mercoledì 19 dicembre 2012

"Coccarde rosse" di Annalisa Bari. Un romanzo-saggio che celebra l'Unità d'Italia



“Coccarde rosse. Storia di una brigantessa per caso” di Annalisa Bari (Bompiani, 2012) è romanzo tradizionale, andamento pre-moderno, più otto che novecentesco. Lo è nell’ideazione e nella strutturazione, con la trama da feuilleton, colpi di scena, cambi d’identità, aperture e puntuali chiusure diegetiche. La lingua è rimodulata e, a parte i passaggi dialettali, cede all’omologazione borghese. Un “sangue di Giuda” in bocca a dei briganti ottocenteschi analfabeti è una variatio nominis letterariamente blasfema.
La protagonista è moderna, però, altro che! La sua vicenda, per casi avvincenti e imprevisti, consente di farsi un’idea della varietà e complessità di uno dei fenomeni più complicati della nostra storia nazionale, che è il brigantaggio sullo sfondo della mai risolta questione meridionale. In ciò l’autrice favorita dall’essere una docente di storia, assai informata sui fatti che fanno da sfondo alla vicenda narrata. Sicché il romanzo può essere letto come un autentico saggio storiografico, per l’attendibilità delle varie posizioni esposte, spesso in contraddittorio, ad ognuna delle quali si riconosce, con grande onestà intellettuale, giustezza di ragioni, ed è allo stesso tempo un atto d’amore all’Italia unita, un singolare omaggio celebrativo del suo 150° anniversario.     
Coccarde rosse sono il distintivo dei briganti, degli oppositori ai piemontesi. La vicenda si svolge nella Basilicata tra le pendici boscose del Vulture, che fu teatro di terrificanti scontri tra briganti e soldati all’indomani dell’unificazione nazionale. La giovane Luisa Rubino, orfana di madre, vive ad Andria col padre ufficiale postale e una zia materna, insediatasi in casa con pretese “materne” piuttosto oppressive. Ma Luisa, a cui è stato pianificato un buon matrimonio borghese confacente al suo grado sociale, ha ereditato dalla madre, considerata ai suoi dì una “pazzerella”, il carattere insofferente di imposizioni e scappa di casa. Non sa dove andare, procede “come viene viene”. E’, questa, la formula che percorre tutto il romanzo: come viene viene. Incappa in un gruppo di briganti, comandati da un certo Gaspare, detto Falco, che si riconduce alla banda di Carmine Crocco, il quale ha ingaggiato una violenta guerriglia contro i piemontesi, considerati “occupatori”. Nasce un rapporto di amore fraterno, anche se nella reciproca inconfessabilità lascia pensare a qualcosa di diverso. La giovane nasconde la vera identità, ne assume un’altra: si chiama Eufemia Girone, dice una mezza verità, di essere scappata da casa perché la matrigna la maltrattava  dopo che il padre era morto. Il brigante, che tiene segreta una terribile verità sulla sua condizione – la moglie era stata uccisa col figlioletto ancora in grembo dai soldati – la prende a ben volere, ha per lei un affetto rude, ordina agli altri di non mancarle di rispetto, le insegna a sparare, ne fa una brigantessa. Uno di essi, però, la violenta. Il Falco punisce il disgraziato e porta lei al sicuro in casa di sua madre non prima di averle fatto scrivere una lettera, con la quale si ordisce un’imboscata ai piemontesi, a cui lei stessa prenderà parte con abiti maschili e armata; ma salverà la vita ad un giovane sergente piemontese. Successivamente, tramite un prete manutengolo, il Falco la fa sistemare in casa di un ricco barone, di idee borboniche ma mutevoli col mutar degli eventi. Ivi la ragazza assume la terza identità, dice di chiamarsi Anselma e che era stata avviata al chiostro. Colta e disponibile, si prende cura della piccola Maria, figlia sordomuta del barone e si fa apprezzare per i suoi modi e per il suo operato. Ma accade un fatto sconvolgente, il figlio del barone, un giovane  dedito al vizio del gioco, viene rapito dai briganti, che chiedono un riscatto di trentamila scudi, una somma ingente che rischia di mandare alla rovina il barone. La ragazza, che nel frattempo ha conosciuto un giovane sergente piemontese, Edoardo, che la ama ed è ricambiato, decide di intervenire in favore della famiglia baronale dalla quale era stata accolta così bene. Reindossa gli abiti maschili, assume l’aspetto del brigante e va a trovare il suo Falco; gli racconta l’accaduto e gli chiede di intervenire in favore del barone. Dopo le ovvie iniziali resistenze, il Falco se ne occupa e scopre che dietro al sequestro c’è la macchinazione di un diretto concorrente del barone alle elezioni suppletive per il Parlamento. La faccenda si risolve per il meglio. Ma ad un certo punto la ragazza viene a sapere che i piemontesi stanno tendendo un agguato ai briganti. Lei teme per il suo Falco. Giunge sul posto e nell’infuriare dello scontro apprende che Falco è stato ucciso proprio mentre viene colpita da un proiettile. Presa prigioniera, viene fatta curare e difesa da quel giovane sergente a cui lei aveva salvato la vita. Restituita alla libertà, reincontra il suo giovane innamorato. Si riaccende l’amore, nasce un progetto di famiglia, resta incinta; ma in uno scontro tra briganti e soldati il suo Edoardo viene ucciso. Non le resta che ritornare ad Andria, dal padre, che l’accoglie a braccia aperte, senz’altro. Tutta la storia, che ha carattere di circolarità, è come proposta dal figlio della protagonista, il quale finge di aver trovato lo scritto della madre, scopre di essere figlio di un piemontese e si conferma con ravvivato orgoglio in tutta la sua più completa italianità. 
Il punto di vista della Bari sul brigantaggio è una sorta di irenismo, basato non solo sulle ragioni che un po’ tutti hanno, briganti e soldati, nobili ed ecclesiastici, borbonici e savoiardi, ma anche sulla convinzione che la sfera umana mai taglia gli uomini in maniera netta, distingue tra briganti e briganti, tra piemontesi e piemontesi, e perfino in ognuno di essi dà voce di intimo dissenso, benché soffocato dall’impellenza dell’agire. Cercare linee di verosimiglianza storiografica o ideologica in una simile ottica non ha senso alcuno. La protagonista è una ragazza decisamente moderna, per vocazione ribellistica, per fiducia umana, per visione direi poetica della vita. Come viene viene non è concetto di leggerezza, ma di fiducia nella vita e nella storia. Senza quella cosciente incoscienza non ci sarebbe storia nel mondo. D’altra parte l’autrice ha bisogno di una protagonista moderna per poter trasferire quella vicenda, calata in un contesto di centocinquant’anni fa, nel mondo d’oggi e portare i suoi messaggi costruttivi. Il genere narrativo come quello teatrale se non ha in sé una componente creativa e trasgressiva di posizioni reali diventa monotona litania di accadimenti, in invasione di altro campo. Un romanzo storico – e quello della Bari lo è – non fa eccezione; deve rispondere a criteri artistici ed estetici, nello Zeitgeist in cui viene ideato e realizzato, pur nel rispetto dello sfondo.
L’arte della Bari non si esaurisce nella complessa ma ordinata materia, nell’architettura compositiva, ma in ciò che ogni personaggio ed ogni evento hanno in sé. Che il lettore intuisca la conclusione del romanzo, tanto da trovarla quasi scontata, non ne sminuisce il valore. I due amori devono morire entrambi. Lei deve ritornare alla sua casa, ma porta con sé il frutto del suo pedaggio pagato alla storia, a quel “come viene viene”, che è comunque garanzia di vita. La morte del brigante per mano dei piemontesi e quella del piemontese per mano dei briganti sono consustanziali alla storia, che racchiude sempre in sé un mistero. “Infurian le forze dell’odio ferito – dice il poeta tedesco Hans Carossa – ma sgorga da provvida morte salute”. Ecco, il messaggio forte del romanzo, che è piacevole a leggerlo, ma importante a meditarlo: quel sangue è conseguenza dell’odio ferito, quella morte reciproca sia almeno provvida – concetto manzoniano, peraltro, la provvida sventura – produca finalmente salute, ossia un’Italia, veramente unita e libera, così nei destini come nella vita di ogni giorno. Un’Italia, purtroppo, non ancora realizzata.

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