“Coccarde rosse. Storia di una
brigantessa per caso” di Annalisa Bari (Bompiani, 2012) è romanzo tradizionale,
andamento pre-moderno, più otto che novecentesco. Lo è nell’ideazione e nella
strutturazione, con la trama da feuilleton,
colpi di scena, cambi d’identità, aperture e puntuali chiusure diegetiche. La
lingua è rimodulata e, a parte i passaggi dialettali, cede all’omologazione
borghese. Un “sangue di Giuda” in bocca a dei briganti ottocenteschi analfabeti
è una variatio nominis
letterariamente blasfema.
La protagonista è moderna, però,
altro che! La sua vicenda, per casi avvincenti e imprevisti, consente di farsi
un’idea della varietà e complessità di uno dei fenomeni più complicati della
nostra storia nazionale, che è il brigantaggio sullo sfondo della mai risolta
questione meridionale. In ciò l’autrice favorita dall’essere una docente di
storia, assai informata sui fatti che fanno da sfondo alla vicenda narrata. Sicché
il romanzo può essere letto come un autentico saggio storiografico, per
l’attendibilità delle varie posizioni esposte, spesso in contraddittorio, ad
ognuna delle quali si riconosce, con grande onestà intellettuale, giustezza di
ragioni, ed è allo stesso tempo un atto d’amore all’Italia unita, un singolare
omaggio celebrativo del suo 150° anniversario.
Coccarde rosse sono il distintivo dei briganti, degli oppositori ai
piemontesi. La vicenda si svolge nella Basilicata tra le pendici boscose del
Vulture, che fu teatro di terrificanti scontri tra briganti e soldati
all’indomani dell’unificazione nazionale. La giovane Luisa Rubino, orfana di
madre, vive ad Andria col padre ufficiale postale e una zia materna,
insediatasi in casa con pretese “materne” piuttosto oppressive. Ma Luisa, a cui
è stato pianificato un buon matrimonio borghese confacente al suo grado
sociale, ha ereditato dalla madre, considerata ai suoi dì una “pazzerella”, il
carattere insofferente di imposizioni e scappa di casa. Non sa dove andare,
procede “come viene viene”. E’, questa, la formula che percorre tutto il
romanzo: come viene viene. Incappa in
un gruppo di briganti, comandati da un certo Gaspare, detto Falco, che si
riconduce alla banda di Carmine Crocco, il quale ha ingaggiato una violenta
guerriglia contro i piemontesi, considerati “occupatori”. Nasce un rapporto di
amore fraterno, anche se nella reciproca inconfessabilità lascia pensare a
qualcosa di diverso. La giovane nasconde la vera identità, ne assume un’altra:
si chiama Eufemia Girone, dice una mezza verità, di essere scappata da casa
perché la matrigna la maltrattava dopo
che il padre era morto. Il brigante, che tiene segreta una terribile verità
sulla sua condizione – la moglie era stata uccisa col figlioletto ancora in grembo
dai soldati – la prende a ben volere, ha per lei un affetto rude, ordina agli
altri di non mancarle di rispetto, le insegna a sparare, ne fa una brigantessa.
Uno di essi, però, la violenta. Il Falco punisce il disgraziato e porta lei al
sicuro in casa di sua madre non prima di averle fatto scrivere una lettera, con
la quale si ordisce un’imboscata ai piemontesi, a cui lei stessa prenderà parte
con abiti maschili e armata; ma salverà la vita ad un giovane sergente
piemontese. Successivamente, tramite un prete manutengolo, il Falco la fa
sistemare in casa di un ricco barone, di idee borboniche ma mutevoli col mutar
degli eventi. Ivi la ragazza assume la terza identità, dice di chiamarsi
Anselma e che era stata avviata al chiostro. Colta e disponibile, si prende
cura della piccola Maria, figlia sordomuta del barone e si fa apprezzare per i
suoi modi e per il suo operato. Ma accade un fatto sconvolgente, il figlio del
barone, un giovane dedito al vizio del
gioco, viene rapito dai briganti, che chiedono un riscatto di trentamila scudi,
una somma ingente che rischia di mandare alla rovina il barone. La ragazza, che
nel frattempo ha conosciuto un giovane sergente piemontese, Edoardo, che la ama
ed è ricambiato, decide di intervenire in favore della famiglia baronale dalla
quale era stata accolta così bene. Reindossa gli abiti maschili, assume
l’aspetto del brigante e va a trovare il suo Falco; gli racconta l’accaduto e
gli chiede di intervenire in favore del barone. Dopo le ovvie iniziali
resistenze, il Falco se ne occupa e scopre che dietro al sequestro c’è la
macchinazione di un diretto concorrente del barone alle elezioni suppletive per
il Parlamento. La faccenda si risolve per il meglio. Ma ad un certo punto la
ragazza viene a sapere che i piemontesi stanno tendendo un agguato ai briganti.
Lei teme per il suo Falco. Giunge sul posto e nell’infuriare dello scontro
apprende che Falco è stato ucciso proprio mentre viene colpita da un
proiettile. Presa prigioniera, viene fatta curare e difesa da quel giovane sergente
a cui lei aveva salvato la vita. Restituita alla libertà, reincontra il suo
giovane innamorato. Si riaccende l’amore, nasce un progetto di famiglia, resta
incinta; ma in uno scontro tra briganti e soldati il suo Edoardo viene ucciso.
Non le resta che ritornare ad Andria, dal padre, che l’accoglie a braccia
aperte, senz’altro. Tutta la storia, che ha carattere di circolarità, è come
proposta dal figlio della protagonista, il quale finge di aver trovato lo
scritto della madre, scopre di essere figlio di un piemontese e si conferma con
ravvivato orgoglio in tutta la sua più completa italianità.
Il punto di vista della Bari sul
brigantaggio è una sorta di irenismo, basato non solo sulle ragioni che un po’
tutti hanno, briganti e soldati, nobili ed ecclesiastici, borbonici e
savoiardi, ma anche sulla convinzione che la sfera umana mai taglia gli uomini
in maniera netta, distingue tra briganti e briganti, tra piemontesi e
piemontesi, e perfino in ognuno di essi dà voce di intimo dissenso, benché
soffocato dall’impellenza dell’agire. Cercare linee di verosimiglianza
storiografica o ideologica in una simile ottica non ha senso alcuno. La
protagonista è una ragazza decisamente moderna, per vocazione ribellistica, per
fiducia umana, per visione direi poetica della vita. Come viene viene non è concetto di leggerezza, ma di fiducia nella
vita e nella storia. Senza quella cosciente incoscienza non ci sarebbe storia
nel mondo. D’altra parte l’autrice ha bisogno di una protagonista moderna per
poter trasferire quella vicenda, calata in un contesto di centocinquant’anni
fa, nel mondo d’oggi e portare i suoi messaggi costruttivi. Il genere narrativo
come quello teatrale se non ha in sé una componente creativa e trasgressiva di
posizioni reali diventa monotona litania di accadimenti, in invasione di altro
campo. Un romanzo storico – e quello della Bari lo è – non fa eccezione; deve
rispondere a criteri artistici ed estetici, nello Zeitgeist in cui viene ideato e realizzato, pur nel rispetto dello
sfondo.
L’arte della Bari non si
esaurisce nella complessa ma ordinata materia, nell’architettura compositiva,
ma in ciò che ogni personaggio ed ogni evento hanno in sé. Che il lettore
intuisca la conclusione del romanzo, tanto da trovarla quasi scontata, non ne
sminuisce il valore. I due amori devono morire entrambi. Lei deve ritornare
alla sua casa, ma porta con sé il frutto del suo pedaggio pagato alla storia, a
quel “come viene viene”, che è comunque garanzia di vita. La morte del brigante
per mano dei piemontesi e quella del piemontese per mano dei briganti sono
consustanziali alla storia, che racchiude sempre in sé un mistero. “Infurian le
forze dell’odio ferito – dice il poeta tedesco Hans Carossa – ma sgorga da
provvida morte salute”. Ecco, il messaggio forte del romanzo, che è piacevole a
leggerlo, ma importante a meditarlo: quel sangue è conseguenza dell’odio
ferito, quella morte reciproca sia almeno provvida – concetto manzoniano,
peraltro, la provvida sventura – produca finalmente salute, ossia un’Italia,
veramente unita e libera, così nei destini come nella vita di ogni giorno.
Un’Italia, purtroppo, non ancora realizzata.
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