Martedì 7 marzo, i telegiornali
di tutte le reti annunciano che in Italia continua il calo demografico. La
popolazione residente in Italia alla data del 1° gennaio 2017 è di 60.579.000
abitanti, meno 86mila rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Le nascite
nel 2016, 474mila, sono meno rispetto al 2015, 486mila. I decessi nello stesso
periodo sono diminuiti: 648mila nel 2015, 608mila nel 2016, meno 40mila. Il
saldo naturale, nascite meno decessi, è di 135mila. Un trend, che se dovesse
continuare, porterebbe ad un invecchiamento della popolazione e poi ad una
deriva demografica vera e propria. Le donne non vogliono più fare figli; quando
li fanno sono mediamente ultratrentenni. Non è un fenomeno solo italiano, ma questo
non deve consolarci.
Mercoledì 8 marzo, i telegiornali
di tutte le reti sono quasi interamente dedicati alla cosiddetta festa della
donna. Si parla diffusamente dello sciopero delle donne in tutto il mondo. Il
messaggio è chiaro: vogliono la parità con gli uomini, la libertà, la sicurezza. Basta
con le sottomissioni, basta con i femminicidi, basta con le disparità
lavorative ed economiche. Il messaggio meno gridato è però un altro: basta coi
figli. E’ questa, per natura, l’inalienabile “sottomissione” femminile. Se le
donne non vogliono fare figli è per sentirsi più libere di lavorare, di fare
carriera, di fare politica, di fare cultura, arte, giornalismo, ovvero
conquistare tutte le posizioni tradizionalmente maschili.
Se il giorno prima – 7 marzo – ci
si preoccupava del calo delle nascite, il giorno dopo – 8 marzo – si faceva passare il messaggio che le nascite
sono da ascriversi alle tante subalternità femminili, a cui bisogna dire basta.
Il giorno prima preoccupazione, il giorno dopo osanna alle cause della
preoccupazione.
Esemplificazioni quanto si vuole,
ma questa è la logica conclusione. Mai come in questo caso vale il detto della
botte piena e della moglie ubriaca. La botte piena sarebbe la società, la
popolazione, la moglie ubriaca sarebbe la donna libera da qualsiasi impegno.
Ma, come è facile arguire, con una moglie ubriaca di ideologia non si può
riempire la botte di figli.
Il nostro mondo purtroppo diventa
sempre più sconnesso. La cultura delle società democratiche occidentali sta
portando la sua civiltà alla deriva. Senza le donne nel loro ruolo naturale e
sociale per l’Occidente è la
fine. A forza di rivendicare improbabili libertà sono giunte
a distruggere qualsiasi collante sociale. La seconda metà del Novecento si è
caratterizzata per una cultura esclusiva, disgregatrice, destruens. Per questo sono state inventate nuove “classi” da
contrapporre l’una all’altra. Il ’68 s’inventò la classe degli studenti che
rivendica la libertà dalla classe dei professori. I risultati si sono visti: un
nuovo analfabetismo si è diffuso in ogni strato sociale, appena appena
attenuato dall’abilità di uso dei social. Oggi la classe delle donne è contro non
si sa chi. Contro la classe degli uomini? Contro la classe del potere, che
pure, maschile è? Lo sciopero dell’8 marzo è stato un assurdo sociale, tanto
più per la partecipazione degli uomini, ormai mentalmente asserviti al dio
diritto individuale, al faccio quello che voglio.
Non c’è alcun dubbio che
l’individualismo, con tutte le sue rivendicazioni di diritti, ha portato alla
disintegrazione di ogni forma di società, dalla micro della famiglia alla macro
della nazione. Oggi esiste l’umanità, intesa come sommatoria di uno sterminato
numero di individui, i quali hanno tutti i diritti possibili e immaginabili a prescindere
dalle necessità di ogni insieme. Non conta più il popolo, non la società, non
la famiglia, non lo Stato. Conta l’individuo, come è nella sua dimensione
psichica e fisica.
Ma la salvezza delle società
occidentali passa inevitabilmente dal recupero delle donne ai loro compiti
naturali e sociali. Sembra un’utopia regressiva, ma una soluzione diversa non
c’è. Certo, deve essere chiaro che non deve trattarsi di un salto all’indietro,
ma di una consapevole riparazione di alcune ingiustizie e di alcuni danni
subiti nei millenni dalle donne, partendo dal presupposto però che quanto è
avvenuto nel passato non è ascrivibile alla natura malvagia dell’uomo ma ad una
serie di fattori e di circostanze. Non è più il tempo di quando i nostri padri
dicevano alle mogli: taci e fa’ la fèmmina! Allora non c’era la cultura di
oggi. Era tutto un altro mondo. Oggi in famiglia c’è più collaborazione,
intesa, partecipazione. Semmai, laddove si registra un deficit di tutto questo
bisognerebbe insistere con l’educazione. La scuola è l’agenzia principale per
un obiettivo del genere. Tendere ad unire, non a contrapporre, a separare;
evidenziando gli aspetti buoni dello stare insieme e la ricaduta positiva di
qualche inevitabile rinuncia. Se è vero che le lotte femministe fino ad oggi
hanno portato indiscutibilmente ad un miglioramento delle loro condizioni, è
vero anche che ciò è stato possibile grazie all’avanzamento complessivo delle
condizioni culturali, politiche ed economiche. Ma oggi, senza per questo porre
dei paletti ad un processo di promozione sociale, si sta andando oltre ogni comprensibile rivendicazione e si sta prendendo la strada del disastro. Occorre avere la
consapevolezza che non c’è sviluppo che prima o poi non arrivi alla negazione
stessa di ogni principio di ragionevolezza.
Le donne, che continuano ostinatamente
a lottare contro gli uomini, non si rendono conto di porsi fuori della società,
di perdersi in una bolla ideologica senza via d’uscita. Non si tratta di fare
il Menenio Agrippa della situazione, ma
di rendersi conto che ormai come coesione sociale siamo in discesa a rotta di
collo. Ecco perché l’8 marzo di quest’anno, che doveva essere una festa, è
stato un fallimento.
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