Le Primarie del Pd del 3 marzo
hanno fatto registrare un trend di calo rispetto alle precedenti. Un milione e
ottocentomila elettori, tuttavia, coi tempi che corrono, sono tanti. Lo
spettacolo ai gazebo, con la gente in fila per votare, ha avuto un effetto
rigenerante. La percentuale del vincitore, Zingaretti, intorno al settanta per
cento, è rassicurante. Habemus papam! E non è davvero poco.
Al di là del metodo discutibile
di una simile consultazione – se ne parla dalla sua introduzione nel 2005 – e
degli effetti che questa performance politica avrà in prospettiva,
consideriamola nell’immediato. Oggi, si sa, tutto scorre velocemente e tutto
cambia nel volgere di poco tempo. Previsioni non se ne possono fare.
Nell’immediato il mezzo (le
primarie) si è rivelato essere il messaggio (successo politico), un po’ secondo
la formula di MacLuhan per la comunicazione. Un partito, il Pd, che sembrava
spento, con la testa abbassata a guardarsi le punte dei piedi, ha rialzato la
testa, guarda avanti, con rinnovata volontà di riscatto. Il mezzo miracolo c’è
stato. E lo si nota anche nell’interesse che ha suscitato attraverso i media
nel paese. Il che significa che la politica ha bisogno dei suoi riti, della sua
fisiologia, della comunicazione, delle discussioni, del confronto, del voto. Un
risultato tanto più importante quanto più intorno regnano il vuoto e
pseudoconsultazioni di nessuna credibilità. Mi riferisco ai pochissimi che
votano sulla piattaforma Rousseau, nella più grigia opacità, con la pretesa di
essere maggioranza e di determinare anche scelte importanti per tutto il paese.
Detto questo non si può non
considerare la risposta che il rigenerato Pd intende dare agli elettori;
soprattutto che cosa è e dove vuole andare. Prima del voto i tre candidati alla
segreteria, Zingaretti, Martina e Giachetti, più o meno dicevano le stesse
cose, ovvero non dicevano nulla, specialmente su quei temi sensibili che gli
erano costati il crollo elettorale: immigrazione, sicurezza, sudditanza
all’Europa. Si limitavano ad attaccare episodicamente il governo ora per un
provvedimento ora per un altro, ora per un’espressione di Salvini ora per una
gaffe di Toninelli, senza mai proporre alcunché di chiaro e di positivo, sia in
termini tattici di alleanze che in termini strategici di traguardi. E se
polemica facevano la circoscrivevano agli affari loro interni. Vedi Giachetti
nei confronti di D’Alema e compagni.
Ora è tempo che si parli di
prospettive. Il che non è facile; di sicuro è più roba per commentatori e
analisti. La situazione politica italiana è assai complicata con tre
schieramenti che per giungere a formare un governo è ragionevole pensare che
due debbano allearsi e lasciare il terzo a fare l’opposizione. Con chi si
alleerebbe il Pd? E per fare che cosa?
Il dibattito politico seguito al
4 marzo 2018 ha
dimostrato che Renzi aveva ragione ad escludere qualsiasi ipotesi di intesa col
M5S. Che cosa avrebbe potuto o potrebbe tenere insieme questi due soggetti
politici? Ma altrettanto improbabile è un’alleanza del Pd con qualche spezzone
del centrodestra. Non certo con la Lega di Salvini. Ma neppure con Forza Italia
di Berlusconi. E, allora? Aspettiamo tutti il Congresso di questo partito per
cercare di vedere dove ci possono portare gli ultimi eventi, in una situazione
in cui persistono molte incertezze. Le ripetute dichiarazioni di non
belligeranza di Renzi non lasciano presagire disponibilità di accordi.
Intanto sono tornati a farsi
sentire i soliti artisti e intellettuali che ruotano attorno al partito e che
di politica non hanno mai dimostrato di capire nulla. Si son sentiti importanti
esponenti di questa intellighenzia tornare a parlare di immigrazione e di
sicurezza con gli stessi temi e toni di prima della batosta elettorale. Non vogliono
rendersi conto che c’è un paese che non la pensa come loro.
La politica di Salvini può non
piacere alle anime più sensibili dei dem per la forma con cui viene presentata
e soprattutto per i contenuti, lontani dalla concezione cristiana e
solidaristica della vita, inconciliabili con lo spirito europeistico dominante.
Ma se il paese nella sua maggioranza la pensa in un certo modo su taluni
problemi, un partito democratico che si propone di vincere le elezioni, che fa?
Delle due l’una. O cerca di elaborare proposte che vadano incontro al popolo
senza tradire la propria visione della vita, una sintesi chiara e comprensibile
che convinca la gente che è necessario e conveniente andare in quella
direzione; oppure fa come già si torna a fare, predica accoglienza senza
limiti, jus soli ed altre cose simili, che finora sono costate il consenso
elettorale. Così si ritorna al punto di partenza. E allora la crisi è assai più
grave di come la si immagina, poiché appare di tutta evidenza che la democrazia
per come oggi funziona non sarebbe adeguata a far corrispondere alla volontà
del popolo una giusta e adeguata élite rappresentativa. Sarebbe cessata
definitivamente la stagione di quando la rappresentanza politica riusciva a
guidare l’elettorato dove riteneva fosse
più opportuno, quando era l’élite ad indicare e il popolo a seguire. Se oggi
accade il contrario, il popolo impone e l’élite lo segue, può essere che non ci
siano politici all’altezza o che il sistema non funzioni più; o entrambe le
cose. Il problema non cambia, resta da trovare il punto d’incontro. Le élite
non possono governare con le bugie, il popolo non può pretendere che si governi
senza competenze e capacità.
Ad uscire da una simile
situazione dovrebbero concorrere i partiti o i movimenti moderati, che per loro
natura tendono a conciliare. Ma dovrebbero farlo con uno spirito nuovo e
soprattutto senza le vecchie contrapposizioni dell’altro secolo, quando ben
altra era la situazione politica e culturale.
Il Pd, che è l’unico partito rimasto del vecchio sistema politico, ha il
compito gravoso e difficile di fare delle scelte coraggiose, prima fra tutte
quella di uscire dall’equivoco di partito di centro che va a sinistra, come De
Gasperi battezzò la
Democrazia Cristiana nel dopoguerra. Non fosse altro che per il fatto che oggi la
sinistra è come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo
sa.
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