altro per troppo amarla. 

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